Trump e la finanza: Wall Street torna protagonista

12 / 11 / 2016

Prosegue l'approfondimento attorno all'elezione di Trump alla Casa Bianca. Gli scenari che si aprono, sul piano economico-finanziario, li descrive molto bene Andrea Fumagalli su Effimera.

L’esito delle elezioni americane con la vittoria di Trump (nonostante abbia avuto un numero assoluto  di voti inferiore a quelli ottenuti da Hillary Clinton – alla faccia della rappresentanza) è stata salutata da molti media di sinistra e di movimento con un misto di indignazione per le posizioni apertamente razziste e misogine del magnate americano  e con la conferma che la sinistra, spostandosi al centro e strizzando l’occhiolino ai poteri forti delle multinazionali e di Wall Street è destinata a soccombere.  Il motivo sta nell’incapacità di cogliere il disagio e il rancore crescente di una parte del suo popolo lavoratore, oggi indebolito e impoverito dalla crisi economica.  Di fronte al “tradimento” della sinistra “riformista”, il populismo ha gioco facile a insinuarsi nell’elettorato della working class, fomentando posizioni protezionistiche, nazionaliste e xenofobe: un populismo che può, secondo alcuni, farsi interprete potenziale di una  nuova lotta di classe.  Era già successo con il referendum inglese sulla Brexit:  si è ripetuto ora con il voto americano, che ha premiato chi ha tuonato contro gli effetti della globalizzazione e del potere della finanza.

Questa lettura ci pare troppo semplicistica. Fintanto che si rimane, infatti, sulla superficie, tale analisi può apparire verosimile e ragionevole ma se si va un po’ in profondità altri elementi devono essere considerati.

La working class che ha votato Trump (e in Gran Bretagna a favore della Brexit) è principalmente bianca e maschile, di età media tra i 40 e i 60 anni, quella che ha vissuto negli ultimi decenni un forte ridimensionamento sia quantitativo  che qualitativo.  Le statistiche del Bureau of Labour Statistics (BLS) ci dicono che oggi negli Usa  la forza lavoro nei settori  manifatturieri (operai e impiegati) non supera il 10% del totale e nel complesso dei settore industriale (comprendenti i comparti energetici, estrattivi e delle costruzioni) arriva al 15%.

A tale drastica riduzione di numero è seguito anche un declino del riconoscimento sociale. Spesso da realtà metropolitane, dopo la crisi della grande industria, ci si è spostati in zone rurali, le fonti di reddito si sono assottigliate e sempre più importante è il ricorso al risparmio per garantire il mantenimento di un tenore di vita dignitoso, avendo perso la speranza di un ascesa sociale, come era invece avvenuto per la generazione precedente.

Ma a differenza del passato (come, seppur in misura minore, in Gran Bretagna) il risparmio è gestito dai mercati finanziari e diventa, in presenza di minor reddito da lavoro, una componente sempre più importante nella gestione del bilancio familiare.

In altre parole, il tenore di vita di questo ceto medio impoverito è legato sempre più alla dinamica della finanza, sia come gestore dei fondi assicurativi che delle diverse forme di indebitamento. Come per i pensionati.

Potremmo dire che il biopotere della finanza si esercita in misura relativamente maggiore su questi strati sociali. Potrebbe sembrare un paradosso ma non lo è, dal momento che è proprio questa componente sociale che è stata la carne viva su cui si è scatenata la crisi dei subprime del 2008 e la speculazione finanziaria che ne è derivata.

Oppure potremmo dire che si tratta di un buon esempio di sussunzione vitale alle logiche finanziarie del capitale.

A riguardo vogliamo ricordare quanto successe più di 20 anni fa, quando cominciò la rivoluzione Zapatista in Chapas. A seguito di ciò, nel gennaio 1994, la firma del Nafta venne rimandata con effetti negativi sui fondi pensioni dei lavoratori californiani che avevano scommesso sulla rivalutazione del Pesos messicano (che, invece,  si svalutò in quei giorni di oltre il 20%), al punto che si organizzarono manifestazioni e prese di posizione “sindacali” contro la stessa sollevazione zapatista. Venne così messa a nudo la capacità dei mercati finanziari di facilitare (o, meglio, aizzare) il processo di divisione internazionale del lavoro ponendo i lavoratori Usa contro quelli messicani.

