Maori, Zulu, Mapuche sono i protagonisti dei suoi romanzi

Caryl ferey picchia duro

30 / 5 / 2013

Caryl Férey è bel tipo. Francese di Caen, cresciuto in Gran Bretagna di cui apprezza particolarmente le coste frastagliate, la socialità e la musica nei pub, ha percorso giovanissimo l’Europa in moto e a 20 anni – ora ne ha 46 – ha fatto il giro del mondo. Un giramondo, quindi, che prima di dedicarsi alla scrittura ha collaborato con The Roug Guide. In qualche nota biografica ho anche letto che è un amante del rugby e, forse non a caso, i suoi romanzi sono ambientati in parti del mondo dove questo sport gode di una diffusa e profonda passione. Ma nei suoi romanzi i protagonisti non sono rugbysti, né vi si raccontano storie che ne facciano accenno, bensì sono rappresentanti di etnie, popoli o nazioni che, in diversi contesti storici e in diverso modo, hanno dovuto e devono tutt’oggi cimentarsi con il difficile rapporto di coesistenza e/o di assimilizzazione con altri nello stesso territorio e società.

Mi riferisco alla popolazione maori, protagonista dei primi due noir scritti da Férey; alla quasi estinta popolazione mapuche, protagonista del suo ultimo romanzo; ai reduci irlandesi del conflitto armato indipendentista contro l’Inghilterra e alla popolazione nera, di etnia zulu e bantu, della nuova democrazia sudafricana.

I protagonisti dei romanzi di Férey sono personaggi difficili, duri, ruvidi, verso i quali spesso non è facile provare simpatia, fanno parte di questi gruppi etnici o nazionali ma, sbaglieremmo, approciandoci ai suoi romanzi pensando che Férey intenda scrivere romanzi a sfondo politico. Si tratta di storie a tutto tondo noir, aspre e violente, anche se del tutto immerse in uno sfondo politico e sociale che diventa protagonista corale a fianco delle vicende vissute dai protagonisti principali.Le sue storie prestano esplicita attenzione alle problematiche sociali della difficile integrazione nel Sud Africa del dopo Mandela; alla incomunicabilità culturale e sociale nelle periferie neozelandesi tra maori e popolazione bianca; al lascito di terrore, sofferenze e dolori dalle dittatura militare argentina e al più antico e pronfondo massacro delle popolazioni indios delle pampas; al lascito psicologico doloroso di quanti hanno passato lungo tempo della propria vita  nella clandestinità armata contro la repressione inglese in Irlanda.

Férey ripercorre il sentiero dei noir della grande tradizione francese, senza sfigurare al fianco di un Manchette, di un Daenickx, di un Izzo, di un Magnan e di un Quadruppanì per rimanere solo agli autori maschi di questa tradizione. Schierandosi sino dalle prime pagine con chi ha subito torti, sopprusi, repressione, violenza, discriminazione razziale, senza tentennamenti ma anche senza nasconderne le contraddizioni. Nel senso che non esistono semplicemente buoni da una parte e cattivi dall’altra, bianco e nero ma infinite sfumature di grigio nelle società e negli ambienti sociali dove costruisce le sue storie.

Le prime due storie che lo hanno fatto conoscere – di cui la prima per uno dei tanti misteri della nostra editoria non è mai stata tradotta e pubblicata nel nostro Paese – sono ambientate in Nuovazelanda e trattano di una serie di vicende violente la cui soluzione viene ricercata all’interno della comunità maori, scavando nelle tradizioni e nel retaggio religioso e mitico di questo popolo che ancora sopravvive alla modernità. Proprio per la strana scelta degli editori italiani di non pubblicare il primo dei due romanzi – “Haka” – si può leggere in lingua italiana solo “Utu”. Pur essendo questo il seguito di “Haka” lo si può leggere tranquillamente senza perdere nulla del fascino del romanzo e cogliendo, attraverso i continui rimandi al primo, quanto lì raccontato e, qui, portato alla fine della storia.

Haka in maori significa semplicemente danza ma anche Ha (soffio) e Ka (infiammare); cioè “accendere il respiro” o che rimanda nella cultura e religione maori all’origine di ogni individuo. Non è, quindi, solo una danza di guerra o intimidatoria come si è portati a pensare nel vederne l’interpretazione moderna esportata in tutto il mondo dall’haka degli All Black della nazionale neozelandese del Rugby ma è qualcosa di più profondo, di interiore, l’espressione della passione, del vigore e dell’identità razziale maori. Infatti in “Haka” Férey fa impattare l’indagine dei protagonisti del libro, una coppia di poliziotti, uno bianco e uno meticcio, con una scia violenta di delitti che rimandano alla irriducibilità di una sorta di “confraternita” maori, guidata da un carismatico e misterioso stregone leader religioso, determinati a difendere le proprie tradizioni dalla prepotente penetrazione della cultura bianca. Lo stesso ambiente fa da sfondo a “Utu”- vendetta in lingua maori – e per risolvere il caso Paul Osborne, poliziotto meticcio “bello, ardente, focoso e pericoloso”, forte bevitore e dedito alla cocaina, dovrà immergersi nel malessere della comunità maori, sferrando colpi mortali ai fanatici religiosi così come alla apparente “gente per bene” bianca che fa affari e speculazioni con la prepotenza e l’arbitrio nei confronti della terra, della storia e della vita maori. Paul Orborne non è simpatico, né un bravo ragazzo, anzi è spezzo uno stronzo come lo possono essere proprio quel tipo di poliziotti sempre al limite tra corruzione e redenzione. A muoverlo è il rumore di fondo della violenza che lo tiene in vita ma anche un rancore verso la comunità bianca dal razzismo “educato” e verso le incrostazioni fondamentaliste della tradizione maori che non aiutano la comunità a riprendersi gli spazi politici e sociali che gli spettano.

