Uno Stato frammentato, con milizie di tutti gli orientamenti in conflitto permanente tra loro, dove la convivenza civile paga e ha pagato un costo altissimo

Sirialand, verso una frammentazione etnico-religiosa

di Bz
28 / 3 / 2013

“La Siria era uno degli ultimi luoghi del Medio Oriente post-ottomano in cui comunità e religioni diverse vivevano fianco a fianco, contribuendo a una straordinaria cultura locale che si rifletteva sulla gastronomia, sull’architettura, sull’arte e sulle pratiche religiose.”

Questo era la realtà sullo sfondo, così come ce lo ha raccontato Aya Homsi, una blogger siro-italiana, all’interno della presentazione del libro ‘Ripartenze’ con Joshua Evangelista, Basir Ahang e Riccardo Bottazzo. Ora si va verso una “somalizzazione” della Repubblica di Al Assad, ossia alla frammentazione del territorio in feudi controllati da diversi signori della guerra. Uno Stato frammentato, con milizie di tutti gli orientamenti in conflitto permanente tra loro, dove la convivenza civile paga e ha pagato un costo altissimo in morti [80>100 mila], in sfollati [oltre un milione], in esuli [oltre 200 mila], una terra di tutti e di nessuno, dove le potenze politico militari dell’area si contendono le aree di influenza per contenere l’influenza dell’una o dell’altra, con i grandi attori [USA,Russia, Cina e UE] sullo sfondo.

Ieri, a Doha nel Qatar, il capo dell’opposizione siriana, Moaz al Khatib, si è seduto al posto riservato alla delegazione di Damasco al meeting della Lega araba. L’assemblea non riconosce più il governo del presidente Bashar el Assad come legittimo – da tempo la Siria è stata sospesa dalla Lega – e apre invece le porte al Consiglio nazionale siriano, il nuovo organismo messo faticosamente assieme dopo laboriose trattative sponsorizzate dall’occidente e dagli stati arabi del Golfo. Il Consiglio siriano in realtà è sull’orlo di una crisi di nervi permanente, lo stesso Khatib domenica si è dimesso “ufficialmente”: ma ieri l’occasione era troppo importante e si è presentato all’appuntamento storico come se nulla fosse e così hanno fatto i capi di stato arabi. Qualsiasi cosa l’avesse spinto alle dimissioni da leader è stata per il momento messa da parte. “Respingiamo qualsiasi ordine straniero. Le differenze a livello internazionale hanno esacerbato questa crisi. Noi abbiamo creato la rivoluzione e soltanto il popolo siriano deciderà come la rivoluzione finirà. Determineremo chi guiderà il paese. Vivremo assieme in armonia”. Il messaggio era diretto implicitamente al patrocinio del Qatar e dell’Arabia Saudita, che aiutano i ribelli perché inseguono disegni geopolitici più ampi. Con Russia e Iran invece è stato esplicito: “Richiamate indietro i vostri ‘esperti’ dal nostro paese”.

Proprio l’appoggio indiscriminato a gruppi armati sunniti da parte di Qatar e Arabia Saudita starebbe da tempo preoccupando anche gli Stati Uniti: agli americani i rapporti sulla presenza di numerosi gruppuscoli di combattenti stranieri, armati fino ai denti e apertamente jihadisti, non piacciono affatto.

L’Arabia Saudita, per esempio, avrebbe recentemente finanziato l’acquisto di una grande quantità di armi leggere in Croazia da far arrivare ai ribelli in Siria. Ribelli che, nonostante gli aiuti dall’esterno, rimangono molto mal equipaggiati rispetto alle forze lealiste, chiuse a testuggine intorno al presidente Al Assad. Ed ecco una delle ragioni per le quali l’opposizione armata non è ancora riuscita ad avere la meglio, dopo due anni di combattimenti, 70.000 morti e due milioni e mezzo di profughi rifugiatisi nei Paesi vicini: Giordania, Libano, Iraq. Turchia, Egitto e altri Stati del Nord Africa.

