Storia dello Yemen: dall’unificazione alla vigilia della rivoluzione (terza e ultima parte)

8 / 4 / 2020

Il 19 marzo 2015 cominciava la Guerra in Yemen, un conflitto asimmetrico dagli altissimi costi umani a cui i media occidentali hanno dato un rilievo estremamente limitato. In questa occasione, pubblichiamo la terza u ultima parte di una serie di contributi che inquadrano il passato e il presente dello Yemen a cinque anni dall’inizio della guerra (qui la prima e la seconda).

La strada verso l’unificazione

Mentre il dialogo tra i due Yemen continuava senza produrre risultati concreti, la situazione economica per entrambi i paesi peggiorò a causa della recessione globale degli anni ’80. Gli aiuti per la Repubblica araba dello Yemen (RAY o Yemen del Nord) diminuirono assieme alle rimesse provenienti dai paesi petroliferi. Il governo di Sana’a fu allora costretto a rivedere le voci di spesa su diversi settori, ad eccezione dei fondi destinati ad esercito, polizia e clientelismo. La fine delle ostilità con il Fronte democratico nazionale (FDN)  – un’alleanza di organizzazioni create nel 1976 da gruppi di sinistra ostili al governo centrale – avevano anzi richiesto l’espansione del budget del presidente ‘Ali ‘Abdudallah Salih per comprarsi la fedeltà dei vecchi nemici. La scoperta di petrolio e gas nel 1984 permise solo in parte di ridurre i tagli alla spesa pubblica e di mitigare il crescente malcontento popolare.

Se negli anni ‘80 la RAY conosceva l’austerity, la Repubblica democratica popolare dello Yemen (RDPY o Yemen del Sud) cercò di rispondere ai problemi economici abbandonando alcune restrizioni al libero mercato ed aprendosi di più al settore privato, che passò dal rappresentare il 66% dell’economia nel 1980 al 72% cinque anni più tardi. Alla crisi economica, si aggiunse poi quella politica nella capitale, Aden, dove si ingrossarono le fila degli oppositori del presidente Muhammad ‘Ali Nasir, che ricopriva anche le cariche di primo ministro e segretario generale del partito unico, il Partito socialista yemenita. Le tensioni, che si espressero in fazioni interne allo stesso partito, portarono agli “Eventi del 13 aprile” del 1986, quando il tentativo, in parte riuscito, del presidente di eliminare i principali nemici portò ad una guerra civile su scala ridotta che durò alcune settimane, al termine della quale, ‘Ali Nasir fu costretto a scappare nella RAY con un seguito di 30.000 uomini. Lo spargimento portò ad una perdita di fiducia della popolazione nella classe dirigente e ad un conseguente indebolimento del regime, proprio in un momento storico in cui l’Unione Sovietica chiedeva ai suoi alleati – tra cui appunto Aden – di ridurre la propria dipendenza da Mosca. Le difficoltà che attraversava la classe dirigente della PDRY la spinsero a riconsiderare l’opzione dell’unificazione.

La fine degli anni ’80 vide il realizzarsi di alcune condizioni a livello regionale che favorirono ulteriormente questa strada. Alla fine della guerra contro l’Iran nel 1988, l’Iraq promosse un riallineamento della politica dei paesi arabi. Linea condivisa anche dall’Egitto, che voleva rilanciare la Lega Araba e riprenderne il controllo dopo essere stato marginalizzato dalla sua politica di normalizzazione dei rapporti con Israele. All’interno di questo riallineamento arabo, lo Yemen del Nord acquisiva una posizione diplomatica di rilievo ed entrò a far parte, con lo stupore dell’Arabia Saudita, del Consiglio di cooperazione arabo, creato nel 1989 da Egitto, Iraq e Giordania.

Ulteriore fattore che spinse verso la riunificazione, oltre alla debolezza interna dei due regimi e al contesto regionale ed internazionale, era la scoperta di petrolio e gas al confine tra i due Yemen alla fine degli anni ‘80. La paura che ciò portasse ad un nuovo scontro tra i due paesi, sul quale avrebbe probabilmente capitalizzato l’Arabia Saudita, favorì ulteriormente il riavvicinamento di Sana’a ed Aden. Nel novembre del 1989, il presidente del Nord Salih e quello del Sud ‘Ali Salim al-Bid annunciarono ad Aden che la bozza dell’accordo di unità scritto nel 1981 sarebbe stato l’oggetto di un referendum popolare. Sei mesi dopo, il 22 maggio 1990, i due paesi, senza neppure il referendum, si unirono in quella che divenne la Repubblica dello Yemen.

La guerra civile, o meglio guerra tra partiti, del 1994

Unificare i due stati fu la grande sfida dei primi anni ’90. Nonostante il peso maggiore del Nord in termini economici, diplomatici e demografici (11 milioni contro i probabili 2,5 del Sud), le posizioni di governo vennero spartite equamente. La carica di presidente venne affidata al presidente del Nord Salih, nonché leader del partito Congresso Popolare Generale (CPG), mentre ad al-Bid, presidente del Sud e segretario generale del Partito socialista yemenita (PSY), ricopriva quella di vice. Un terzo partito, allineato con il CPG e presente soprattutto a Nord, era quello degli islamisti della Congregazione Yemenita per la Riforma (d’ora in poi Islah), il cui potenziamento venne favorito da Salih in chiave anti-socialista.

