Das Kapital

Capital in the Twentieth-First Century di Thomas Piketty, un successo editoriale negli USA s'aggira per l'Europa.Bene.

29 / 4 / 2014

Il successo negli USA di Capital in the Twentieth-First Century [il titolo con tutta evidenza strizza l’occhio al vecchio Das Kapital di Karl Marx] di Thomas Piketty, docente a Parigi e già consulente economico di Ségolène Royal, è da prevedere che si trasmetterà rapidamente in tutto il mondo, tornando "rinforzato" in Europa e in l'Italia: qui la traduzione è prevista in uscita a giugno per i tipi di Bompiani.

La tesi sostenuta nel testo – ci raccontano degli amici che lo hanno letto nell’edizione francese vecchia di 1 anno – è che il capitalismo sta ritornando agli albori, al suo periodo aureo dell'accumulazione, a cavallo fra fine Settecento e inizio Ottocento, cioè ad uno stato di cose ove l'accumulazione della rendita e del capitale è in mano a una percentuale infima di popolazione e non genera, in proporzione, produzione e ricchezza per tutti. Le diseguaglianze aumentano pertanto visibilmente e si erode, in conseguenza, quel vero e proprio asse portante delle nostre società, così come le abbiamo conosciute, che è la classe media. È questo un fenomeno, per Piketty, non solo occidentale ma globale.

Dove sta la novità ci dobbiamo chiedere, posto che le nuove enclosures economico-finanziarie sono state costantemente al centro del dibattito marxiano degli ultimi 15 anni e dell’agire sociale dei movimenti in Europa, in America latina ma non solo, questo è stato un mantra che il movimento Occupy ha recitato continuativamente nei luoghi delle occupazioni e dei presidi, a partire da Wall Street.

Probabilmente è il mondo accademico statunitense, quello liberal e opinionista, che non ascoltando più, da tempo, i sermoni accigliati di Noam Chomsky o la semplice ed efficace trasparenza di Naomi Klein, che ha bisogno di una voce esterna che lo richiami ad occuparsi della realtà materiale, non delle brioches.

I movimenti sono consapevoli della fase che stiamo attraversando e si misurano quotidianamente con mille difficoltà per difendere, per strappare quote di quel reddito sociale che viene espropriato ai cittadini di tutte le latitudini. Che se ne parli, che se ne discuta, comunque, non può che far bene a tutti, anzi è un segno che il problema ha raggiunto la soglia di pericolo, dell’intollerabilità sociale, dell’insubordinazione.

Qui di seguito proponiamo l’articolo, apparso sul NYT, di uno dei decani degli economisti keynesiani americani, Paul Krugman, per la traduzione di G. Volpe.

“Capital in the Twenty-First Century” [Il capitale nel ventunesimo secolo, il nuovo libro dell’economista francese Thomas Piketty, è un vero fenomeno. Altri libri di economia sono stati campioni di vendite, ma il contributo di Piketty è uno studio serio, che reindirizza il discorso in un modo non comune alla maggior parte dei campioni di vendite. Così James Pethokoukis, dell’American Enterprise Institute, avverte sulla National Review che l’opera di Piketty va rifiutata, altrimenti “si diffonderà presso gli intellettuali e riplasmerà il panorama economico su cui saranno combattute le battaglie future”. Beh, buona fortuna al riguardo. La cosa che davvero colpisce nel dibattito sin qui è che la destra sembra incapace di montare un qualsiasi contrattacco sostanziale alla tesi di Piketty. La reazione è consistita invece tutta in insulti, in particolare in affermazioni che Piketty è un marxista e che lo è chiunque consideri la disuguaglianza di reddito e di ricchezza un problema importante. Tornerò alla questione degli insulti tra un momento. Parliamo innanzitutto del perché “Capital” sta avendo un simile impatto. Piketty non è certo il primo economista a segnalare che stiamo sperimentando una forte ascesa della disuguaglianza o anche a sottolineare il contrasto tra la lenta crescita del reddito per la maggior parte della popolazione e i redditi che esplodono al vertice. E’ vero che Piketty e i suoi colleghi hanno aggiunto una gran quantità di profondità storica al nostro sapere, dimostrando che stiamo effettivamente vivendo in una nuova Età dell’Oro. Ma questo lo sappiamo da un bel po’.

