Un califfato nel cuore del Medio Oriente

L'offensiva jihadista sbaraglia l'esercito mercenario iracheno e mette in allarme il mondo.

di Bz
13 / 6 / 2014

A West Point, meno di un mese fa, Obama, parlando di fronte ai cadetti dell'accademia militare, aveva risfoderato la retorica imperiale di Bush senior e junior, attirandosi le critiche di ampi settori della stampa democratica americana. Ha sfoderato l'unilateralismo e la missione statunitense di garantire la 'pace e la democrazia nel mondo' anche con l'intervento militare diretto.
Dentro un quadro internazionale, profondamente mutato e squilibrato dal presentarsi sullo scenario continentale di nuove e vecchie potenze regionali, il discorso obamiano risuonava, appunto, retorico, alla ricerca di consenso e di aperture di credito negli ambienti dell'apparato industriale militare, dopo una serie di insucessi, specialmente in medio oriente e in sud america, con ha costellato il suo mandato.
Ma con ogni evidenza le informative che gli erano giunte dall'Iraq e dalla Siria,  avevano messo già in stato di pre allarme lo staff militare della Cas Bianca, tanto da rilanciare una politica interventista che non esclude alcuna possibilità.
E' chiaro per tutti che 'nessuno' si può permettere il lusso che nell'area petrolifera, per il controllo della quale si sono combattute ben 2 guerre, con un grande dispendio di energie, specialmente, da parte degli USA, sorga un califfato jihadista [sunnita], potenzialmente capace di catalizare forze e energie tali da destabilizzare l'intera area.
L'Iran sciita subito si è messo a disposizione; la Turchia minaccia un intervento per liberare i suoi camionisti sequestrati; i Kurdi sono entrati in azione ed hanno preso alcune aree territoriali sottocontrollo; gli Stai Uniti hanno approntato un ponte aereo per il rifornimento delle strutture militari, armi leggere droni missili e altri tecnici militari, necessarie a 'tenere Bagdad'; un esercito di mercenari si sta reclutando.
Ci sono tutti gli elementi per dire che siamo di fronte ad una 'nuova crisi di nervi' per quanto riguarda l'intero Medio Oriente e gli equilibri geostrategici del pianeta.

Riportiamo qui di seguito l'articolo di Chiara Cruciati da NENAnews.



Dopo la presa di Fallujah e Ramadi, dopo Mosul e Baiji, ieri è toccato a Tikrti, città natale dell’ex dittatore Saddam Hussein. Ora l’obiettivo è ben altro: Baghdad, la capitale. In un audio registrato e diffuso questa mattina le milizie islamiste dell’Isil (lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) promettono l’occupazione di altre città irachene, fino ad arrivare a Baghdad.

Una registrazione di 17 minuti in cui con – molta probabilità per bocca del portavoce Abu Mohammed al-Adnani – il gruppo indica i futuri obiettivi: la capitale irachena e Karbala, città sacra per la comunità sciita. Baghdad, dopo la presa di Tikrit e dell’area delle raffinerie di petrolio, è vicinissima, così vicina da far tremare i polsi all’amministrazione Washington che sta organizzando l’invio immediato di droni e missili, anche se ciò obbligherà il governo a bypassare il Congresso (chiamato a dare il via libera nel caso di aiuti inviati a Paesi che hanno avuto rapporti commerciali ed economici con l’Iraq, nonostante le sanzioni).

“La sicurezza ha reiterato l’impegno degli Usa a lavorare con il governo iracheno e i leader in tutto l’Iraq per sostenere un approccio unificato contro l’aggressione dell’Isil – ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki – Siamo in contatto con i governi turco e iracheno e pronti a fornire ogni assistenza appropriata”.

La battaglia si sta facendo regionale, con l’Isil che minaccia le autorità turche – rapiti ieri 25 membri del consolato turco, tra cui il console generale, e 32 camionisti – e la Siria dove controlla vaste aree a Nord-Est, dopo aver marginalizzato le opposizioni moderate e islamiste rivali. Secondo alcuni analisti, il gruppo guidato dal temibile Al-Baghdadi e uscito da Al Qaeda, di cui ormai non è più parte – sarebbe composto da circa 5mila miliziani. Un numero troppo basso per giustificare una simile offensiva, tanto ben organizzata, e gestita da uomini ben equipaggiati. Molti – tra cui Damasco – puntano il dito contro i Paesi del Golfo che hanno in questi anni finanziato, stipendiato e armato i gruppi islamisti di stanza in Siria e impegnati nel conflitto contro il regime. Gli stessi Stati Uniti hanno più volte frenato gli aiuti militari alle opposizioni per timore che finissero nella mani di gruppi qaedisti.