Discorsi su libertà di parola e su una maggiore democratizzazione dello stato furono però subito spazzati via dalla crescente violenza delle forze di Salih, deciso a prendere il controllo dell’intero paese. Nel primo biennio vennero assassinati, probabilmente dai servizi segreti di quest’ultimo e dai suoi alleati, oltre 150 esponenti di sinistra, molti dei quali appartenenti al PSY. I risultati delle elezioni dell’aprile del ’93 indebolirono ulteriormente il partito socialista, che ottenne 56 seggi su 301, e confermarono la superiorità dell’alleanza tra GPC (123 seggi) e Islah (62), che si presero 4 dei 5 posti del Consiglio Presidenziale, l’organo esecutivo del paese.

Nel frattempo, il presidente Salih aveva iniziato a mobilitare l’esercito a Nord, preparando due blocchi di truppe, una attorno a Sana’a e l’altra pronta ad entrare ad Aden. I tentativi di compromesso, che portarono Salih e al-Bid ad incontrarsi prima in Oman e poi in Giordania, fallirono e i combattimenti iniziarono il 27 aprile del 1994. Le forze del presidente – aiutate in questo anche da quelle islamiste, appartenenti all’Islah e non – vinsero nettamente su quelle del PSY, nonostante questo, ribaltando il gioco di alleanze dei decenni precedenti, fosse sostenuto ed armato dai sauditi. Il 21 maggio il leader socialista al-Bid annunciò la secessione dello Yemen del Sud da quello del Nord, portando però in questo modo l’opinione pubblica a schierarsi a favore delle forze unioniste. La presa da parte di queste di Aden il 7 luglio portò al definitivo collasso del campo socialista e quindi alla fine del conflitto.

Alle elezioni del 1997, quanto rimaneva del PSY boicottò le urne, mentre il GPC e l’Islah si spartivano i 301 seggi, conquistandone rispettivamente 188 e 53. Due anni più tardi, il presidente Salih si presentò alle presidenziali appoggiato anche da quello che era diventata, almeno sulla carta, la maggiore forza di opposizione, l’Islah, e vinse con il 96,3% dei voti.

Gli attori politici chiave dello Yemen unificato

Da allora, il presidente ha governato lo Yemen com’era abituato a fare con la Repubblica araba dello Yemen. Ha esteso il sistema – imperniato su quello militare e di sicurezza – fatto di clientelismo e di distribuzione dell’accesso a denaro e risorse economiche. Le istituzioni dello stato non erano altro che uno strumento amministrativo in mano a questa élite, che si impegnava a presentare come democratiche per assicurarsi il sostegno delle potenze occidentali. Solo al volgere del millennio il sistema di potere di Salih ha iniziato a scricchiolare, cosa che si è resa evidente alle elezioni del 2006, quando una coalizione di partiti che raggruppavano anche ciò che restava del PSY ha ottenuto il 23% dei voti.

Altra forza di opposizione partitica di un certo peso erano gli islamisti dell’Islah. Fondato nel 1990, ha il sostegno di forze tribali, guidate dalla famiglia al-Ahmar, dei Fratelli Musulmani e di altri gruppi islamisti più radicali. A tenere insieme questa forza composita sono stati i fondi sauditi e il ribaltarsi delle relazioni tra Islah e il presidente Salih. Come già accennato, lo sviluppo dell’Islah venne inizialmente favorito da Salih, che vi vedeva un modo per ridurre l’influenza del PSY. L’alleanza era basata anche su un’interpretazione conservatrice dell’Islam, che l’Islah promosse attraverso il controllo delle moschee, la creazione di istituti indipendenti e la propria influenza sul ministero dell’istruzione. Già, però, a partire dal 1997, quando l’indebolimento del PSY non rendeva più necessario un forte Islah agli occhi del presidente Salih, le relazioni tra islamisti e regime iniziarono a raffreddarsi. Alla morte nel 2007 del leader dell’Islah, Abdullah al-Ahmar, verso il quale il presidente nutriva grande rispetto, i rapporti tra le due forze passarono definitivamente dalla cooperazione alla competizione.