Proprio lunedì l’esercito libanese informava che gli aerei dell’aviazione siriana avevano lanciato quattro missili sulla città di Arsal, vicina al confine con la Siria, un’informazione poi confermata dal Dipartimento di Stato americano. La città, secondo il ministero degli Esteri siriano, sarebbe usata da molti combattenti dell’opposizione come passaggio per entrare in Siria. Ancora, risale allo scorso febbraio l’ultimatum che l’Esercito Siriano Libero ha rivolto a Hezbollah, minacciando di attaccarlo in Libano se non avesse smesso di combattere i ribelli in Siria. Imad Salamey, professore associato di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali dell’Università Americana Libanese, è tuttavia cauto sulla possibilità che Hezbollah si lanci in uno scontro aperto con i ribelli siriani. L’eventuale caduta di Al Assad avrebbe indubbiamente conseguenze dirette sia sull’Iran che su Hezbollah, che, dal canto suo, starebbe creando una rete di amicizie con le milizie leali ad Al Assad. «Gli strateghi di Hezbollah sanno che potrebbero dover entrare in contatto con altri gruppi politici, anche sunniti, se Al Assad dovesse cadere. – dice Salamey – Dopo tutto Hezbollah è un partito islamista e ha già trattato con Hamas (che è sunnita) e anche con gruppi islamisti (anch’essi sunniti) in Egitto. Quindi perché non dovrebbe farlo con i gruppi islamisti siriani se questi dovessero uscire vittoriosi dal conflitto?».

Timori, quelli di una Siria post-Al Assad fortemente divisa e scossa da violenti conflitti interni, che si basano anche sull’eterogeneità della società siriana. Definirlo un conflitto interconfessionale sarebbe quanto meno superficiale, ma resta il fatto che il tessuto sociale siriano è estremamente complesso. Nonostante il regime sia prevalentemente di fede alauita, sarebbe sbagliato pensare che l’intera maggioranza sunnita del Paese sia corsa ad ingrossare le fila dell’opposizione. Molte famiglie sunnite, benestanti e residenti nei maggiori centri urbani del Paese, Damasco e Aleppo in primis, sono leali al regime per questioni economiche e imprenditoriali. È invece fra i sunniti delle zone rurali, quelli più poveri, che la chiamata alle armi dell’Esercito siriano libero ha avuto maggior successo.

Ma la Siria non si divide solo fra sciiti e sunniti. Una delle preoccupazioni principali di Ankara è la questione curda, ad esempio. I curdi rappresentano una minoranza etnica presente in Turchia, Iran, Iraq e, appunto, Siria. Proprio in Siria, dal conflitto, è nato il Partito di unione democratica (Pyd l’acronimo in lingua curda). Si tratta della milizia curda più forte nel Paese, legata al Pkk turco, questione ancora irrisolta in una Turchia che aspira al ruolo di leadership nel Grande Medio Oriente. Ancora, l’est della Siria, chiamato anche Jazira (isola), è un territorio prevalentemente agricolo e pastorale, ma è pure quello dove si concentrano la maggior parte delle riserve petrolifere del Paese. Tenendo conto che l’agricoltura rappresenta circa il 20% del Pil e che il petrolio ne costituisce un altro 20%, oltre a valere metà delle entrate statali, non è erroneo dire che si tratta di una regione cruciale per il futuro della Siria. Una regione nella quale il fattore confessionale perde nettamente importanza in confronto a quello tribale. Tanto che le tribù che hanno deciso di voltare le spalle ad Al Assad hanno costituito il Consiglio tribale, e ora collaborano con l’opposizione oltre che con l’Esercito siriano libero e, sembrerebbe, Jabhat Al Nusra. La decisione, da parte degli Stati Uniti, di classificare quest’ultima come organizzazione terrorista è stata contestata da Moaz Al Khatib, presidente della Coalizione nazionale delle forze di opposizione e della rivoluzione che, lo scorso dicembre, ha chiesto a Washington di riconsiderare la loro decisione.

I Paesi che circondano la Siria hanno già i loro problemi interni, le fazioni che stanno lottando in Siria potrebbero essere fattori destabilizzanti per loro. Se alla fine i Fratelli Musulmani arrivassero al potere in Siria, questo avrebbe conseguenze in Giordania, dove i Fratelli sono ben organizzati. Il governo iracheno poi, credo si trovi davanti a un vero dilemma. Senza dubbio a Baghdad non piace affatto il regime di Al Assad, considerando il supporto che questo ha dato a determinati gruppi coinvolti nella guerra civile irachena. Ma d’altra parte se in Siria arrivasse al potere un gruppo sunnita radicale, le cose non sarebbero per niente facili per il governo (sciita ndr) di Al Maliki».Tra i Paesi più esposti c’è l’Iran che, nell’eventualità del crollo del regime di Al Assad, si troverebbe ancora più isolato e circondato da alleati della Nato. E poi quello, nel migliore dei casi, di un Paese frammentato e diviso che esisterebbe solo sulla carta.

Ma non c’è bisogno di assistere ad altri mesi di conflitto per sapere che né la Siria né la sua società saranno più quelle di prima. Una terribile, triste conseguenza dei veti incrociati [ Russia/USA, EU/Israele, Turchia/IRAN ] che hanno anestetizzato l’informazione, immobilizzato tutti gli attori politici e abbandonato la rivoluzione siriana alla macelleria dell’esercito, dei servizi interni, delle varie bande di miliziani.


Links Utili: