Siamo tutti migranti, finalmente. Un ricordo di Matteo Dean

11 / 6 / 2014

Sono passati tre anni dalla scomparsa di Matteo Dean. Inevitabile che il desiderio di ricordarlo sia declinato, anche, nella diffusione dei suoi scritti. Oltre al pregio del racconto sulle realtà sociali che indagava -, e per prima quella messicana di cui era ormai parte da anni -, ciò che Matteo scriveva aveva soprattutto il dono di essere spesso anche racconto dell’esperienza personale del suo autore, del suo essere parte – o meglio, ‘partigiano’ – delle esperienze collettive, organizzate o meno, di cui raccontava. 

L’articolo che proponiamo in questo terzo anniversario è stato il primo di una serie che Matteo avrebbe poi scritto per il quotidiano messicano La Jornada e dedicata alla figura del migrante. Per molti versi è anche un racconto autobiografico e quindi, crediamo, particolarmente adatto ad esprimere la profondità del ricordo che molte e molti di noi custodiscono di Matteo.

Qui è anche possibile scaricare il Pdf del libro “Palabras en movimiento”, una raccolta di articoli di Matteo Dean, pubblicati in Italia o tradotti dal castigliano, curata dall’Associazione ‘Ya Basta!’. Segnaliamo anche l'articolo biografico su Matteo pubblicato a suo tempo su La Jornada da Luis Hernández Navarro, mentre a questo link si trova l'articolo originale 'Ser Migrante' che qui proponiamo tradotto in italiano.

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Essere migrante

di Matteo Dean

Nello scrivere la parola migrante, la maggior parte dei programmi di videoscrittura degli attuali computer segnalano errore. Il correttore spiega che esiste la parola immigrato o emigrante. Allo stesso modo, nel Dizionario della lingua spagnola edito dall’Accademia Reale Spagnola, la parola migrante compare solo come un’integrazione della ventitreesima edizione. Questa assenza della parola dal quadro semantico ufficiale non è una casualità.

Migrante è il participio presente del verbo migrare. E in quanto tale contempla l’azione stessa del migrare, l’azione presente e non compiuta del muoversi da un territorio ad un altro. Lo stesso verbo migrare non viene contemplato in quanto tale, ma solamente nelle sue accezioni dell’immigrare e dell’emigrare. Limiti di un idioma? Chissà, forse soltanto limiti di un linguaggio che ancora non è capace o non vuole essere capace di spiegare – e riconoscere – un fenomeno reale: quello del migrante.

Essere migrante significa molte cose e servirebbero interi libri per avvicinarci appena a comprendere cos’è un migrante oggi. E’ certo che accettando l’utilizzo del participio presente, diamo per certi alcuni aspetti. Il primo, innanzitutto, è riconoscere che oggi il migrante è una persona, un essere umano, che si muove e che mai, o quasi, si ferma. Si muove da un paese all’altro, da un territorio a un altro e non arriva mai. Il migrante oggi è una persona senza nazionalità della quale, se facilmente possiamo individuare la provenienza, difficilmente possiamo individuare una destinazione. O meglio, possiamo individuarne solo il destino, quello di muoversi, viaggiare, esplorare, imparare e, rare volte, essere compreso. Il migrante oggi trova difficile riconoscere una propria nazionalità di origine, è altrettanto certo che acquisisce, lo voglia o no, molto della nazionalità che lo ospita, sebbene solo temporaneamente. Modi di essere e di pensare, forme di relazione e differenti modi di vedere sono le caratteristiche odierne dei cittadini migranti.

E’ stato detto che il migrante è per definizione un ribelle. Questo è certo, come lo è il fatto che migrante è altrettanto una persona in fuga. Andandosene dal suo paese, per le ragioni più varie che lo spingono – dalla tragedia di una guerra fino al semplice desiderio di conoscere altre regioni, passando per carestie o bisogno economico, ma anche per crisi esistenziali o semplice ingenuità -, il migrante realizza un desiderio forse incosciente di ribellione. La ribellione incontra la sua ragione nella volontà, più o meno esplicita, del migrante di disobbedire alle regole, di cui molte non scritte, che lo condannano alla vita che sta lasciando: sia questa una vita di povertà e mancanza di opportunità, o una vita in guerra, o una vita condannata alla monotonia di una società senza perché né prospettive. Ma allo stesso tempo, andarsene rappresenta una specie di resa di fronte alla realtà contro la quale non si è riusciti. Una resa che magari può essere vista come tale solo accademicamente, perché a volte andarsene, scappare e abbandonare una casa, è l’unica soluzione di fronte a un pericolo concreto. Tuttavia è possibile, nel tempo e con la fredda calma della pace raggiunta altrove, che questa resa riprenda a pesare come una colpa oppure, più semplicemente, come pura soddisfazione.

Si dirà che non sono migranti tutti coloro che lasciano il proprio paese per viaggiare verso un altro e là stabilirsi. Si dirà che molti sono migranti temporanei, poiché viaggiano per un periodo, il necessario per costruire un capitale, e poi ritornano. E si dirà che altri vanno per poi non tornare più. Entrambi, si obietterà, non sono migranti intesi con quel participio presente che li rende soggetti attivi, sempre. Forse è così; tuttavia, vi sono due cose da dire al riguardo: la prima, che il migrante che va e viene crediamo non cesserà mai di andare, sebbene sia in compagnia dei suoi sogni e ricordi, e conserverà sempre nella memoria un’esperienza unica che è quella di confrontarsi e scommettere su sé stesso. Se l’uomo è conservatore per natura, perché non vuole rischiare ciò che possiede per quanto poco sia, il migrante ha già raggiunto il punto di non ritorno e sa già cosa significa giocare con il destino e con la propria sorte. La seconda è che, per quanto un migrante decida finalmente di fermarsi in terra straniera e stabilirvi una famiglia e una vita propria, certo è che mai smetterà di migrare a ritroso. Questo ritorno, se non sarà fisico, sarà sicuramente virtuale e consisterà nella ricerca costante di informazioni e notizie sul proprio paese di origine. Un migrante non sarà della sua propria nazionalità, ma nemmeno smetterà di esserlo.

E’ per ciò che un migrante è oggi qualcosa di straordinario. Né migliore né peggiore, ma del tutto differente. Qualcosa che nemmeno le lingue riescono a contemplare. E che tantomeno i governi sono stati capaci di comprendere. Un agire che in tendenza apporta più ricchezza di quanta ne porti via anche senza saperlo. Esseri umani che prima di essere persone che si spostano sul territorio sono cittadini che sono stati e sono disposti a scommettere su qualcosa di migliore per sé stessi. E che per giocare fino in fondo la propria scommessa, affrontano il non conosciuto. Attitudini che possono essere molto positive e che possono salvarci dal mondo globalizzato ma chiuso che ci si vuole vendere. Non è il soggetto rivoluzionario su cui puntare per giungere ai cambiamenti radicali a cui molti aspirano, ma il soggetto in cui è necessario trasformarsi per abbandonare l’appartenenza a un paese e riconoscerci come cittadini del mondo, così come si afferma da ormai molti anni. Perché, finalmente, siamo tutti migranti.

Pubblicato su La Jornada del 1 aprile 2008

(traduzione di Andrea Olivieri - foto di Spartaco Frisari)