(Ab)strike e composizione politica.

30 / 5 / 2015

Intervento durante l'incontro "Lo sciopero nell'era dell'astrazione finanziaria" - 8 maggio 2015 - promosso da S.a.L.E. Docks e Macao.

Tra sciopero e astrazione, mi pare si collochino almeno una terza parola e un ulteriore problema: la parola lavoro e il problema della soggettivazione. Vi propongo dunque di muovere qualche passo in queste due direzioni, non foss’altro che per fardiscendere in terra l’articolato diagramma dei cieli algoritmici discusso da Matteo Pasquinelli e Florian Schneider, prima di ascoltare quanto dirà Toni Negri sullo sciopero nell’era dell’astrazione finanziaria. Insomma la domanda è: quali sono le caratteristiche politiche del lavoro creativo, o intellettuale nella finanziarizzazione dell’economia? O se preferite: quale composizione politica soggettiva si dà, nel rapporto capitalistico contemporaneo?

Come sapete tutti benissimo, negli ultimi anni la letteratura sul tema, si è enormemente accresciuta e dunque alcuni elementi possono ormai esser dati per acquisiti. In particolare questo discorso ha una storia che si è concentrata sulla concretezza del rapporto di lavoro – sulla condizione precaria – arrivando a risultati importantissimi. Basti pensare allo scavo che molte compagne e compagni hanno portato avanti a Milano, con i Quaderni di San Precario, o alle riflessioni che si son via via sedimentate attorno al Social Strike, o ancora alle analisi di Sergio Bologna sull’autoimprenditoria, e più in generale alla lunga traiettoria ermeneutica sulle nuove forme del lavoro, che da almeno un trentennio costituiscono come una trama di fondo della riflessione antagonista sul neoliberismo.

Ma la ricchezza di questo lungo lavoro di inchiesta sul lavoro autonomo, precario, intermittente e creativo, mi pare invece trascurata, o piegata in guisa improduttiva, da una serie di pubblicazioni più recenti, che affrontano il tema, per così dire, sul lato teorico. Mi riferisco, sia chiaro, non esclusivamente alle derive agambeniane nell’universo delle pratiche destituenti ma anche ad alcune pubblicazioni più recenti – da ultimi Dardot e Laval – che utilizzano le analisi foucaultiane del capitale umano,  facendone il fulcro del ragionamento attorno alle ricchezze e alle difficoltà del lavoro creativo e del suo agire politico. Sono letture che, a dispetto del povero Foucault, seppure importanti dal punto di vista analitico a me sembrano povere da quello strategico, come se restassero appese a vecchie domande di fronte a un contesto nel quale invece si riconosce che tutto è cambiato.

Allora prendiamo proprio questo tema della precarietà, per provare a interrogarlo dal lato appunto teorico, insomma a connetterlo alle domande che ponevo all’inizio… già attorno alla fine degli anni novanta, come è noto, Boltanski e Chiappello indagavano la crisi del sistema salariale classico, incentrato sulla fabbrica fordista, riconoscendone la dipendenza dall’emergere delle pratiche di lotta operaia degli anni settanta, che articolavano il rifiuto del comando capitalistico rivendicando istanze di variazione, fluidità e mobilità nel lavoro: una nuova soggettività, dunque, che i due autori significativamente mettevano in connessione con il diffondersi di pratiche artistiche e culturali, che da allora in poi diventeranno il modello dell’individuo produttivo nella società postindustriale: quell’imprenditore di sé capace di costruire relazioni sociali, produrre rotture creative e innovazioni, valorizzate poi dal capitalismo cognitivo. Di questa storia, esistono persino delle versioni (lo dico ironicamente) felici. Pierre-Michel Menger, ad esempio, testa d’uovo dell’accademia francese nonché principale interprete della polemica contro gli intermittenti dello spettacolo, e specialista del lavoro artistico, da anni e in diversi poderosi volumi cerca di convincere il mondo del cognitariato di quanto sia meraviglioso, imparare a s’accomplir dans l’incertain, e di quanto questa condizione giovi alla creatività e all’inventività del lavoro artistico. Ora però, questa storia, com’è noto, non è affatto una storia felice.

E non è neppure una storia pacificata. Almeno da due punti di vista: in primo luogo perché le istanze di libertà e indipendenza rivendicate da quel primo ciclo di lotte, sembrano ormai interamente tradotte in forme di dominio, insicurezza, sottomissione. Insomma se da una parte mutano i modi di soggettivazione, si allargano i desideri di accesso al consumo, dall’altra si ampliano attraverso finanza e debito, meccanismi generatori di autosfruttamento dei lavoratori autonomi. E, non è una storia felice, piana, lineare, anche sotto un secondo aspetto, e cioè perché questo nuovo assetto pare incapace di risolvere la contraddizione strutturale che si produce tra dinamica della creatività e dell’innovazione e dinamica del consumo.

In sostanza, il capitalismo cognitivo, nella sua versione neoliberista, sembra indissociabile da un paradosso per cui, mentre si celebra la libertà, l’autonomia, la singolarità del lavoro creatore, d’altra parte il lavoro appare costantemente sotto attacco, ridotto, riconfigurato, normalizzato, fino al punto, come ci ha spiegato varie volte Maurizio Lazzarato,  da dover ricorrere ad uno strano uso ossessivo e inflazionistico del concetto di creatività: le industrie creative, il lavoro creatore, la classe creativa, i creativi della moda, della pubblicità, etc. – questo aggettivo è permanente nella definizione del lavoro cognitivo. Ma questa ossessione, dice Lazzarato, segnala un punto critico: la cattura del valore corrisponde a diagrammi di laminazione della soggettività come se gli algoritmi che risolvono la cooperazione sociale in lavoro astratto, fossero destinati a spegnere dappertutto proprio quella creatività – si potrebbe dire la produttività – che pure il dispositivo cerca insistentemente. Come dire che in fondo il rapporto sociale imposto dai circuiti di valorizzazione finanziaria, non è più all’altezza, non è più utile al potenziamento e all’organizzazione della produzione, ma al contrario la deprime e frammenta, e perciò è costretto a presupporre sempre una specie di urgenza vitale di ri-singolarizzare un minimo la soggettività che pure essa deprime e mortifica.

Sono due contraddizioni su cui, come è subito evidente, si dispiega il conflitto politico, o almeno si dovrebbe dispiegare: innovazione, creatività, cooperazione sono ambiti di conflitto. E invece, a fronte di queste due contraddizioni, si sono diffuse una serie di letture che rappresentano la società del lavoro autonomo, come fosse completamente dissolta in stati di liquidità e astrazione; e i relativi modi di vita che ne derivano, di conseguenza, vengono descritti unicamente per via difettiva e negativa, o comunque debole. Il lavoro creativo è interamente prodotto da La nuova ragione del mondo – con determinativo e maiuscola – non ha densità e ciò impedisce anche solo di pensare a forme di composizione politica. Mi pare che questo tipo di paradigma abbia delle conseguenze non solo analitiche ma anche più direttamente pratiche. Lo dico così, per provare a introdurre qualche elemento di attualità. Insomma la domanda, che io vorrei porre è: ci serve ancora, in questo quadro, ragionare di sciopero? Perché se le cose stanno così, io direi di no. Se la soggettività produttiva è tutta e unilateralmente presa nel dispositivo di autosfruttamento; se non ci sono margini materiali di libertà su cui il comando capitalistico fa presa; se l’insieme del lavoro può essere descritto unilateralmente come un corpo docile: oggetto funzionale, strutturato secondo criteria economici, in vista di obiettivi di efficacia ed efficienza, e perciò incapace di determinare strategie politiche di conflitto, allora non c’è spazio per lo sciopero. Ed è assurdo persino pensare di porsi il problema di un conflitto che sia politicamente efficace. Come ha scritto qualcuno, si tratta di vita o di morte e non di democrazia. E allora basta implementare le prese di parola, rendere manifesta la brutalità dello sfruttamento, in attesa che il rapporto sociale, magicamente, si sbilanci.

Allora la riproduzione mimetica del riot urbano, l’estetica della forma-casseur, per fare degli esempi concreti,sono perfettamente sufficienti per rappresentare questo livello di qualificazione della soggettività: debole, inerme, infantile, sottomessa, esclusa. Una morale da schiavi. Insisto: la riproduzione mimetica, l’estetica del riot. E cioè: la costrizione dell’azione all’interno di uno scambio simbolico esclusivo di cui è chiave unicamente la morte. Nulla a che vedere con le rivolte urbane, che comunque e per fortuna si danno nei territori metropolitani, come a segnalare, al contrario, esattamente i limiti del dispositivo neoliberale di sfruttamento e controllo della soggettività. Queste forme, estetizzanti, autocolpevolizzanti e mortifere, proprio nella loro natura di rappresentazione, di testimonianza, mettono in scena un’estraneità, un rifiuto, un esterno-escluso che poi chiede inclusione battendo i piedi o, piagnucolando rivendica una ragione altra, esterna rispetto a quella del circuito consumo-produzione. Insomma a me pare che si tratti di tattiche che sono perfettamente congruenti con tutte le letture che definiscono il comune come ragione esterna al dispositivo di estrazione biopolitica del valore prodotto.

Come è del tutto evidente, si tratta di forme politiche che non hanno nulla a che fare con quella dello sciopero, che è sempre stato invece essenzialmente una azione soggettiva condotta all’interno del momento della valorizzazione, direi sul confine che separa il punto di vista operaio da quello del padrone, il comune dalla proprietà. un’azione, ancora, efficace, o almeno verificabile, perché capace di far male al rapporto di valorizzazione. Il fatto è che io penso che le letture unilaterali e deboliste del rapporto tra lavoro e soggettività, non siano sufficienti per definire le condizioni materiali della produzione postindustriale e del cognitariato o del lavoro creativo. Allora si tratta di posizionare diversamente il nostro sguardo, di ritornare su quel confine che tiene insieme e separa creatività ed estrazione di profitto, per porre in evidenza l’attività, e non solo la passivizzazione che si produce in questo passaggio.

Sandro Mezzadra, a tal proposito ha parlato, in modo molto pertinente, di moltiplicazione del lavoro. Com’è il lavoro nel neoliberismo? Più o meno colto? Più o meno potente? Più o meno capace di produrre ricchezza? Come si modifica la bilancia tra capitale fisso e capitale mobile? Insomma: cosa diciamo quando diciamo che il lavoro si è fatto intellettuale? Diciamo che esso contiene una libertà che non è negoziabile. E quando diciamo che la produzione è ormai cooperativa – cosa diciamo? – se non che l’eguaglianza è un suo elemento qualificante? Questo diciamo, per il semplice motivo che senza libertà e/o eguaglianza il lavoro cessa di essere produttivo. La precarizzazione del lavoro, allora, non è altro che una strategia tanto più brutale e incivile quanto più si riconosce un poderoso incremento della potenza e delle capacità del lavoro, che va frazionato e disperso, perché altrimenti sarebbe incontenibile all’interno delle frontiere del rapporto sociale capitalistico.

Si è detto: lavoro immateriale, cognitivo, comunicativo, affettivo. Ma allora, come retribuire questo lavoro? Come si fa a misurare il valore e definirne il costo o determinare il salario adeguato alla riproduzione di una forza-lavoro cooperativa e sociale la cui attività tende a coincidere con la vita stessa? Il sistema salariale classico, in queste condizioni, non può riuscirci, e questa è un’ovvietà o un’evidenza logica. E infatti le politiche neoliberiste sottraggono all’analisi dei tempi della giornata lavorativa la definizione del salario necessario, riarticolandola solo all’interno delle leggi della finanza e del debito, per rendere elastico e negoziabile il dispositivo di produzione di plusvalore assoluto e relativo, come le allocazioni di lavoro retribuito e non retribuito, e l’intreccio tra lavoro produttivo e improduttivo

Ma allora è attorno alle regole della distribuzione finanziaria, del reddito e del debito, dei consumi e delle istituzioni di welfare – ovvero attorno alle condizioni politiche della riproduzione – che si deve contendere lo spazio del capitale. Perché il circuito della riproduzione equivale allo spazio della produzione soggettiva: spazio di vita, di creatività comune e cooperativa, e quindi spazio di conflitto direttamente politico. In altri termini: è esattamente questione di democrazia. Ma per capirlo si deve saper vedere che la soggettività produttiva è forte, fabbrica il mondo, è capace di produrre ricchezza, è eccedente rispetto al rapporto sociale. Che esso non la contiene e perciò si fa brutale e rompe le forme della rappresentanza, si fa allergico alla partecipazione, erode la dimensione politica e lo spazio del comune. Ed in ogni caso è esattamente su questa eccedenza che il meccanismo di sfruttamento tenta di agire. Il capitale necessita di questo elemento interno ed antagonista . Perciò abbiamo ancora bisogno di sciopero. Perché nel biocapitalismo ci sono solo forze che lottano producendo. Produrre – creare, creatività, innovazione: tutto intero il campo semantico del lavoro intellettuale – significa implementare pratiche di alterazione dell’ordine del discorso della flessibilità del lavoro, della finanza, della governance e dell’amministrazione.

Voglio dire che astrazione è una parola ambigua: perché designa la capacità del capitale di trasformare il lavoro in equivalente generale, ma ciò non ci autorizza in nulla a dedurne l’esaurimento della potenza produttiva comune, semmai un suo potenziamento. C’è, insomma un’ontologia positiva del lavoro che va tradotta in pratica, e a questo serve interrogarsi attorno allo sciopero astratto: ad istituirlo come luogo di composizione politica diretta, immediata. Abstrike, sciopero sociale, sono il nome che diamo alle cose: sono lo spazio politico di sperimentazione radicale della democrazia europea contro il fascismo neoliberista. Per dirla in una battuta: in un suo scritto celebre, Gilles Deleuze rispondeva alla domanda che cosa è un atto di creazione? dicendo che un atto di creazione, un lavoro creativo è essenzialmente un atto di resistenza. Resistenza alla laminazione della soggettività che possiamo esercitare solo attraverso azioni simultanee ed assemblaggi delle pratiche di lotta che siano tuttavia espansivi, che aggrediscano l’anonimato del comando, che conquistino quote di welfare, ottengano reddito e rivendichino il libero accesso ai saperi. Su quale grammatica dei diritti si svolge la vita delle singolarità cooperanti? Da qui dovremmo ripartire. E rimboccarci le maniche.

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