"Accoglienza e diritto d'asilo al tempo degli hotspot" a Sherwood 2016

5 / 7 / 2016

In un contesto europeo in cui si limita fortemente l’ingresso a donne, uomini e bambini che scappano da guerra e miseria, il dibattito "Accoglienza e diritto d'asilo al tempo degli hotspot"- organizzato dal Progetto Melting Pot Europa - si è concentrato principalmente su due laboratori di restringimento della possibilità di richiedere asilo in Europa: Grecia, Italia.

Tommaso Gandini (attivista Over the Fortress) è rimasto fino all'ultimo a Idomeni. In seguito alla carovana di fine marzo, che ha portato a in Grecia circa 300 tra attivisti e volontari, la campagna Over the Fortress ha assunto sempre più un carattere politico, non solo umanitario. La staffetta ha iniziato ad appoggiarsi ed a radicarsi all'interno del campo di Idomeni, condividendo la vita delle persone che ivi sostavano. E’ emerso un rapporto con la guerra che pervadeva quasi tutte le forme di vita presenti lì, come in altri campi profughi. E’ emersa la tenacia di persone che combattevano per i loro diritti, proprio perché ne valeva della loro vita. «Da quanto l’intervento della staffetta si è focalizzato all’interno del campo, abbiamo capito che i bisogni erano altri, soprattutto di carattere sociale». Per questa ragione sono nati il No border wi-fi (che è stato importantissimo anche per le prime richieste d’asilo, che si sono fatte via skype), il centro donne, la No border radio. In tutti questi progetti il coinvolgimento diretto da parte dei migranti è stato fondamentale, per la loro realizzazione e per il loro proseguimento.

Antonello Ciervo ha raccontato del sopralluogo che Asgi ha fatto in diverse zone della Grecia, per capire come nel laboratorio greco andava ad applicarsi l’accordo UE-Turchia, alla luce anche della normativa interna greca rispetto alla procedura d’asilo. «La situazione deve ancora definirsi in maniera chiara ed i tempi delle procedure saranno estremamente lunghi (si parla di un anno, un anno e mezzo)».

Sul piano formale l’accordo non è stato ancora recepito da nessun Paese dell’Ue e neppure dallo stesso Parlamento europeo. Questo accordo prevede che la Turchia sia considerato primo Paese d’asilo “sicuro” (per i siriani) o Paese terzo rispetto all’Unione Europea, che garantisce gli standard minimi  di diritti fondamentali. Sappiamo che la Turchia non garantisce questi standard ed in questo consistono le principali responsabilità politiche all’interno dell’esternalizzazione delle procedure d’asilo. In particolare, la Turchia non ha mai recepito completamente la convenzione di Ginevra, che garantisce lo status di rifugiato politico.

Inoltre il discrimine del 20 marzo, data in cui l’accordo è diventato effettivo, è completamente saltato nella prassi ed «accedono alla procedura anche quelle persone che sono arrivate in Grecia prima di quella data». Infine, la Commissione nazionale greca che valuta le domande d’asilo, nelle ultime settimane ha dichiarato la Turchia “paese non sicuro”. Per questa ragione la Commissione Europea, per rendere operativo l’accordo, dovrà chiedere alla Grecia un cambiamento radicale del proprio regolamento interno sulle procedure d’asilo.

Sul piano politico sono due gli elementi che consentono all’accordo di reggere: in primo luogo il governo greco ha deciso di rifiutare logica hotspot e consentire a tutti procedura; in secondo luogo il confine marittimo greco-turco è chiuso, anche grazie ad una forza di interposizione Nato (in violazione agli accordi internazionali).

Francesco Ferri della campagna Welcome Taranto, ha puntato l’attenzione sul laboratorio italiano, forte dell’esperienza fatta nella città pugliese, sede di uno degli hotspot che il governo ha deciso di installare in Italia. L’hotspot è una scelta politica europea che si diffonde oltre i luoghi geografici individuati. La stessa definizione ministeriale non lo considera né un centro fisico né una procedura, bensì un “approccio”. La natura complessiva degli hotspot è  legata all'accesso differenziale alla richiesta di protezione, a seconda del Paese d'origine.

Tra le varie questioni che la campagna Welcome Taranto ha sollevato c’è quella della difficoltà estrema dei questionari per l’avvio delle procedure d’asilo. Si tratta di domande impossibile da comprendere, soprattutto perché i migranti non vengono messi in condizione di capire le conseguenze giuridiche delle varie risposte.

