Road to Palestine, day 5 - Le reti di Hebron

Tra check-point, coloni e resistenza tra le case di una città (fantasma?)

24 / 5 / 2022

Le reti sono sopra la nostra testa. “Le hanno messe perché i coloni ci tiravano pietre, sedie o rifiuti”, dice Muhanned dell’ Associazione “Youth against settlements”. Alcuni di quegli oggetti li vediamo anche ora sopra le reti. “Una volta li ho visti versare acido su un palestinese, a me da lì sopra han pisciato addosso”. Hebron, la via principale del vecchio mercato. Sotto, i negozi dei palestinesi, sopra, oltre le reti circondate dal filo spinato e piene di bandiere israeliane, le case dei coloni. Sono circa 800 in questa zona protetti da 1600 soldati. C’è anche una casa su cui sventola la bandiera palestinese. Ci abita una famiglia sovrastata dalle abitazioni dei coloni e con una finestra sbarrata da inferriate che dà su un loro campo da basket. Alcune bambine scendono dalla scaletta all’ingresso, la più grande ha una piccola cicatrice sotto l’occhio. Il lascito di una scheggia di vetro dopo che un colono aveva tirato in casa una bottiglia contro la famiglia. Aver denunciato questa e altre aggressioni ha portato solo a perquisizioni e minacce contro di loro da parte dell’esercito. Qui due popoli vivono divisi da reti, transenne, muri e fili spinati ma in spazi ridottissimi. Quella tra occupanti e occupati è un’impari guerra di posizione e di logoramento. Eppure non è stato sempre così. Un tempo questa città era il centro industriale e commerciale della Palestina. In città la maggioranza musulmana conviveva da sempre con le minoranze cristiana ed ebraica. 

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L’ospedale cittadino curava sia i musulmani che gli ebrei. “I palestinesi di religione ebraica” dice Muhanned, che è molto fiero della storia multiculturale e multireligiosa della sua città. Una storia che iniziò ad essere negata durante il mandato britannico, quando iniziarono gli scontri tra i sionisti e i seguaci del Gran Mufti Husseini. Questi ultimi nel 1929 assassinarono 67 ebrei e cacciarono i superstiti dalla città. Muhanned ci presenta un anziano il cui padre allora salvò alcuni vicini di religione ebraica. “Benvenuti agli ebrei come residenti o come visitatori, non come occupanti” dice l’anziano indicando il check point israeliano lì accanto, quello che abbiamo appena attraversato. Uno dei 24 check point israeliani presenti in H2, la parte di Hebron che è “zona B”, cioè sotto controllo militare israeliano, mentre H1 è sotto controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Le case in cui vivono oggi gli ebrei di Hebron sono le stesse case in cui gli ebrei abitarono fino alla sommossa del 1929”. Dice un volantino distribuito nelle lingue di mezzo mondo fuori dalla sinagoga di Abramo. Un vero e proprio sunto di cosa significa “nazionalismo” e “uso distorto della storia”. Si dice chiaro e tondo che gli israeliani hanno il diritto di imporre con le armi la loro presenza a Hebron ma al tempo stesso si definisce un abominio il fatto che i palestinesi osino vantare diritti su Tel Aviv, Giaffa e Haifa, come se nel 1948 oltre 700.000 di loro non fossero stati cacciati con la violenza, esattamente come gli ebrei di Hebron. Si elencano anche le “decine di attentati terroristici” compiuti dai palestinesi negli ultimi decenni, ma non si fa cenno a quello che ha cambiato il volto della città. Ed è stato compiuto da un ebreo. Muhanned ci fa da guida nel luogo in cui si è consumato. Una moschea, anche questa “di Abramo”, proprio come la Sinagoga che sorge nella stessa area, ma totalmente separata da essa. Dentro il luogo di culto musulmano vi sono le tombe (o pretese tali, perché si sta parlando di un tempo del mito più che della storia) di Abramo, Sara, Isacco, Rebecca, Giacobbe e Lea. Tutte figure considerate centrali sia dall’ebraismo che dall’Islam. Anzi, stando alla Bibbia Abramo è il padre sia degli arabi che degli ebrei. E nella violenza fratricida il sangue è letteralmente scorso sulla tomba del padre comune. Il 25 febbraio 1994 Baruch Goldestein, un colono di Kyat Arba, un insediamento nei pressi di Hebron, entrò nella moschea di Abramo e apri il fuoco sui fedeli musulmani in preghiera massacrandone 29 prima di essere ucciso. I palestinesi sono convinti che non sia stato il solo a sparare ma che erano diversi i coloni che fecero fuoco quel giorno. 