Uno degli attori principali dell’attuale guerra civile sono gli Huthi, un movimento che si è coagulato all’inizio degli anni ’90 come reazione ad una percepita marginalizzazione degli zayditi (ramo sciita presente soprattutto nel nord del paese) rispetto ai connazionali sunniti. Inizialmente sostenuti da Salih in chiave anti-Islah, l’ostilità tra il movimento e le forze presidenziali è cresciuta fino ad un primo scontro diretto nel 2004. Da allora fino al 2010, gli Huthi sono riusciti ad allargare la cerchia dei propri sostenitori, sciiti e non, spinti a voltare le spalle a Salih a causa della violenza usata da questo per sconfiggere il nemico zayidita. L’escalation del conflitto, che ha contato sei scontri tra il 2004 e il 2010, è stato inoltre alimentato dall’intrecciarsi ad esso di rivalità e tensioni tribali. Alla vigilia della rivoluzione, gli Huthi erano riusciti a prevalere nel nord dimostrando la propria superiorità militare sulle forze di Salih, nonostante il supporto dato a questo dall’Arabia Saudita.

Un ruolo importante viene è stato giocato negli ultimi decenni anche dal mosaico poco coerente dei gruppi separatisti presenti nei territori dell’ex Repubblica popolare (Yemen del Sud). Il movimento separatista del Sud è nato ufficialmente nel 2006 con la creazione dell’Associazione di personale militare, di sicurezza e civile in congedo, che riuniva tutti quegli ufficiali che Salih aveva messo in congedo dopo la guerra civile dubitando della loro lealtà verso lo Yemen unificato e considerandoli una minaccia per il proprio potere. Gli ufficiali hanno dato vita ad un movimento pacifico che rivendicava il reintegro in funzione oppure un aumento delle mensilità. Come con gli Huthi, la risposta di Salih è stata violenta e ha portato alla trasformazione dell’associazione in un movimento eterogeneo con rivendicazioni politiche più ampie e diversificate, tra le quali anche quella della secessione. Questo movimento popolare e frammentato si è poi unito al più generale movimento rivoluzionario del 2011, che si poneva come obiettivo la cacciata di Salih.

Una quinta pedina dello scacchiere politico dello Yemen pre-rivoluzionario è l’universo dei gruppi jihadisti. Questi sono apparsi in Yemen all’inizio degli anni ’90 ed erano inizialmente costituiti da quegli yemeniti che rientravano dalla guerra in Afghanistan contro le forze sovietiche e che appartenevano a gruppi coordinati da Osama bin Laden. Inizialmente molto deboli, questi gruppi riemersero dopo il 2005 e, unendosi al ramo saudita di al-Qaida, costituirono nel 2009 l’al-Qaida della Penisola Araba, che si è resa responsabile di diversi attacchi che hanno causato centinaia di morti tra il 2011 e il 2015, soprattutto a Sana’a. In alcuni di questi, è possibile che i jihadisti siano stati supportati da Salih, desideroso di provare l’incapacità di controllo del paese da parte del regime di transizione che lo aveva sostituito dopo la rivoluzione del 2011.

Economica e poche risorse

Non sarebbe possibile comprendere i motivi della rivoluzione e della successiva guerra civile senza considerare brevemente le difficoltà economiche che ha dovuto affrontare il paese sin dagli anni ’80. Qualche mese dopo l’unificazione infatti, l’Iraq invase il Kuwait, portando gli Stati Uniti a schierarsi a fianco del secondo. Lo Yemen all’epoca era membro temporaneo del Consiglio di sicurezza dell’ONU, dove era l’unico paese arabo. Quando l’organo ha proposto di condannare l’invasione, il governo di Sana’a è stato l’unico ad astenersi, schierandosi di fatto a sostegno dell’Iraq. Le conseguenze di questa presa di posizione sono state drammatiche. L’Arabia Saudita, già contraria all’unificazione del paese, ha immediatamente revocato lo status speciale che prevedeva per gli yemeniti nel proprio territorio. L’esempio fu seguito da altri stati del Golfo, tanto che circa 800.000 lavoratori yemeniti sono stati costretti a rimpatriare. La conseguente riduzione delle rimesse, assieme a quello degli aiuti internazionali, ha avuto un impatto enorme sull’economia, soprattutto nei territori dell’ex RDPY.

All’inizio del nuovo millennio, lo Yemen contava 18 milioni di abitanti, che sono arrivati a 24 alla vigilia della rivoluzione del 2011. Le riserve di idrocarburi che avevano creato molte speranze negli anni ’80 hanno portato ossigeno allo stato unificato, da cui derivava la maggior parte delle entrate, senza tuttavia permettere di mettere in campo le risorse necessarie per migliorare la situazione economica del paese. La produzione di petrolio ha raggiunto il suo picco nel 2001 e secondo alcune previsioni dovrebbe finire entro pochi anni, mentre quella di gas non è riuscita a sostituirla come fonte di entrate. Neanche il rinnovato afflusso di rimesse dai paesi del Golfo ha cambiato le cose. Per questo la Repubblica ha deciso negli anni ’90 di affidarsi ancora una volta al credito del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che da allora hanno spinto per la riforma in senso neo-liberista dell’economia yemenita, fatta di privatizzazioni e pareggio in bilancio, che si è però rilevata essere inefficace. A tutto questo bisogna aggiungere la crisi idrica che da anni sta colpendo il paese e che rende lo Yemen uno dei paesi con la più preoccupante scarsità d’acqua al mondo.