Soffocare Gaza

26 / 5 / 2021

Il colosso israeliano si scontra con la resistenza dal basso palestinese. Un articolo di Dana El Kurd, tratto da Sidecar, e tradotto per globalproject.info da Marco Miotto.

La violenza contro i palestinesi nelle ultime settimane è stata così terrificante che è stata portata all’attenzione di coloro che ne erano precedentemente immuni. Sono oltre duecento i morti nella sola Striscia di Gaza, cinquantanove dei quali bambini; gli uffici mediatici sono stati bombardati, migliaia di persone sono state ferite e decine di migliaia sfollate. I palestinesi in Israele sono stati uccisi da folle inferocite mentre la polizia guardava dall’altra parte. Il risultato di tutto ciò è che i soliti tabù si stanno rompendo. Sei membri del congresso statunitense hanno condannato gli attacchi su Gaza e Alexandria Ocasio-Cortez ha riconosciuto Israele come uno stato in cui viene perpetrato l’apartheid. Detto questo, gli Stai Uniti sono ben lontani dal revocare il supporto a Netanyahu. In tre occasioni, durante gli ultimi bombardamenti, gli Usa hanno bloccato l’appello del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un cessate il fuoco, dando il via libera ad una campagna senza pietà contro la Striscia di Gaza. Se Trump era il più sfacciato sostenitore dell’aggressione israeliana, il suo successore non è molto differente.

Nulla di tutto questo è una novità. Gaza è stata sotto attacco a intervalli regolari dal 2008 e con ogni incursione israeliana abbiamo assistito ogni volta ad uno schema simile: pulizia etnica dei palestinesi in Israele e nei territori occupati, immense provocazioni accompagnate da repressione sul campo e gli F16 che fanno piovere bombe sugli abitanti di Gaza. Le organizzazioni umanitarie – sia internazionali che israeliane – hanno condannato ripetutamente l’embargo illegale di Gaza e la spinta in avanti del colonialismo israeliano nei territori occupati. Eppure i loro appelli non trovano ascolto.

Questo succede perché, tristemente, la maggioranza della popolazione ebraica di Israele sostiene il governo nella sua impresa. La posizione della destra estrema – la quale ha ottenuto il miglior risultato di sempre nelle elezioni al Knesset di marzo – è quasi identica a quella dei partiti liberali nel loro zelo per le azioni repressive contro i palestinesi. Le offensive nei quartieri – in particolare a Sheik Jarrah, Silwan e Wadi Joz, dove i residenti dovranno essere espulsi per fare spazio ai coloni ebrei – rappresentano i tentativi del governo di mostrare il loro impegno a creare città prive di arabi.

Che cosa ci ha portati a questo punto? Sin dagli accordi di Oslo dei primi anni ‘90 gli israeliani, sostenuti dagli Stai Uniti e dall’Unione Europea, con la collaborazione dell’Autorità Palestinese (PA) e l'acquiescenza o la capitolazione degli stati arabi, hanno instaurato delle strutture che hanno istituzionalizzato il controllo e l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. La frammentazione geografica della Cisgiordania in aerea A, B e C, e la sua separazione da Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza fanno parte di questo riassetto. Per di più, l’incessante intervento americano ha fatto del suo meglio per dislocare il popolo palestinese con lo scopo di rendere impossibile la resistenza ai loro oppressori. La leadership di Fatah (sinonimo di Autorità Palestinese) agisce da subappaltatrice all’occupazione israeliana ad ogni livello, reprimendo con la forza la resistenza o i movimenti di protesta qualora incomincino a risvegliarsi. Tuttavia, malgrado tutto ciò, le generazioni post Trattati di Oslo non desisteranno dal perseguire l’obiettivo dell’autodeterminazione che la “comunità internazionale” ha negato loro. Per oltre un decennio, la loro lotta anticoloniale si è confrontata su tre piani separati di intervento contro le potenze straniere: la pressione diplomatica, l’aiuto internazionale e il coinvolgimento degli apparati di sicurezza. Vale la pena di soffermarci per esaminare questi aspetti.