L'approccio all’hotspot sta ormai pervadendo tutti gli istituti di controllo sulle migrazioni, ed in particolare sta funzionando nelle Questure. Si sta definendo una vera e propria messa in scena della differenza da migranti, anche in grado alla presunta possibilità di essere inseriti all'interno del mercato del lavoro.

Marzia Di Mento, in collegamento telefonico, ha raccontato gli ultimi sviluppi delle pratiche d’accoglienza dal basso da parte del centro Baobab, a Roma. Mentre parlava, si trovavano accampate in via Cupa circa 300 persone. La sera prima ce n’erano 400, ma alcuni sono andati via non appena sono arrivati i mezzi della polizia, per paura di essere identificati.

A Roma accade sistematicamente che, non appena le tende ed i migranti iniziano a diventati visibili, questo dà alla Questura l’input per  fare pressioni ed iniziare sgomberare. D’altro canto non esistono risposte politiche, visto che qualsia trattativa con le istituzioni rispetto all’accoglienza si è arenata. Al momento l’unica risposta è un accordo tra Prefettura e Caritas, che prevede l’accoglienza di 70 migranti, una cifra estremamente bassa se rapportata al numero di persone che quotidianamente transitano o stazionano nella capitale.

Giuseppe De Mola (Medici senza frontiere) non concorda sull’utilizzo del termine “laboratorio”. «Un laboratorio in quanto tale dovrebbe essere inerente a un progetto, ma per come vedo l'accoglienza in Italia, invece, non c'è alcun progetto bensì improvvisazione». De Mola prende cita come esempio quello dei cosiddetti transitanti, proprio traendo spunto dal paradosso di via Cupa. «In Italia sono accolte 120 mila persone, negli ultimi due anni ne sono sbarcate oltre 300 mila. Il sistema non è crollato perché più della metà dei migranti giunti sulle nostre coste sono transitati e non si sono fermati». Ecco il paradosso: l'Italia si è impegnata - attraverso Dublino - ad accogliere tutti e Dublino determina che i migranti siano obbligati a fare richiesta di accoglienza nel primo paese in cui arrivano. Per questo motivo “transitante” è una categoria che non dovrebbe esistere, è in una sorta di illegalità per Dublino. A Ventimiglia c'era un Centro di Accoglienza per transitanti – che non dovrebbero esistere – ed è stato chiuso. E ora ci sono centinaia di persone in strada.

Ci sono tre livelli dell'accoglienza ora in atto nel nostro Paese: "primo soccorso e assistenza" (Lampedusa, Pozzallo ed altri centri che sono stati denominati hotspot). Qui i migranti dovrebbero essere accolti per poche ore per poi essere trasferiti nei "centri di prima accoglienza" (in principio centri di grandi dimensioni nel sud del paese), ora ribattezzati regional hub; infine i centri di seconda accoglienza (SPRAR – dedicati all'inserimento sociale, giuridico, lavorativo). Dopo questi ci sono i CAS (centri straordinari di accoglienza), per accogliere chi non riusciva a entrare nei centri di seconda accoglienza. Questi CAS dovrebbero essere intesi come risorsa di emergenza ma, di fatto, l'accoglienza in Italia è garantita e mantenuta dai centri straordinari, con il minimo dell'assistenza, senza alcun servizio (lingua, orientamento al lavoro, orientamento legale). Questo sistema sta fabbricando in continuazione marginalità sociale.

In un secondo giro di interventi, Tommaso Gandini ha illustrato la situazione greca dopo lo sgombero di Idomeni.  Migliaia di migranti sono stati trasferiti nei campi governativi. Un numero non precisato di persone ha fatto perdere le proprie tracce in questo passaggio: alcuni sono tornati  nei paesi di origine, molti pagano passeurs per tornare in Turchia, molti sono finiti vittime della tratta.

I campi formali sono divisi per etnia e per genere, con il chiaro intento di depotenziare qualsiasi iniziativa di protesta. E’ vietato l’ingresso a giornalisti, volontari e attivisti. Vengono negate le relazioni e la solidarietà che si era creata nei campi informali. «Noi torneremo in Grecia al No Border Camp, dove incontreremo di nuovo chi non è entrato nei campi formali e i tanti attivisti che li accolgono». Ma è necessario iniziare a svelare le contraddizioni fatte anche di confini interni - e non solo esterni - che negano di fatto l'accoglienza nel nostro Paese. Contraddizioni che necessitano la spinta dei movimenti per diventare terreno di lotta sociale e di conquista di diritti.