Certo è che in Iraq le file dell’Isil siano state rimpolpate da altri gruppi o miliziani, tra cui i baathisti fedeli ancora a Saddam e alcune milizie sunnite, che con gli islamisti hanno lo stesso obiettivo: far cadere il governo settario di Al Maliki. Senza dimenticate le razzie compiute nelle città occupate: residenti di Tikrit raccontano di soldati che pacificamente consegnano le loro armi ai miliziani dell’Isil, mentre il governo urlava minacce di durissime punizioni per i disertori.

Nei giorni scorsi la fuga di esercito e polizia ha messo in luce le enormi carenze delle forze di sicurezza irachene e l’incapacità del governo di gestirle e sostenerle. La popolazione è stata lasciata sola. La diserzione unita alla violenza dell’offensiva degli islamisti stanno provocando un vero e proprio esodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione: nelle ultime ore da Mosul e dalla provincia di Ninawa stanno fuggendo a piedi o su mezzi fatiscenti mezzo milione di persone, un terzo della popolazione della città. Tutti diretti verso Nord, verso il Kurdistan iracheno: le immagini che arrivano dai checkpoint posti lungo il percorso raccontano il dramma delle famiglie, con sulle spalle poche valigie e negli occhi il terrore di finire intrappolati in un’altra insopportabile spirale di violenza. Quella stessa violenza che non ha mai dato tregua all’Iraq del post-Saddam, dagli anni dell’occupazione militare Usa e le azioni della resistenza irachena ai settarismi interni che stanno insanguinando il Paese dopo il ritiro delle truppe a stelle e strisce.

In due giorni l’Isil: a cadere per prima, lunedì, è stata Mosul, seconda città irachena per grandezza e primo centro commerciale. Ieri è toccato a Baiji, nella provincia di Salah-a-din, sede delle principali raffinerie di petrolio irachene. Avanzano a Kirkuk, dove controllano parte della città, si scontrano con l’esercito nelle vicine Hawijah e Rashad e mantengono forte la presenza a Fallujah e Ramadi, nella ribelle provincia di Anbar. Nel pomeriggio di ieri è infine giunta la notizia della presa di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, poco a Nord della capitale: la città è stata occupata dall’Isil, ha fatto sapere la polizia, e centinaia di detenuti sono stati liberati. Caduto anche Tikrit, il simbolo dell’ex regime, l’Iraq è allo sbando.

Una responsabilità enorme pesa sulla Casa Bianca, colpevole di aver lasciato l’Iraq nelle mani di un governo, quello Maliki, più impegnato ad arginare le legittime richieste della comunità sunnita che a combattere il tasso di corruzione (uno dei più elevati al mondo) e a ricostruire le basi economiche, politiche e sociali del Paese. Da mesi Baghdad chiede agli Stati Uniti di intervenire, inviando nuovi aiuti militari. Dopo la presa di Mosul e Baiji, Obama sta ragionando su come mettere una pezza e, bypassando il Congresso (chiamato a dare il via libera nel caso di aiuti a Paesi accusati di aver avuto rapporti economici con l’Iran), dovrebbe a breve inviare in Iraq droni ScanEagle e missili Hellfire, mitragliatrici, granate, fucili M16 e migliaia di munizioni, parte di un accordo da 15 miliardi di dollari stipulato con Maliki. Dopo una prima spedizione, potrebbero seguire anche elicotteri Apache, ma nessun soldato.

Sostegno arriva anche da Kurdistan e Siria. I guerriglieri peshmerga si sono detti pronti a intervenire, ha annunciato l’Unione Patriottica del Kurdistan. E lo stanno già facendo: secondo fonti sul posto, i curdi avrebbero già ripreso il controllo del villaggio di Rubaia, mentre le forze militari regolari attendono l’ordine per entrare in azione. Da Damasco il Ministero degli Esteri – dopo aver puntato il dito contro quei Paesi che negli ultimi due anni hanno sostenuto i miliziani anti-Assad, petromonarchie del Golfo in testa – ha parlato di «cooperazione immediata» con Baghdad.

La questione Isil non riguarda un solo Paese, ma un’intera regione. I miliziani si muovono con facilità da una parte all’altra del confine iracheno-siriano, portando avanti operazioni di successo e marginalizzando ogni altro gruppo di opposizione, moderato o islamista che sia. Obiettivo, creare un califfato sunnita, tra Iraq e Siria, dove la Shari’a sia la sola fonte del diritto.

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