Cannes? No, grazie

11 / 5 / 2018

«Un tempo non c'era altro che cineasti. Non si parlava dei tecnici. Méliès, Thalberg, Grémillon. Le mani delle montatrici sovietiche, come quelle degli operai di Rhodia, parlavano dell'eccezione ovunque si instaurava la regola. Vinci, Darty». (JLG, Jean-Luc Godard, Cannes 2018, Vent d'ouest)

La presidente della giuria e la sua retorica #meetoo sono un'affiche come quella che immortala il bacio di Anna Karina e Jean-Paul Belmondo nella storia della 71esima edizione del «festival del cinema più importante del mondo» (del cinema). Chi oserebbe negarlo? Chi ha vietato i selfie del pubblico sul red carpet per difendere il protocollo mummificato dell'evento culturale francese più diffuso a livello internazionale. Cannes rappresenta la Francia? Purtroppo si.

Anche le immagini dell'occupazione militare della ZAD rappresentano la Francia, come quelle della distruzione quotidiana dei rifugi dei migranti a Calais o a Parigi, come la rabbia e la poesia delle occupazioni nelle università, come le sequenze delle violenze e la repressione contro decine di migliaia di manifestanti dal dicembre 2015, come la messa in scena del permesso di uccidere nei quartieri popolari. Di questo parlano le immagini della Francia, del suo confine a due passi da Cannes, tempio della cultura immobile nel tempo della "resilienza".  

La querelle "Netflix" rispecchia questa scelta di uscire dal presente e dalla sua geografia. Quindi dalle immagini del nostro tempo. Compresi i villanissimi selfie che tanto turbano il cerimoniale festivaliero. Se la qualità dei loro cliché è indegna del rinomato omaggio al cinema sulla Côte d'Azur, certo è doveroso ammettere che è una pratica tra le più significative della mutazione dell'immagine, nella sua diffusione e nella percezione della realtà. 

Che senso ha limitare il diritto al selfie ai soli "artisti" a Cannes mentre nel mondo in rete si diffondono le immagini di tutti? Prima ancora di un giudizio estetico, i selfie sono il segno più rozzo, ma non meno evidente, del processo di riappropriazione della produzione visiva a partire dagli anni ‘00. Una grande fabbrica di immagini a cui un’immensa parte della popolazione, che sarebbe insensato dividere tra amatori e professionisti, offre il proprio contributo. In gioco non è quindi l'interesse della selezione che non esita a programmare ibridi con le nuove tecnologie digitali, ma il fatto di ignorare le trasformazioni in corso e ciò che avviene ai margini del cinema e del festival.

Cannes, in Francia? verrebbe da chiedere. Perché un momento così importante per il cinema non consiste nella salvaguardia del decoro e neanche nella semplice programmazione di un certo numero di film più o meno interessanti o nella totale frivolezza dell'ambiente che li circonda, ma nella suo essenziale ruolo di mettere il cinema in connessione con tutto ciò che lo circonda. Di avere una visione con cui poterci misurare, tutt'altro che una messa in mostra. Attraverso quali incontri, quale parola, quali orizzonti la vista di un film in un festival potrebbe produrre un cambiamento? Un dialogo con il presente che a Cannes viene negato.

Se viene ignorata l'esperienza di cinema e il legame tra la sala di proiezione e quell'esterno necessario, e se non è possibile vedere in quel luogo e in quel momento cose che non potrebbero essere viste altrove, perché andare a Cannes?