Pubblichiamo questa corrispondenza sanguigna che ci arriva da uno dei 'giovani'che hanno partecipato alle manifestazioni, agli scontri che si sono susseguiti in questi mesi in tutta la Slovenia e che ben rappresenta il sentire comune del movimento più radicale, slegato dai partiti.

Slovenia, corrispondenza dalla piazza

1 / 3 / 2013

Venerdì (8 feb) abbiamo attaccato ancora le barriere della polizia. Dico “noi”, ma non ero lì. “Noi” è ciò che io chiamo i miei compagni, la mia crew. E dico “noi” anche perché condividiamo tutti la responsabilità di tutto, come deve essere. Venerdì ero ad una assemblea sulle mobilitazioni Europee per i common days of action di Marzo, a pensarvi e a pensare alle possibili convergenze.
Stavo pensando a come parlare del contesto Europeo con un clima simile, mentre i miei compagni erano contro le barriere che la polizia aveva eretto intorno al parlamento.
In quell'occasione non c'ero a causa di quella riunione, ma anche perché mal sopportavo tutti quegli intellettuali, quegli appartenenti in generale al “mondo della cultura”, che non fanno altro che scaricarci, tentare di relegarci ai margini e gridare a gran voce che dovremmo essere lasciati fuori dalle proteste.

Loro vorrebbero restaurare la “nostra” Slovenia attraverso una rifondazione morale. Ma io dico che quella loro Slovenia morale fu costruita sulla ruberia a milioni di persone della ex-Yugoslovaia, la cancellazione di 25mila migranti e uno stato legalitariamente etno-centrico.  Io dico che quella loro Slovenia se la possono inculare, non è il posto dove io vivo.
Intanto, almeno, siamo tutti d'accordo che questa élite politica con le sue misure di austerity, deve andarsene. È questo il motivo per cui loro fanno performances in strada e noi attacchiamo barriere e transenne.

Non credo di avere idee brillanti su come spingere oltre il nostro movimento in una qualche particolare direzione, non sono nemmeno particolarmente bravo ad articolare in modo netto e critico la nostra strategia politica. In ogni caso la mia politicizzazione è solo agli inizi: di me intanto però posso dire che so riconoscere una buona idea politica da una cattiva.

È chiaro che ce ne sono alcune di ovvie: il progetto culturale che sta tentando di centralizzare la protesta è una di quelle cattive. Non solo spinge ai margini noi e altri che agiscono in modo più diretto e radicale, ma anche puzza di nuovo partito politico. Replica esattamente quelle relazioni di potere che stiamo combattendo a livello statale, ma si ritrova senza nemmeno l'intelligenza di Syriza: sta attivamente eradicando parte della sua base. Non sto dicendo che avremmo bisogno qui di un'esperienza simile a Syriza, ma almeno loro comprendono che nei processi è necessario includere anche i movimenti; un partito semplicemente non è sufficiente e finirebbe per darci in pasto ai leoni.

Quello che voglio dire è che le nostre azioni sono politicamente brillanti, secondo me (è l'opinione di uno che ancora non si è lanciato contro le barriere della polizia). Ma abbiamo completamente sbagliato nel non spiegarle pubblicamente! Non un testo è uscito per spiegare perché facciamo ciò che facciamo. E quindi veniamo visti da altri che protestano ma sono meno radicali come ragazzi arrabbiati (e lo siamo) in cerca di emozioni il venerdi sera (cosa che non è).
Persino fra noi ci chiediamo perché ci lanciamo contro le barriere, ma non ne discutiamo. Allora vorrei dare il mio piccolo contributo su questo. Vorrei dire perché secondo me lo facciamo, sperando, come spero, che qualcuno che c'era lo scriva.

Simbolicamente non servono molte spiegazioni per comprendere il senso delle barriere, e non è inutile sottolineare che molte delle barriere intorno al parlamenteo sono ora fisse. Potete anche leggere l'eccellente piccolo pezzo “il contesto delle barriere” sul blog “porte aperte” (http://www.rokpregelj.com/).

Personalmente, le trovo un insulto. La sola cosa che hanno da dirmi è che lo stato non è interessato alla nostra opinione. Mentre almeno 100mila persone si sono mobilitate in tutto il paese in tre mesi, la classe politica protegge le porte e va avanti con il suo programma.. Per essere sicuri di non essere interrotti, mettono delle barriere e ci piazziano delle guardie titolate a bastonarci se abbiamo qualcosa da obiettare.
Allora è ovvio, no? Le barriere sono una struttura palesemente antidemocratica, letteralmente e simbolicamente, che dice “questo non è il vostro parlamento. Appartiene alla élite politica e ai suoi sponsors, quindi cortesemente andate a farvi fottere”.

In sostanza, le barriere devono sparire, devono sparire insieme a tutta l'élite politica, le dannate banche e le misure di austerity.

Quando ci arrampichiamo sulle barriere, gli diamo fuoco, le prendiamo a calci, penso che stiamo dicendo “no, andate voi a farvi fottere”. Questi sono le nostre strade, i nostri palazzi, il nostro futuro, e quindi noi decidiamo quando ci deve essere una barriera (sostanzialmente mai!). I nostri attacchi contro le barriere sono un rifiuto della disciplina simbolica, e non solo, a cui i profittatori vorrebbero sottoporci. Quelle barriere sono la manifestazione fisica di tutte le barriere che l'austerity ci impone (basta pensare alle tasse scolastiche, alle tasse, al costo della sanità, delle assicurazioni, degli affitti).
Queste barriere devono essere abbattute perché ci impediscono l'accesso a ciò di cui necessitiamo per vivere. Esattamente come devono essere abbattute queste barriere che stanno privatizzando e controllando il nostro spazio di incontro e democrazia (non che io consideri il parlamento come chissà che spazio di democrazia, ma le piazze pubbliche e gli spazi spazi comuni lo sono).

E poi queste pratiche sono liberatorie. Ci permettono di chiarire che tutto intorno a noi stanno crescendo barriere, e che esse sono inevitabilmente prodromiche per l'indebitamento e l'austerità.
Inoltre le nostre azioni dichiarano che lotteremo per abbattere queste barriere, combatteremo per costruire un'alternativa comune. Magari nelle piazze lo facciamo con i nostri corpi e un po' di fuochi d'artificio, ma nella vita quotidiana lo facciamo tessendo un discorso pubblico e con pratiche di sovversione.

Anche di quelli che ci chiamano provocatori violenti vorrei parlare, per dire non siamo rappresentati dalle loro forme di protesta, e quindi resistiamo al tentativo di  centralizzare e controllare le dimostrazioni facendo le nostre proprie azioni. Vogliamo mantenere la nostra autonomia nel determinare quali sono le azioni migliori per noi.