Le elezioni legislative palestinesi del 2006 sono un caso emblematico di come la pressione diplomatica è stata utilizzata per soggiogare e dividere la popolazione palestinese. Sappiamo ora, grazie ai documenti palestinese pubblicati da Wikileaks, che il Regno Unito e gli Strati Uniti hanno ordinato alla PA di reprimere forzosamente il partito islamico, Hamas, prima del voto. Quando Hamas ha finito per vincere le elezioni con un ampio margine, la PA ha subito pressioni internazionali per prevenire che Hamas prendesse il potere. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto sanzioni ai palestinesi che hanno decimato l’economia. L’aiuto umanitario, che avrebbe dovuto tenere a galla la popolazione, ha bypassato il nuovo governo di Hamas, e una parte di quell’aiuto è finito nei conti correnti personali dei funzionari della PA, incluso il presidente Mahmoud Abbas. Il partito politico uscente, Fatah, è stato autorizzato da Washington a mantenere il controllo del governo ed ha iniziato un giro di vite nei confronti di Hamas che, a sua volta, ha provocato un’ondata di violenza interna al popolo palestinese. La rottura di governance tra Gaza e la Cisgiordania persiste tuttora, malgrado gli appelli all’unità lanciati dai cittadini dei due territori.

Anche gli aiuti internazionali vengono usati come arma per garantire l’assoggettamento permanente della PA nei confronti dell’IDF (Israeli Defence Forces). Dopo le elezioni del 2006, Fatah ha consolidato il potere in Cisgiordania e il nuovo primo ministro, Salam Fayyad, ha intrapreso quello che lui ha chiamato una strategia di “liberazione attraverso le riforme”. Il lento miglioramento delle condizioni di vita, ha detto, porrebbe le basi per la costruzione dello Stato. Però, in realtà, tutto quel che ha ottenuto è stato gonfiare i conti correnti all’estero dello strato più alto della burocrazia palestinese e indebitare ancora di più la popolazione palestinese. La vera sovranità non è mai stata data alla PA, la quale era essenzialmente relegata a sovrintendere all’implementazione di progetti di sviluppo di piccola scala, ideati dai donatori internazionali coordinati da Israele. Gli aiuti internazionali usati per questi progetti sono monitorati e gestiti da due agenzie: la Joint Liaison Committee (Comitato di Collegamento Comune) e la Task Force on Project Implementation (Task Force sull’Attuazione dei Progetti). Israele detiene un seggio in entrambe le agenzie, mentre l’Autorità Palestinese non detiene alcun seggio in nessuna delle due agenzie.

Anche quando gli aiuti internazionali sono aumentati negli anni recenti, essi sono andati in aree che non alleviano le povere condizioni economiche dei territori. Nel periodo successivo alle elezioni del 2006, solo l’1% è stato destinato all’agricoltura, nonostante essa sia la colonna portante storica dell’economia palestinese. Significativamente, nessun piano di aiuto internazionale affrontava il ruolo ostruzionista di Israele. Quindi, piuttosto che realizzare gli obiettivi dichiarati della PA – promuovere l’economia per ottenere la creazione dello stato promesso loro da Israele – i fondi hanno semplicemente consolidato lo status quo.

Quando ho intervistato svariati funzionari di ministeri della PA, hanno confermato che le direttive americane dettavano la linea dei loro progetti di sviluppo e delle loro posizioni politiche. Anche se sono finanziati da svariati donatori stranieri – l’Unione Europea, i paesi del Golfo, il Giappone – gli interessi statunitensi hanno sempre la precedenza. Uno dei modi diretti con cui l’egemone americano interferisce nelle processi decisionali interni della PA è attraverso i suoi programmi di formazione. Gli scatti di carriera per molti burocrati palestinesi sono contingenti a quanti programmi di formazione partecipano e a quali certificazioni ottengono. Quindi, quando gli americani finanziano i corsi di formazione fanno in modo di selezionare i partecipanti, escludendo chiunque sia un sostenitore dell’emancipazione palestinese e costringendo i burocrati più critici al pensionamento anticipato. I corsi di formazione stessi fungono da mezzo di indottrinamento, con programmi di studio rettificati da funzionari americani per censurare il materiale sull’occupazione israeliana e sulla mobilitazione popolare.

