Aspettare la libertà

Italia, ieri: la monotonia delle giornate dei detenuti costretti dentro a carceri sovraffollate e scarsamente rieducative.

23 / 9 / 2021

Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La ventitreesima puntata della rubrica "Suture, a cura di Valeria Andreolli.

Stai sdraiato sul letto a pancia in su e contempli il soffitto impassibile. Ormai conosci a memoria ogni macchia, ogni scrostatura di intonaco, ogni crepa. Anche se chiudessi gli occhi riusciresti a figurartelo esattamente così com’è; com’è dal tuo arrivo in un’insolitamente fredda serata di fine maggio, quando, dopo esserti concesso alle rituali foto segnaletiche e aver depositato ogni cosa che portavi addosso, con in mano delle lenzuola e degli asciugamani dal sapore di candeggina, hai sentito il blindo chiudersi dietro di te, a sancire l’inizio di questa nuova lunga fase della tua vita.

Ti sconcerta pensare che da quel momento sei precipitato in una sorta di universo distopico dove ogni giorno si ripete incessantemente uguale a quello precedente, in cui il domani sarà sempre come l’oggi, dove si vive aspettando qualcosa che immancabilmente non succede. È come essere in sala d’attesa bramando il proprio turno per fare ingresso nella società, una società che al momento non ti reputa idoneo ad essere parte del suo frenetico turbinio. Qui hai dovuto imparare a gestire la noia, a lasciarti scivolare addosso le ore, i giorni, le settimane, i mesi, a smettere di dare un valore al tempo.

Qui hai dovuto imparare anche a sopportare i rumori, gli odori e gli sguardi di persone che altrove probabilmente non avresti mai conosciuto. Hai dovuto condividere i quattro metri quadrati che la legge ti garantisce con altre due persone, hai dovuto accettare la loro presenza dentro la tua solitudine e accettare il fatto che tu stesso stavi invadendo la loro. Hai dovuto imparare a considerare amiche queste presenze che si aggirano senza sosta nella tua stanza e da cui non puoi nasconderti. È l’unico modo per sopravvivere qua dentro. Hai dovuto imparare a lasciarti scivolare addosso tutto: le accuse di non rispettare i turni per le pulizie, gli insulti sussurrati tra i denti, i gargarismi mattutini e il respiro pesante di un uomo dallo sguardo fiero che non mastica una parola d’italiano, le lacrime del ragazzo che, seduto di fronte alla porta della cella, aspetta una sentenza che tarda ad arrivare, mugugnando che non ha fatto niente e che vuole andarsene a casa. Hai dovuto imparare a gestire i silenzi che permettono ai pensieri di accatastarsi nel cervello.

Ci sono anche quelli che queste cose non le imparano mai, che diventano claustrofobici, che non sanno dove incanalare la rabbia, che provocano le guardie, che agiscono come se non avessero ancora assimilato che ogni azione porta con sé una serie di conseguenze. Tu, per esempio, ti fai i fatti tuoi e non alzi mai la voce perché temi soprattutto i trasferimenti. Hai paura di venire spedito come un pacco postale in qualche località sperduta, dove magari le guardie non si faranno scrupoli a rispondere alle provocazioni con poteri che vanno oltre quelli che la legge conferisce loro, dove incontrare la tua compagna sarà un’impresa ancora più ardua di quanto non lo sia ora. Per tutta la settimana aspetti quei sessanta minuti in cui puoi tornare a vedere il suo viso, sotto l’occhio invadente della telecamera, al di là di un tavolo che assicura che vi possiate toccare le mani e nulla più, circondati dal vociare di altre dieci persone con la stessa eccitazione e la stessa voglia di abbracciare chi sta di fronte a loro in solitudine e senza sguardi addosso. Ma questa è l’unica modalità concessa e bisogna farsela andar bene. Ogni volta vedi i suoi occhi più stanchi, le pieghe sulla sua fronte più profonde e gli angoli delle sue labbra che si sollevano sempre meno. Ogni volta immagini di sentire la sua voce che con tono malinconico ti dice che questa è l’ultima volta che si fa perquisire per venire a colloquio con te, che non può aspettarti per sempre, che su di lei non pende nessuna condanna e quindi ha bisogno che la sua vita continui, anche senza di te. Non potresti fargliene una colpa.

Ti chiedi spesso se sia un obiettivo deliberato quello di fare in modo che non ci sia nessuno ad aspettarti fuori e ti chiedi come questo si combini con lo scopo rieducativo che questo posto si propone di avere. Fatichi a capire come un luogo in cui ti vengono sottratti libertà, tempo ed affetti possa preparati a vivere nel mondo senza sbarre che c’è là fuori, dove tutte queste cose ti saranno restituite, dove dovrai reimparare daccapo ad abitare nella collettività, dove questa macchia sul curriculum ti chiuderà tante porte in faccia, dove potrai mettere in pratica gli insegnamenti del tuo compagno di cella su come scassinare la serratura di un’auto senza farti notare, o su dove nascondere il fumo durante le perquisizioni. Speri però che, fuori da qui, riuscirai a coltivare anche un’altra abilità che hai imparato qua dentro: la recitazione. Avevi cominciato a presentarti alla lezione di teatro del giovedì pomeriggio un po’ per ammazzare la noia, un po’ perché il palcoscenico ti aveva sempre affascinato. Oggi puoi dire che questo diversivo ti sta salvando, perché, quando indossi i panni di personaggi che amano, lottano, piangono, che vivono la loro vita appieno, ti dimentichi per qualche breve istante del luogo in cui ti trovi, delle giornate tutte uguali che ti aspettano, delle assenze che non puoi colmare e delle pressanti presenze che non ti lasciano mai solo.

Senti dei passi sul corridoio e il dolce rumore del blindo che si apre. È il momento dell’ora d’aria. Scivoli giù dal letto per andare ad ammassarti con gli altri detenuti lungo i muri del cortile e contemplare, anche se per poco, l’azzurro inarrivabile del cielo sopra le vostre teste.