Come sappiano, Trump ha giocato molto su questo aspetto per i propri fini elettorali.

Ma ciò non significa che Trump, che si è posto  a parole come paladino contro il potere finanziario, voglia realmente operare per ridimensionare tale potere.

Due fatti ci dicono l’opposto.

Sul sito ufficiale della campagna elettorale di Trump,  poche sono le notizie che ci dicono quali sono i punti centrali del programma del nuovo governo Usa a maggioranza assoluta repubblicana. Ma un punto risulta chiaro: la volontà di abolire il Dodd-Frank Act. Il Dodd-Frank Act è un complesso intervento voluto dall’amministrazione di Barack Obama per promuovere una più stretta e completa regolazione della finanza statunitense incentivando al tempo stesso una tutela dei consumatori e del sistema economico statunitensi.

Gli obiettivi dichiarati sono quello di scongiurare la creazione di nuove bolle, come quella che ha portato alla crisi dei mutui subprime, e quello di evitare l’accumulo di un eccesso di rischio da parte dei contribuenti americani, promuovendo una maggiore trasparenza su diversi mercati finanziari.

L’efficacia di tale provvedimento è stata praticamente nulla. Ma è certo che la sua abolizione ha un valore altamente simbolico: segnala il via libera a quello stesso potere finanziario che lo stesso Trump a parole ha sempre dichiarato di voler combattere.

Ma c’è di più.

Secondo le ultime indiscrezioni di stampa,  nel ruolo di Ministro del Tesoro (la carica più importante, insieme al Governatore/trice della Federal Reserve, nel definire le linee di politica economica Usa) potrebbero sedere l’amministratore delegato di JPMorgan, Jamie Dimon, incarico per il quale girano anche i nomi dell’ex di Goldman Sachs, Steve Mnuchin, e Carl Icahn, un investitore noto in tutto il mondo economico per la sua attività di Corporate raider (ovvero chi favorisce l’acquisizione di un impresa per poi spacchettarla e venderla in lotti separati per lucrare laute plusvalenze sulla pelle dei dipendenti – alla faccia della working class!), non a caso attività spesso discussa, il 43º uomo più ricco del mondosecondo la rivista Forbes.

Paradossalmente, Wall Street potrebbe tornare protagonista con Trump più di quanto avrebbe potuto essere con Clinton!. E ritorna protagonista con il fior fiore dei suoi pescecani!

Che dire?

Trump ha fatto della bandiera contro l’oligarchia di Wall Street uno dei suoi cavalli di battaglia elettorale. Appena eletto, si rivela come il più fedele alleato di Wall Street. E, sicuramente, ciò non ha contrastato la sua elezione da parte dei poteri forti, come ha subito dimostrato la reazione dei mercati finanziari.

L’esito delle elezioni americane non ci può sorprendere e non è un momento di rottura. In un contesto elettorale dove il diritto al voto è fortemente influenzato dal censo e dalla classe sociale di appartenenza non può essere altrimenti. Non è un caso, che la percentuale di voto  tra il le classi sociali meno abbienti – il proletariato dei ghetti e delle minoranze etniche  (il vero serbatoio della forza lavoro a basso costo, per lo più non bianca, dai  McJobs ai lavoratori del terziario arretrato –  con redditi e precarietà ben al di sotto della ex-aristocrazia operaia bianca) è stata intorno al 30%. Da sempre, il presidente Usa è espressione dell’oligarchia di potere, un potere spesso attraversato da faide e conflittualità, comunque interne ai poteri dominanti. Sicuramente anche Hillary Clinton era espressione di tale cerchia di potere, come lo sono stati altri presidenti Usa, Obama non escluso. Ma Hillary Clinton era una donna e riteniamo che questo “particolare” non sia da sottovalutare in una cultura americana ancora impregnata da pregiudizi sessisti.

Nulla di nuovo sotto il sole, dunque.

Occorre prendere atto che le posizione populiste, che si presentano come espressione anti-sistemica, in realtà rappresentano oggi una delle forme di maggior sostegno all’attuale sistema di potere.