Alzare la testa dalla terra

Puglia, 1920: la fatica di un bracciante a giornata alle soglie del biennio rosso

6 / 8 / 2020

Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accomunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La sesta puntata della rubrica "Suture"- che uscirà ogni giovedì alle 12.30 -, a cura di Valeria Andreolli.

Zappi la terra attorno alla base della vigna così da rimuovere le erbacce e lasciar respirare la pianta che fra pochi mesi sarà carica d’uva, che ancora tu taglierai. Fa caldo. Il sole è alto nel cielo e mancano ancora parecchie ore prima che si abbassi sull’orizzonte e ti dia un po’ di tregua. Il fazzoletto che tieni sul capo ti protegge solo parzialmente. La testa a quest’ora del giorno entra sempre in uno stato comatoso che ti rende impossibile il minimo pensiero. Non che tu abbia qualcosa a cui pensare. Zappare richiede solo il movimento incessante delle tue braccia, non ha bisogno di alcun sostegno da parte del cervello.

Ultimamente, però, hai cominciato a rivalutare l’utilità del pensiero, della testa. Da qualche tempo circolano voci in paese, strane, nuove. Si parla sottovoce di occupazione delle terre, di socialismo. Ogni tanto, attaccato a qualche portone, compare un volantino carico di inchiostro. Tu non sai decifrare quelle lettere minuscole scritte fitte fitte, però sai ascoltare. E allora, quando qualche forestiero con lo sguardo enigmatico di tanto in tanto sosta al paese, ascolti i discorsi sussurrati con cui riempie le stanze della locanda. Molte parole ti sono sconosciute, ma nell’insieme il ragionamento ti è chiaro, chiarissimo. Tanto da farti pensare a quanto sia assurdo che debba venire un forestiero, uno sconosciuto con le mani curate e la pelle pallida ad insegnarvi che non è giusto che i proprietari vi paghino quel minimo per non farvi morire di fame, che non è giusto che alcune sere vi rimandino a casa senza niente in mano, che usino il vostro sudore per abbeverare le piante, il sudore dei disperati, mentre loro non toccano neppure la terra che posseggono.

Ascoltare questi discorsi, ascoltare uno straniero proveniente da chissà dove descrivere così bene la tua, la vostra vita ti accende uno strano fuoco in corpo, ti fa sentire parte di qualcosa di grande, qualcosa che oltrepassa i confini del paese, i confini recintati dei campi dei padroni e abbracciata una massa foltissima di persone come te, che ogni giorno lottano contro il sole e la terra come stai facendo tu ora.

Ed è qui che nasce, in te, in voi, l’indignazione. Dalla consapevolezza che siete tanti, che conoscete la terra mille, dieci, centomila volte meglio dei signori in camicia che ogni tanto vi lanciano occhiate sprezzanti dalle loro terrazze di mattonelle di terracotta. Dalla constatazione che il padrone non ricopre in realtà nessun ruolo essenziale per la vita dei campi e l’abbondanza del raccolto.

Hai il viso grondante di sudore. Questo gesto sempre uguale a sé stesso, quest’alzare la zappa e dissestare la terra non richiede l’uso del cervello. Però ora hai imparato ad utilizzare anche quest’organo, hai imparato a pensare. E non puoi più farne a meno. Il problema è il sole. Ti brucia i pensieri, li carbonizza e rende difficile metterli in ordine. Per questo il momento migliore per pensare è la mattina, quando ti svegli e fuori è ancora buio e insieme ad altre decine di uomini sgusci silenzioso fuori dalla porta di casa, cammini fino alla piazza del paese, dove la sera prima hai aspettato un paio di ore che qualche padrone venisse a reclamare la tua forza fisica per la propria terra, e prendi il sentiero che ti porta ai campi. In genere non raggiungi mai la terra che devi lavorare prima di aver camminato un paio di ore con in spalla un fagotto miseramente carico di pane e qualche fetta di formaggio. Ed è durante questa camminata, in cui i campi intorno a te lentamente escono dal buio della notte e prendono forma, che tu pensi, pensi alla tua vita di bracciante, di cafone, metti insieme pezzi sparsi di una storia che si è ripetuta uguale a se stessa nei secoli, ragion per cui queste idee nuove che stanno circolando ora smuovono qualcosa in te, ma ti è difficile capire cosa. Non hai nessun punto di riferimento che esca dai confini polverosi e bruciati della campagna.

Qui sei nato, qui è nato tuo padre, bracciante, qui è nato il padre di tuo padre, bracciante. Il tuo zappare la terra e la tua lotta contro il sole che troneggia perpendicolarmente sopra la tua testa non sono gesti e battaglie tuoi, giungono a te da una lunga tradizione immutata e che hai sempre pensato immutabile. Ma qualcosa sta cambiando, lo sai, lo senti con i sensi. Qualcosa succederà e tu vuoi essere, e sarai, parte di questo cambiamento.

Guardi fiducioso il cielo. Il sole non si è mosso. Dovrai pazientare ancora qualche ora prima di poter di nuovo fare uso del cervello.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO: Uomini e caporali di Alessandro Leogrande e Fontamara di Ignazio SILONE

** Pic Credit: Federico Patelli