Alì Neuman, protagonista di “Zulu”, è anch’esso un personaggio complesso che ispira ammirazione ma non certo simpatia al lettore. Alì, di etnia zulu, era fuggito bambino dal bantustan KwaZulu per sottrarsi alla violenza delle milizie Inkatha in guerra durante la dominazione razzista bianca con l’African National Congress, allora clandestino. Alì è uno dei sopravissuti alle violenze interetniche alimentate dalla politica bianca e, ora, nel nuovo Sud Africa lo troviamo a capo della Squadra Omicidi di Cape Towne, alle prese con la violenza delle periferie e il flagello dell’Aids. Due omicidi di donne bianche, su cui vengono trovate tracce di rituali zulu, fanno da detonatore per lo scoppio di una storia, raccontata tutta di un fiato, mentre siamo alla vigilia del Campionato del mondo di calcio che si deve tenere, appunto, in Sud Africa. Alì si immerge nei traffici di droga, nei misteri delle tradizioni religiose zulu, nelle pericolose periferie alla ricerca della soluzione del caso mentre emergono, su tutt’altro piano, illegalità e crimini in nome del profitto negli ambienti economici, politici e finanziari bianchi. “Zulu” è un libro più aspro di “Utu”, che picchia forte allo stomaco – alcuni passaggi sono veramente di difficile digestione per stomachi deboli – ma coinvolge e trascina il lettore sino all’epilogo imprevedibile finale.

Diverso da questi è, invece, “La gamba sinistra di Joe Strummer”. McCash, irlandese ceco da un occhio sfondatogli dal calcio di un moschetto di un soldato inglese in un pub di Belfast, con un passato nell’IRA, vive una esistenza da alcolizzato in Francia dove si era rifugiato a fare il mestiere del poliziotto. Uno dei suoi miti, Joe Stummer voce dei Clash è da poco morto e anche lui è sulla via dell’autodistruzione quando una vicenda del passato, l’esistenza di una figlia che ha bisogno di lui, lo fa riemergere dal fango e dai propositi suicidi per ributtarsi nella mischia. Pub fumosi, birra nera irlandese, musica dei Clash ma non solo, fanno da sfondo a questa ballata nera costellata di dialoghi duri e da scoppi di violenza, con la quale Fèrey penetra nella ipocrisia della apparente legalità della società bene occidentale per scovarne le sacche di marcio e schiacciarle secondo la dura e originale legge personale di McCash.

L’ultimo lavoro di Férey mette insieme, invece, il lascito di terrore della dittatura argentina con la difficile sopravvivenza di quanto resta delle esistenze mapuche in una società ostile nei loro confronti. “Mapuche” solo apparentemente ha come protagonista Rubén Calderon, detective argentino, sopravvissuto alla repressione militare che si dedica alla caccia dei boia della dittatura e alla ricerca dei figli dei desaparecidos. E Rubén ci mette l’anima in questa missione, scontrandosi con la polizia, ancora compromessa con la passata esperienza della dittatura militare, frantumando omertà e, se necessario, non disdegnando la giustizia sommaria verso i boia di turno. A contrapporsi alla sua indagine è una congrega di sopravvissuti della giunta militare, generali, colonnelli, boia e aguzzini che cercano in tutti i modi, specie con l’omicidio, di cancellare le tracce del loro feroce passato. Ma la vera protagonista è in realtà Jana, giovane mapuche, figlia di un popolo a cui hanno da sempre sparato a vista nella pampas argentina, scultrice dall’esistenza precaria che incrocia il proprio destino con quello di Calderon contro i feroci aguzzini che, con la loro traccia di sangue, stanno tentando di cancellare il passato e darsi una nuova e democratica identità. Intorno a questi due personaggi si alternano le figure delle Madri di plaza de majo e dei parenti mapuche di Jana massacrati dall’esercito argentino. Con Calderon si ripercorre il destino del padre, poeta esule, ritornato in patria per salvare i propri figli e morto nelle mani della repressione militare, così come la sorella di Rubén. Con Jana si entra nel mondo dei mapuche, si conosce la loro storia, le indentità e la cultura che faticosamente sopravvive alla repressione e al razzismo. Bellissima la parte del libro dove proprio Jana diventa la protagonista della resa dei conti con i boia militari in fuga il cui esito incerto accompagna il lettore al termine del racconto.

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Bibliografia

“Haka”

Edition Baleine 1998 (versione francese)

“Utu”

Edizione e/o 2012

“Zulu”

Edizioni Mondadori – Strade Blu 2009

“La gamba sinistra di Joe Strummer”

Edizione e/o 2011

“Mapuche”

Edizione e/o 2013

29 maggio 2013

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