Forse, visto il luogo, quel massacro avrebbe potuto essere l’occasione per un po’ di reciprocità, perché qualcuno nel governo israeliano si dicesse: “Ehi, stavolta è terrorismo di uno di noi contro di loro! Cos’è che pretendiamo da loro quando veniamo colpiti noi? Ah sì, diciamo che devono condannare e isolare gli estremisti violenti… Beh, in effetti Goldestein era seguace di un rabbino che incita pubblicamente a uccidere gli arabi, forse dovremmo arrestarlo… e mettere al bando il suo movimento… magari demoliamo quel ritrovo di pazzi a Kyat Arba…”. E invece… invece ad essere puniti furono i palestinesi. Nelle proteste e sommosse successive all’attentato l’esercito israeliano uccise decine e decine di loro. Poi con la scusa dei “motivi di sicurezza” murò porte e finestre di svariate case palestinesi. Ci furono famiglie che si ritrovarono murate in casa e per uscire dovettero passare dal tetto o dal giardino dei vicini. Altre si ritrovarono in vie sottoposte ad un durissimo coprifuoco che impediva loro di uscire di casa per andare a lavorare o a scuola. 

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Negozi e altre attività tra cui una scuola vennero chiusi dalle autorità, la scuola venne confiscata e assegnata ai coloni. Il risultato fu la cacciata della popolazione palestinese da intere vie. La creazione di una situazione di palese apartheid. Muhanned ce la fa toccare con mano. Nei pressi della sinagoga di Abramo i soldati ti domandano se sei cristiano, ebreo o musulmano. Ebrei e cristiani possono avvicinarsi e visitare la sinagoga, i musulmani no. Veniamo interpellati sulla nostra fede religiosa da militari in divisa con un’arma in pugno in mezzo a una strada. Una scena non propriamente compatibile con quanto di solito definiamo “democrazia”. Il fatto che l’opzione “atei e agnostici” non sia neppure contemplata fa capire chiaro e tondo che qui non di fede di sta parlando ma dell’imposizione di una gerarchia sulla base della comunità d’origine. Se si volesse semplicemente tutelare la tranquillità di un luogo di culto ebraico si potrebbe riservare l’accesso ai soli ebrei praticanti (anche perché ne devono mangiare di polenta i musulmani per fare al pari con la violenza antiebraica commessa nella storia dai cristiani). Se ci fosse solo la necessità di garantire la sicurezza contro gli attentati terroristici basterebbero la richiesta di documenti e le perquisizioni (per altro ad ora abbastanza superficiali). Ebreo, Cristiano o Musulmano? No, questa domanda fatta da uomini e donne armati e in divisa al centro di una strada non c’entra nulla né con la fede, né con la sicurezza ma solo con la fissazione di identità e gerarchie. “Noi ebrei possiamo muoverci solo nel 3% di Hebron” dice il volantino dei coloni distribuito anche in italiano all’infopoint e nel bookstore all’ingresso della sinagoga. 

Peccato che siano i malati o i feriti palestinesi a morire quando le ambulanze non arrivano in tempo perché bloccate a un check point o attaccate dai coloni. “Il 99% delle volte l’ambulanza non arriva” dice Muhanned. Sono i palestinesi a dover girare mezza città per aggirare le strade loro interdette. Sono i palestinesi che possono essere arrestati dall’esercito israeliano e trattenuti per anni in carcere in “detenzione amministrativa” (vale a dire senza alcun tipo di processo) anche se sono minorenni. È semplicemente impossibile, anzi inimmaginabile, che un colono possa essere arrestato dalla polizia palestinese, questa anzi si schiera solitamente dinnanzi ai check point israeliani tra H1 e H2 per evitare che i ragazzini tirino pietre agli occupanti. Ma tutti, israeliani e palestinesi, hanno perso allo stesso modo uno dei luoghi più importanti della loro città. Poco distante dalla sinagoga e dalla moschea vi è una via in cui alcuni soldati sbarrano l’ingresso, anche qui solo ai palestinesi. A noi i passaporti europei garantiscono di poter passare ed entrare in una via completamente vuota fatta di negozi con le porte saldate. Shuada street era una delle vie commerciali più importanti. 