Antonello Ciervo, rispetto alla Grecia, parla di una società civile impreparata e di movimenti sociali che non sono stati all’altezza della situazione. In Grecia possiamo vedere solo ad Atene e Salonicco un progetto organizzato di accoglienza dal basso.

In un’analisi comparativa dei due laboratori emerge che la Grecia non ha accettato il modello hotspot, facendo ampio uso della possibilità di  redistribuire i migranti in altri Paesi dell’UE. Questo ha contribuito ad accrescere violazioni di diritti umani, ad esempio in Paesi come la Francia, dove è applicata una sorta di profilazione per i rifugiati che ne attesta il grado di compatibilità con la società francese.

In Italia, il modello hotspot non è che un allegato alla circolare del Ministero dell'Interno, che costringe a identificare le persone anche con l'utilizzo della forza. Se viene introdotto nell'ordinamento giuridico diviene una pratica che interesserà tutti, non solo i migranti. «Stiamo vivendo un livello di recrudescenza securitaria che non ha precedenti. L'immigrazione è un laboratorio in questo senso, perché sui migranti si sperimentano tecniche di controllo che vengono poi tradotte nella società tutta». Inoltre il governo italiano ha deciso di esternalizzare i confini, ed in questo senso vanno viste le manovre di Renzi sul versante nordafricano.

«Bisogna cambiare Dublino, non in una logica emergenziale ma in maniera sistemica». I paesi devono avere un sistema di accoglienza strutturato e inserito in un ordinamento giuridico (molti paesi dell'est non ne hanno). La questione migratoria conferma il fatto che l'Europa è soltanto un'espressione geografica, priva di sedi politiche in cui i cittadini europei possano determinare decisioni.

Secondo Francesco Ferri, finora non abbiamo sviluppato la potenza della messa in comune e in rete delle pratiche di accoglienza e di movimento dal basso. I confini sono esternalizzati e le pratiche solidali, se rimangono ferme nei luoghi e non si sviluppano in rete, non superano i confini: possono essere “belle pratiche” ma di fatto inefficaci. Abbiamo bisogno di ricomporre il piano della sfida e dell'insieme del sistema dei confini. Percepiamo la diretta connessione tra le sperimentazioni sul piano dei flussi migratori e la governance della società.

Siamo continuamente immersi in un utilizzo di un “linguaggio dell'umanitario”, della retorica del “salvare”, funzionale a chiudere ulteriormente i confini, o ad impedire le partenze. Abbiamo bisogno di cambiare questa retorica e questa comunicazione nella percezione della società per affrontare la questione delle migrazioni in tutta la sua capacità conflittuale.

Per Giuseppe De Mola il punto di partenza è parlare dei contesti che spesso si dimenticano. «Penso a Foggia, dove si possono vedere contesti di marginalità rurali, oppure a Torino, dove invece si trovano contesti di marginalità urbana». Ci sono scambi continui tra contesti formali e informali, che a volte convivono in spazi ristretti ed alimentano un modello di marginalità funzionale al piano economico (ad esempio il lavoro nero di migranti all’interno dei campi formali) e politico (ad esempio l’impossibilità di avere luce e acqua negli spazi occupati, per via dell’art 5). Quello che tutto questo esprime è una progressiva limitazione all'accesso ai diritti fondamentali, che investe i migranti in primis, ma anche gli attivisti che mettono in pratica accoglienza dal basso, che spesso subiscono denunce e limitazioni della libertà da parte dell'autorità giudiziaria.

Il dibattito si è concluso accennando al fatto che la riduzione dei diritti dei migranti si collega direttamente a ciò che accade al resto della società. Bisogna cercare di mantenere il collegamento nei discorsi, limitare le differenze per potenziare le lotte per i diritti di tutte e tutti.

Per fare questo è importante fotografare la situazione complessiva, evidenziando alcune contraddizioni su cui dobbiamo agire, ribadendo  le cause e le responsabilità, lottando e ragionando sul diritto alla libera circolazione. Bisogna infine unire territori diversi, stipulare nuovi patti tra attivisti, reti e associazioni, costruire movimentazione.