Rivoluzione verde e rivoluzione biotecnologica: due facce dello sviluppo che riscalda il pianeta e minaccia la sovranità alimentare di Guido Pollice e Simona Capogna

Capitolo settimo Common e-book "Verso Cancun: cambiare il sistema, non il clima - Teoria e pratiche per la giustizia climatica"

26 / 11 / 2010

A cura di Guido Pollice, Presidente VAS e Simona Capogna, Vicepresidente  VAS (Verdi Ambiente e Società): www.vasonlus.it - [email protected]

Nell’attuale modello di sviluppo, l’agricoltura è un segmento della catena agro-industriale, dipendente a monte (sementi, sostanze chimiche, macchinari) e a valle (trasformazione, trasporto, distribuzione) da imprese industriali.

Tale modello è stato proposto/imposto al Sud del mondo, attraverso la Rivoluzione Verde prima e la Rivoluzione Biotecnologica dopo, nel tentativo di eliminare la fame e la povertà. In realtà, come vedremo nel dettaglio di seguito, si tratta dell’ennesima espropriazione e di una nuova forma di colonizzazione che investe la vita stessa (bios), le risorse genetiche, la biodiversità. Esso mette definitivamente a repentaglio la sovranità alimentare dei popoli e contribuisce in modo significativo a determinare il riscaldamento climatico del pianeta.

Per avere un quadro un po’ più chiaro, cominciamo dalle origini, dalla Rivoluzione Verde.

Questa aveva permesso, nella prima metà del XX secolo, la creazione di un’agricoltura centralizzata, basata sulle monocolture, con l’uso esclusivo di poche varietà controllate, orientata all’esportazione nei mercati mondiali, incapace di mantenere alti redditi per gli agricoltori o di rendere stabile la produzione. Le economie di scala richieste per gli interventi di modernizzazione hanno comportato l’estensione delle aziende agricole su vaste superfici, la scomparsa delle realtà più piccole, la forte diminuzione della manodopera, un’attenzione prevalente verso produzioni estensive, molte delle quali destinate alla zootecnia (mais, soia, colza, cotone). Inoltre, alcuni sistemi di irrigazioni e continue lavorazioni del suolo hanno avuto come conseguenza la perdita della fertilità e una crescente desertificazione; l’utilizzo degli erbicidi e degli insetticidi ha portato alla selezione di specie selvatiche più resistenti e di insetti predatori; gli allevamenti intensivi hanno comportato un inquinamento delle falde acquifere e la riduzione della biodiversità animale. Tutte insieme queste tecniche, inoltre, hanno avuto conseguenze catastrofiche per l’ambiente e per l’uomo.

In particolare, è cresciuta l’incidenza di alcune malattie e la salute del pianeta risulta essere completamente compromessa. Si pensi, solamente ai dati relativi al settore zootecnico. Secondo il Rapporto della FAO del 2006 (“Livestock’s Long Shadow –Environmental Issues and Options”), questo incide per il 18% (misurato in biossido di carbonio) nella generazione di gas serra, e detiene una grave responsabilità sul degrado del suolo e sulle risorse idriche (il 30% dell’intera superficie terrestre viene utilizzata per pascoli permanenti o per produrre foraggi, comprendendo anche le foreste che vengono abbattute per fare posto al pascolo). Ben peggiore il quadro descritto da due ricercatori americani della World Bank Group, Robert Goodland e Jeff Anhang che, in uno studio pubblicato nel novembre 2009 sul World Watch Magazine (Livestock and Climate Change) hanno attribuito al settore zootecnico addirittura il 51% della produzione di gas serra.

Questi problemi sono, però, secondari o considerati delle “esternalità” dal mondo occidentale. Nella valutazione del sistema produttivo agroindustriale ciò che assume importanza è il fatto che questo sistema, trasformando tutto ciò che tocca in “merce”, aiuta la crescita economica dei Paesi. Inoltre, per il Nord del mondo allargare lo spazio di azione di questo modello significa creare nuove fette di mercato e nuove fonti di profitto: si pensi, ad esempio, che nel 1980 il 25% dei pesticidi esportati dagli Stati Uniti nel Sud non erano impiegabili, per leggi di tutela ambientale e per motivi sanitari, nel Paese esportatore…

La Rivoluzione Verde però aveva limiti oggettivi, di cui, a partire dagli anni ’70, molti cominciarono a rendersi conto, soprattutto per quanto riguarda la pressione sulle risorse naturali. Contemporaneamente le scoperte sulle tecniche del Dna ricombinante aprirono nuove opportunità di continuare sulla stessa strada dello sviluppo agroindustriale (ma non solo).

Nel 1971 fu trasferito, attraverso un virus tumorale, materiale genetico da una cellula animale ad un’altra e nel 1973 nacque la prima molecola di DNA ibrido, formata da sequenze di un virus oncogeno che attacca le scimmie, da un batteriofago e da un batterio.

Era nata l’ingegneria genetica.

Questa consentiva di “produrre nuove combinazioni di geni mediante la variazione delle sequenze nucleotidiche, porre un gene sotto differenti sistemi di regolazione, determinare specifiche mutazioni in molecole di Dna, introdurre geni in cellule in cui possono esprimere nuove funzioni” (La Piccola Treccani, 1995).

La promessa (dichiarata) in agricoltura era di riuscire a modificare il Dna delle piante per realizzare un’agricoltura senza chimica, pulita per l’ambiente e sana per gli uomini. In realtà, grazie all’estensione dei brevetti sulla materia vivente (realizzata in seguito alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1980, in cui fu stabilito che era possibile rivendicare diritti di proprietà intellettuale su un batterio), lo sviluppo biotecnologico fu mosso dagli interessi del capitale. Il venture capital e il capitale azionario di Wall Street riuscirono a sfruttare le nuove scoperte reclutando gli stessi biologi molecolari di fama mondiale, per avviare imprese start-up.

I prodotti portati sul mercato agricolo furono essenzialmente due: piante resistenti ad erbicidi e piante “insetticida” (se si escludono poche eccezioni ininfluenti dal punto di vista commerciale e il flop iniziale del pomodoro “che non marcisce mai” Flavr Savr).

Entrambi sono state pubblicizzati come strumenti utili a ridurre l’utilizzo delle sostanze chimiche durante le varie fasi della produzione agricola (preparazione del terreno, pulizia dalle infestanti, difesa dai parassiti), ma sono nate in realtà per rispondere a specifiche esigenze industriali. Le aziende avevano il problema della scadenza dei brevetti sui prodotti di sintesi e dovevano sostenere molti costi per lanciarne sul mercato di nuovi. La possibilità di usare piante ingegnerizzate e brevettate, ritenute dalle autorità competenti “sostanzialmente equivalenti” rispetto alle controparti convenzionali, le esonerava da tante incombenze, aprendo nuove opportunità commerciali per i pacchetti tecnologici costituiti da sementi trangeniche e input chimici.

Dopo 30 anni le varietà geneticamente modificate sono sostanzialmente le stesse (aumentano solamente i numeri di geni introdotti per migliorare l’appeal del prodotto): per il 62% si tratta di Ogm resistenti agli erbicidi, per il 21% di Ogm capaci di produrre tossine contro gli insetti, e per la restante parte di Ogm con i due tratti genetici messi insieme. I danni ambientali, economici e sanitari di questa Rivoluzione Biotecnologica, intanto, sono sotto gli occhi di tutti: solo nel 2010 centinaia di ettari coltivati con soia transgenica sono stati abbandonati, negli Stati Uniti, per la selezione di super-erbe che rendono impossibile l’utilizzo di queste terre a fini agricoli; l’uso degli erbicidi è passato da 13,9 milioni di litri nel 1996 ai 200 milioni attuali; ogni anno vengono distrutti 200 ettari di foreste vergini per fare posto alle monocolture transgeniche destinate ad alimentare gli allevamenti industriali.

Ma il problema principale è stato e continuerà ad essere, la verticalizzazione della filiera agricola e il controllo di questa da parte di poche imprese multinazionali. Per quanto riguarda le sementi, da migliaia di compagnie sementiere e di istituzioni pubbliche che si occupavano di miglioramento varietale, oggi sono solo 10 le multinazionali che fanno la parte del leone e controllano più dei due terzi delle vendite globali dei semi commerciali, realizzando un’espropriazione completa dei mezzi di sussistenza degli agricoltori e minacciando gravemente la sovranità alimentare dei popoli del Sud e del Nord del mondo. Le prime tre imprese, rappresentano quasi il 50% di questo mercato (Monsanto con il 23%, la Du Pont con il 15% e la Syngenta il 9%).

Essendo uno degli argomenti cardine del discorso relativo allo sviluppo agro-biotecnologico, lo approfondiremo in modo particolare, prima di passare a parlare più specificatamente degli interessi che legano questo business a quello relativo al riscaldamento climatico.

Possiamo parlare di varie forme di espropriazione del seme:

  • - Espropriazione legale. Attraverso l’introduzione di un sistema legislativo che stabilisce la proprietà privata sulle risorse genetiche, con l’avvento delle biotecnologie gli agricoltori perdono completamente il controllo sulla riproduzione e conservazione del loro principale messo di sussistenza. I brevetti escludono, infatti, la riproduzione libera dei semi e la vincolano al pagamento di licenze. Limitano, inoltre, lo scambio, l’incrocio tra varietà diverse e la ricerca.

  • - Espropriazione ontologica. Le biotecnologie limitano, a livello biologico, la capacità riproduttiva dei semi. Questo è il caso delle tecnologie che, per evitare la diffusione incontrollata di Ogm, propongono di sterilizzare i semi. Eliminando la capacità di auto-generarsi dei semi se ne controlla la loro essenza.

  • - Espropriazione gnoseologica. La rivoluzione biotecnologica offre, come la precedente rivoluzione verde, delle sementi “migliorate” scientificamente (in questo caso, geneticamente modificate) che vanno a sostituire le “cultivar primitive” dei contadini. Il sapere esterno della scienza occidentale impone la propria egemonia cancellando la diversità colturale e culturale ancora esistente. Tale imposizione ha conseguenze sull’intera gestione dei sistemi agricoli: gli agricoltori non potranno più prendere decisioni (relative alla scelta delle varietà, alla modalità di controllo delle infestanti, delle malattie, ecc.) conformi alle specifiche esigenze locali, ma dovranno limitarsi ad utilizzare i pacchetti industriali standardizzati che sono stati progettati per il mercato globale.

Potremmo concludere questo ragionamento affermando che dopo l’enclosure della terra, necessaria per l’avvio della società capitalistica-industriale, l’ingegneria genetica sta realizzando la recinzione e la privatizzazione della vita.

A trenta anni di distanza dal primo Ogm immesso nel mercato potremmo chiederci come sia stato possibile imporre un simile sistema a livello globale. Sicuramente sono state fondamentali le pressioni dei sistemi internazionali, a partire dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, che costringono all’armonizzazione e alla standardizzazione delle regole in tutti i Paesi Membri. Inoltre ci sono stati i ricatti delle lobby economiche che hanno condizionato le scelte politiche. E, infine, la collaborazione delle autorità preposte al controllo (a partire dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare, per non parlare del Dipartimento statunitense dell’Agricoltura o dell’Agenzia USA per la Protezione Ambientale) che attraverso valutazioni pseudoscientifiche hanno avvalorato la diffusione dei prodotti biotecnologici all’interno della catena alimentare. Il tutto è stato “condito” dall’ideologia dello sviluppo sostenibile (agricoltura senza chimica) e dalle reminescenze neomalthusiane (il cibo attuale non è sufficiente per sfamare una popolazione mondiale in continua crescita). Negli ultimi cinque anni, agli slogan vetusti e logori, si è aggiunta la lotta al riscaldamento climatico. Se il clima muta, le aziende dicono, bisogna correre ai ripari e garantire una produzione agricola sufficiente per soddisfare le esigenze alimentari del pianeta: il consenso sociale sull’utilizzo della tecnologia del Dna ricombinante e sulla successiva brevettazione dei prodotti e processi tecnologici, viene costruito sulla paura del caos climatico e sulla presunta sostenibilità dell’operazione biotech.

Le aziende biotech stanno trasferendo alcune caratteristiche di resistenza agli stress ambientali, presenti in piante selvatiche o coltivate nel Sud del mondo, in piante di interesse commerciale, derubando ancora una volta le comunità rurali. I profitti previsti sono enormi: solo per il mais resistente alla siccità si prevede un mercato di 2,7 miliardi di dollari l’anno.

Per avere una maggiore legittimazione, le aziende stanno collaborando con soggetti filantropici (Gates, Buffet), con i governi (soprattutto Usa e UK) e con i centri di ricerca internazionale (CGIAR), arrivando a prevedere delle tecnologie disponibili gratuitamente per le popolazioni più povere, soprattutto nell’Africa Sub sahariana…in cambio, ovviamente, di una maggiore apertura dei governi del Sud ai regimi internazionali di proprietà intellettuale.