E per quanto riguarda il coinvolgimento degli apparati di sicurezza? Dal 2006 in poi la PA è stata incoraggiata a riformare il proprio apparato di sicurezza per assicurare la controparte israeliana che la PA e le sue forze di sicurezza fossero dei partner affidabili. Hanno preso delle misure tali da assicurare non solo che i partiti di opposizione e gli islamisti all’interno della Cisgiordania venissero ridotti, ma anche che qualsiasi insurrezione di massa – come quella vista durante la seconda intifada – non succeda nuovamente. Da allora la PA ha speso un terzo del suo budget sugli apparati di sicurezza, portando a un drammatico aumento dei poteri della polizia e una maggiore coordinazione con Israele nell’organizzare la repressione politica. Il risultato è che la PA si è sempre più alienata i suoi cittadini, usando i suoi meccanismi autoritari per prendere di mira giornalisti, studenti e dissidenti che si rifiutano di accettare l’attuale accordo. Il tristemente noto assassinio dello scrittore e attivista Bassel al-Arraj nel 2017 – ucciso dall’IDF dopo essere stato torturato e imprigionato dalla PA per una protesta non violenta nel suo villaggio di Walaja – è emblematico.

Queste dinamiche spiegano le condizioni che noi vediamo oggi, in cui la PA è diventata irrilevante per le mobilitazioni di massa a Gerusalemme, per l’integrazione dei Palestinesi all’interno della Linea Verde (Green Line) in queste mobilitazioni e per le proteste contro la pulizia etnica all’interno delle città israeliane. I capi della PA erano assenti dalla resistenza a Sheik Jarrah e nella Città Vecchia, mentre anche Hamas non ha avuto un ruolo importante nelle proteste fino a che non sono incominciati gli attacchi aerei. Il movimento di protesta dei primi giorni di maggio era diretto da attivisti dal basso, non dai partiti politici.

Da quando è cominciata la rivolta la PA è entrata per bloccare le proteste in solidarietà con Gerusalemme e Gaza. La scorsa settimana Biden ha telefonato ad Abbas per reiterare il suo “impegno a rafforzare la collaborazione americana e palestinese” e per sottolineare il bisogno che Hamas interrompa la sua resistenza. Dal canto suo la PA ha giocato il solito ruolo di placare e rassicurare l’asse Stati Uniti-Israele. Quando i palestinesi si sono radunati a Hebron e a Ramallah per esprimere la loro opposizione agli attacchi aerei e alle espulsioni forzate, sono stati bloccati dalle forze di sicurezza della PA.

Il vero impatto su Israele è stato, e continuerà ad essere, da parte dei palestinesi sul campo. I Palestinesi della Palestina storica, all’interno della Linea Verde e nei territori occupati stanno mettendo in pratica oggi (18 maggio) uno sciopero generale in congiunzione con le proteste in Cisgiordania, Israele e Gerusalemme. Se i palestinesi possano aumentare questa pressione sarà il fattore determinante per costringere Israele a fare delle concessioni, anche se incoraggerà il governo di estrema destra di Netanyahu a spezzare la volontà dei prigionieri a cielo aperto a Gaza. Anche se l’ultima tornata di resistenza non equivale ad una terza intifada nel senso di una rivolta sostenuta, tali atti di sfida avranno comunque un impatto cumulativo. È probabile che, come le precedenti proteste a Gerusalemme hanno mobilitato grosse fette di società palestinese – nel 2014, in seguito all’assassinio del sedicenne palestinese Mohammed Abu Khedir da parte dei coloni israeliani; e nel 2017, dopo che restrizioni sono state messe alla moschea di Al Aqsa – questa ondata di malcontento abbia delle ramificazioni di lunga durata. In particolare gli attivisti all’interno della Linea Verde stanno stabilendo dei nuovi canali organizzativi che potrebbero cambiare la forma delle future mobilitazioni, che sia intifada oppure no. 

A volte la gente chiede: il blocco USA-EU non sarà costretto a imporre sanzioni su Israele? Non sarà costretto a tagliare le forniture di armamenti e cessare le sovvenzioni, data l’entità delle atrocità israeliane? La gente vive nel paese dei sogni. Viceversa, il popolo palestinese è ben sveglio.