Quando Muhanned ci andava da bambino suo padre gli diceva di tenere sempre stretta la sua mano per evitare di perdersi nella calca che la riempiva costantemente. Dopo il 1994, arrivò la chiusura forzata dei negozi per “proteggere” la colonia che continua a crescere tutt’intorno a questa via svuotata e abbandonata, chiusa ora su un lato da un muro di cemento. “Ci siamo solo ripresi le case in cui gli ebrei hanno vissuto fino al 1929”. Sarebbero stati contenti gli ebrei uccisi e cacciati allora di vedere la loro città violentata così? Di vederne i luoghi che erano più vivi trasformati in deserto? Di vedere i loro correligionari massacrare innocenti proprio come fecero i seguaci del Gran Mufti? Ma sopratutto cosa accidenti c’entrano quegli ebrei di allora, quei palestinesi di religione ebraica, con questi coloni di oggi? 

Gli stessi soldati israeliani chiamano “Chicago Street” una delle vie da loro abitate. La stragrande maggioranza di chi ci vive oggi è venuto dagli USA per togliere ai palestinesi di Hebron la propria città, perché così vogliono le sacre scritture. Cosa c’entra questo con una secolare storia comune andata in frantumi nel XX secolo? Se qualcosa di quella storia oggi ha un’eco nel presente di certo sta nella lotta comune degli attivisti palestinesi e israeliani. Nel negozietto di un suo amico che ci offre una tazzina di karkadè, Muhanned ci presenta Givati, un attivista di “Break the silence”, un’associazione formata da ex-soldati di leva israeliani che denunciano la realtà dell’occupazione e la violenza dei coloni. Un paio di ore dopo, mentre ci dirigiamo verso la sede di “Youth against settlements”, ci ritroviamo a passare i controlli di un check point insieme ad un gruppo di eleganti tedeschi di mezza età a cui proprio Givati sta facendo da guida. Muhanned, che fa da cicerone a noi, si deve subire le minacciose domande del militare in comando nella postazione.

“Che ci fai con questa gente?” “Gli faccio visitare la città. “Non sei una guida turistica, non puoi farlo!”. “Questa è una questione amministrativa su cui tu non hai autorità, se non posso far da guida ne risponderò alla polizia palestinese”. Il soldato (o più probabilmente il sottufficiale) sbuffa. Guarda Muhanned. Guarda Givati. Guarda noi, stracciata e stravolta pattuglia di cercaguai italiani, con due ore di sonno in corpo in due giorni. Guarda i vecchi tedeschi elegantoni. Ci guarda e dice a Muhanned: “Siete tutti delle maledette zecche”. E intende proprio tutto noi, componenti di un casuale ritrovo internazionale. Evidentemente abbiamo materializzato uno dei peggiori incubi dei cani da guardia dello stato nazione, qualunque esso sia: la possibilità di gente che dal basso si parla, si capisce e cerca di abbattere i loro muri e fili spinati. A cena facciamo onore ad un’abbondante grigliata nella sede di “Youth against settlements”. Si tratta di una villetta sottratta all’inizio della seconda intifada, nel 2000, dall’esercito israeliano a una famiglia palestinese e trasformata in “sede investigativa” cioè luogo di interrogatori e torture. Il progetto dei coloni era quello di prendersi la casa appena l’esercito l'avesse abbandonata. Ma i ragazzi dell’associazione arrivarono prima e a prezzo di una lunga battaglia legale riuscirono a farne la propria sede. 

Youth against settlements è un’organizzazione non violenta che supporta i palestinesi nel documentare le violenze dei coloni e dell’esercito, oltre che cercare di raccontarle all’opinione pubblica internazionale. Mentre ceniamo, dal centro città (la sede è su una collina ai suoi bordi) sentiamo arrivare rumori sempre più forti. Fino ai boati delle granate stordenti. È in corso una manifestazione contro l’allargamento della colonia nei pressi della moschea di Abramo. Nelle ore successive sapremo di feriti e arresti, tra cui una documentarista palestinese. Per dormire veniamo ospitati da alcune famiglie palestinesi che abitano nelle vie circostanti, presidiate in forze dai soldati israeliani. Li vediamo aggirarsi a gruppi parlando e ridendo a voce alta, uno porta addirittura due piccole casse stereo alla cintura che sparano musica a tutto volume. 

Rivediamo ciò che già abbiamo visto la notte scorsa durante l’incursione al villaggio di At-Tawuani: quello israeliano è un esercito che si muove nelle città e nei villaggi palestinesi sapendo benissimo di aver di fronte gente inerme, costretta a subire l’arbitrio e le sbruffonate degli occupanti.