L’associazione Etc Group (Action Group on Erosion, Technology and Concentration) sta monitorando questi brevetti sulle piante “clima-dipendenti”, quelle cioè ingegnerizzate per rispondere più efficacemente a situazioni climatiche estreme (siccità, alta salinità, basse temperature, alluvioni).

Solo negli ultimi due anni, da giugno 2008 e giugno 2010, sono stati conteggiati 262 famiglie di brevetti (ogni famiglia di brevetti comprende le domande di brevetto e/o i brevetti concessi per una singola invenzione e coprono differenti regioni geografiche) per tratti genetici quali tolleranza alla siccità, al freddo, al caldo, alle alluvioni. Per capire come si sta determinando il controllo oligopolistico di questo settore basti pensare che sei multinazionali (DuPont, BASF, Monsanto, Syngenta, Bayer, Dow), insieme ai partner biotech (Mendel Biotechnology ed Evogene) sono titolari del 77% delle richieste brevettuali. La Monsanto, la DuPont e la BASF, da soli, del 66%.

Oltre alle varietà che si adattano a temperature più alte, i biotecnologi stanno sviluppando anche piante che dovrebbero contribuire all’abbassamento delle stesse temperature. Si potrebbe dire che si sta creando un rapporto sinergico tra la biotecnologia e la geoingegneria.

La geo-ingegneria, e cioè la manipolazione dell'ambiente nel tentativo di frenare il riscaldamento climatico o di mitigarne gli effetti, ha in effetti lo stesso approccio culturale e ideologico della biotecnologia: propone una “terapia hi-tech”, costosa e pericolosa, rischiando di apportare più rischi che benefici al pianeta. Gli interventi proposti sono irreversibili, su scala globale e hanno conseguenze inattese sulle popolazioni coinvolte e sull’ambiente.

L’unica certezza della geoingegneria è che le aziende che investiranno nel settore riusciranno a trarne grandi profitti, mentre i governi del Nord (principali responsabili del riscaldamento climatico) la potranno usare come alibi per evitare di ridurre i gas climalteranti (cosa che potrà risultare di una certa utilità vista la scarsa disponibilità mostrata al vertice sul clima di Copenaghen).

Tra le proposte della geoingegneria, oltre alla fertilizzazione degli oceani, alla disseminazione di aerosol nella stratosfera, all’introduzione di ioduro d’argento nelle nuvole, c’è appunto anche l’ingegnerizzazione delle piante.

Per citare un caso esemplificativo, nell’Istituto Weizmann (Israele) i biologi sintetici stanno lavorando per aumentare la produttività delle piante, sviluppando il loro tasso di fissazione del carbonio, in modo da convertire il diossido di carbonio in molecole utili biologicamente. Usando dei modelli matematici, sono giunti alla conclusione che sia possibile ottenere una maggiore quantità di cibo e di biocombustibili, attraverso l’ingegneria genetica e la biologia sintetica. Ovviamente hanno già presentato la richiesta di brevettazione di questa loro “ipotesi”.

Per il momento è arrivato un primo (seppur parziale) stop alle opere hi-tech per il controllo del clima, durante la decima conferenza delle Parti per la Convenzione sulla Diversità Biologica (ottobre 2010): i 193 delegati hanno richiesto una moratoria sulla geoingegneria per tutelare le risorse genetiche presenti sul pianeta e hanno richiesto che venga prestata maggiore attenzione alle soluzioni agro-ecologiche, locali, gestite direttamente dalle comunità.

Ovviamente non ci troviamo di fronte a prese di posizione rivoluzionarie, ma purtroppo rispetto alla prossima scadenza di Cancun è il massimo che possiamo sperare…

A cura di Guido Pollice, Presidente VAS e Simona Capogna, Vicepresidente VAS (Verdi Ambiente e Società): www.vasonlus.it - [email protected]

Per saperne di più sul web:

http://www.handsoffmotherearth.org/ (Campagna internazionale contro l’applicazione della geoingegneria)

http://www.cbd.int/cop10/ (documenti sulla decima conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica)

http://www.iatp.org/climate/index.php?q=document/biotechnology-and-sustainable-development (Pubblicazione sui contenuti relativi alle agro-biotecnologie all’interno del Rapporto IAASTD, realizzato dall’associazione PAN Nord America).

http://www.etcgroup.org/en/issues/corporate_concentration (documenti dell’Etc Group, sugli oligopoli del vivente, sulle biotecnologie, sulla geoingegneria, sulla biopirateria)

Capitolo 7 - Guido Pollice e Simona Capogna