No, ciò che è davvero nuovo a proposito di “Capital” è il modo in cui demolisce i miti più cari ai conservatori, l’insistenza sul fatto che stiamo vivendo in una meritocrazia in cui la grande ricchezza è guadagnata e meritata. Nell’ultimo paio di decenni la reazione conservatrice ai tentativi di fare dei redditi esagerati al vertice un tema politico ha messo in campo due linee di difesa: innanzitutto la negazione che i ricchi se la passino davvero tanto bene e che il resto tanto male, ma quando tale negazione fallisce si afferma che i redditi enormi al vertice sono una ricompensa giustificata per servizi resi. Non chiamateli l’uno per cento o i ricchi; chiamateli “creatori di occupazione”.

Ma come si sostiene tale difesa se i ricchi derivano gran parte del proprio reddito non dal lavoro che fanno bensì dal patrimonio che possiedono? E se la grande ricchezza deriva sempre più non dall’impresa ma dall’eredità?

Ciò che Piketty mostra è che questi non sono interrogativi oziosi. Le società occidentali prima della prima guerra mondiale erano in effetti dominate da un’oligarchia di ricchezza ereditaria, e il suo libro sostiene una tesi convincente che siamo ben avanti sulla via di un ritorno a quella condizione. E dunque cosa deve fare un conservatore che tema che questa diagnosi possa essere utilizzata per giustificare tasse più elevate a carico dei ricchi? Potrebbe tentare di confutare Piketty in modo concreto, ma sinora non ho visto segni di ciò. Invece, come ho detto, non ci sono stati altro che insulti. Suppongo che ciò non dovrebbe sorprendere. Sono stato impegnato in dibattiti sulla disuguaglianza per più di due decenni e devo ancora vedere “esperti” conservatori riuscire a contestare le cifre senza inciampare negli stessi lacci intellettuali delle proprie scarpe intellettuali. Perché è quasi come se i fatti non fossero fondamentalmente dalla loro parte. Al tempo stesso accusare di comunismo chiunque ponga in discussione un qualsiasi aspetto del dogma del libero mercato è stato la procedura operativa standard della destra sin da quando persone come William F. Buckley hanno cercato di bloccare l’insegnamento dell’economia keynesiana non dimostrando che era sbagliata, bensì denunciandola come “collettivista”.

Tuttavia è stato divertente osservare i conservatori, uno dopo l’altro, denunciare Piketty come marxista. Persino Pethokoukis, che è più sofisticato degli altri, definisce il “Capital” un’opera di “marxismo morbido”, il che ha senso soltanto se la sola menzione della disuguaglianza della ricchezza fa di qualcuno un marxista. (E’ forse è così che loro la pensano: recentemente l’ex senatore Rick Santorum ha denunciato il termine ‘classe media’ come ‘dizionario marxista’ perché, vedete, non abbiamo classi negli Stati Uniti). E la recensione del The Wall Street Journal, prevedibilmente, si spinge al limite, facendo conseguire all’appello di Piketty a una tassazione progressiva come modo per limitare la concentrazione della ricchezza – un rimedio tanto statunitense quanto la torta di mese, appoggiato non solo da economisti di spicco ma anche da politici tradizionali, fino a, e compreso, Teddy Roosevelt – i mali dello stalinismo. E’ davvero questo il meglio che il Journal è in grado di produrre? La risposta è apparentemente ‘sì’. Ora, il fatto che gli apologeti degli oligarchi statunitensi siano a corto di argomenti coerenti non significa che siano allo sbando politicamente. Il denaro continua a parlare; in effetti, grazie alla Corte [Suprema]di Roberts, parla più forte che mai. Tuttavia anche le idee contano, plasmando sia il modo in cui parliamo della società sia, alla fine, ciò che facciamo. E il panico causato da Piketty mostra che la destra ha esaurito le idee.

Fonte: www.znetitaly.org

Originale: The New York Times

traduzione di Giuseppe Volpe