Intervista di Serge Quadruppani a Alberto Prunetti

Dialogo con Alberto Prunetti

Amianto, Capo Frasca, lotta No Tav, letteratura e proletarizzazione

7 / 10 / 2014

Serge Quadruppani e Alberto Prunetti (entrambi scrittori e traduttori) si sono incontrati negli ultimi tempi prima al festival Una montagna di libri in Val di Susa e poi a Cagliari al Festival Letterario Marina Caffè Noir. Ne è nata un’intervista di Quadruppani a Prunetti apparsa sul sito francese Article11, che riproponiamo in italiano, attorno alla manifestazione di Capo Frasca contro le servitù militari, la lotta No Tav, la questione dell’amianto e del Quinto stato di lavoratori della cultura proletarizzati.

Mi puoi raccontare la giornata di sabato 13 settembre a Capo Frasca? Secondo te, questo movimento sarà duraturo? Può diventare un elemento di aggregazione anche per altre realtà (pastori, minatori, no-radar, ambientalisti, etc)?

Mi auguro che sia duraturo. Alla manifestazione di Capo Frasca, indetta contro le servitù militari in Sardegna, erano già presenti tutte queste realtà. E non mancavano altri comitati come i siciliani del No-Mous, gli anarchici, gli ambientalisti di tante correnti. Poi c’erano, predominanti, molte voci dell’indipendentismo sardo. Ovviamente ci sono tanti modi per opporsi allo stato-nazione: gli indipendentisti, non a torto, denunciano il colonialismo italiano che usa la Sardegna per i propri giochi di guerra invitando i torpedo europei e i caccia israeliani. Ho partecipato a quella manifestazione a partire dal mio internazionalismo, da un sentimento di antimilitarismo libertario. La manifestazione è stata partecipata, c’erano famiglie, bambini, si parla di 5-6mila persone. Da un punto di vista paesaggistico, le basi militari in Sardegna occupano spazi meravigliosi, chilometri di coste selvagge, ettari di retro-duna, stagni d’acqua puntellati dal verde salmastro della salicornia. Qui si lanciano missili a profusione che ogni tanto escono dai poligoni e distruggono le vigne dei contadini, o fanno ammalare di leucemia i pastori, o inquinano di metalli pesanti i pascoli, per poi entrare nella catena alimentare umana. Ci sono stati momenti di tensione e altri in cui la tensione si è allentata (ottimo un trampoliere travestito da fenicottero che si è messo tra i manifestanti e la polizia in assetto antisommossa). A un certo punto, in serata, un gruppo di trecento attivisti, tagliando la rete, è anche riuscito a mettere simbolicamente piede dentro alla base militare. Un altro aspetto interessante è stata la dura contestazione verso quei politici di professione che erano venuti per intercettare le istanze radicali espresse dagli attivisti. A detta di tutti, la manifestazione è stata un successo. Se produrrà frutti fecondi e duraturi, non sono onestamente in grado di dirlo.

C'è un contrasto bizzarro tra il fatto che Cagliari è una città con un forte passato fascista e la manifestazione di Capo Frasca, che mette in evidenza in quest'isola un’opposizione radicata nel territorio, che attacca alle radice alcuni pilastri del tardocapitalismo in cui viviamo. Che ne pensi?

Molte città capoluogo in Italia hanno avuto un passato dominato dalla presenza dei ceti impiegatizi che erano grati al fascismo per aver concesso lavoro e rispettabilità. Ma credo che le cose a Cagliari siano cambiate da tempo e comunque la manifestazione di Capo Frasca registrava presenze da ogni parte dell’isola. Oggi ti direi che Cagliari brilla di un sentimento antifascista molto raro in Italia: l’antimilitarismo. La Sardegna è un’isola sottoposta a logiche di guerra. Tutti gli eserciti europei vengono a testare i propri missili lanciandoli sul suolo sardo. La gente è stanca. C’è inquinamento da cadmio, da torio, si teme anche l’uranio arricchito. Si segnala un eccesso di leucemie e tumori nelle zone vicino alle basi militari, che inquinano ettari e ettari di suolo sardo. Come nel caso dell’amianto, si inquina senza avvertire la popolazione, che si ammala. Quando sono arrivato a Cagliari un tornado tedesco in un’esercitazione aveva appena lanciato un missile che ha incendiato 26 ettari di macchia mediterranea. La gente è stanca e si dichiara apertamente antimilitarista. In senso inverso al resto d’Italia, dove c’è un patriottismo degno di certe commedie all’italiana. Questo antimilitarismo, a volte esprime anche istanze anticapitaliste, altre volte è solo espressione di un sentimento di autonomia e di indipendenza sardo.

 Il tuo libro “Amianto” esprime una visione molto critica del lavoro salariato…

 Nel mio libro, può sembrare rappresentata l’apologia del lavoro. Ma “Amianto” fa vedere che il culto del lavoro, nelle mani dei sacerdoti del capitale, ti porta alla tomba. In realtà, i nostri vecchi, mio padre e i suoi colleghi, avevano una manualità perfetta che si esprimeva al meglio fuori del lavoro, nel tempo del non lavoro, quando tornavano a fare i contadini o facevano autocostruzioni. Era il lavoro alla Fourier che si contrapponeva al lavoro alla Stakanov. Ai padroni il secondo non dispiaceva.

Mi pare che il tuo libro "Amianto" abbia molte risonanze con la lotta No-Tav e non soltanto perché la montagna che vogliono traforare è piena di amianto. Tra l'altro, c'è il rapporto con l'istituzione giudiziaria, molto diversa di quella della post-sinistra adoratrice dei giudici… (a proposito, puoi ricordarci come è finita la causa per l’esposizione mortale all’amianto di tuo padre?)

Quanto alla giustizia, la sentenza che mi riguarda ha il sapore della beffa, perché la giustizia italiana ha riconosciuto il diritto di mio padre ad andare in pensione con 7 anni e mezzo di anticipo quando già era morto da 7 anni. Prendiamo poi in esame il processo Eternit, che è il più importante processo sull’asbesto che si sia discusso su scala mondiale per la morte di tremila persone, ovvero una popolazione decimata: 36mila abitanti a Casale, 3mila i morti, perlopiù operai: il dieci per cento della popolazione deceduto per tumori polmonari. Nel processo erano contumaci i due magnati del cemento-amianto, il belga de Cartier e lo svizzero Schmidheiny, Bene, dei due imputati uno è morto e l’altro è stato condannato a 18 anni di carcere ma nessuno va a cercarlo: non è mica un pericoloso scrittore sovversivo. Per ora anche i suoi soldi stanno al sicuro nelle banche svizzere e attaccato al muro di casa ha una laurea honoris causa che gli ha rilasciato l’università di Yale. La giustizia, se è di questo mondo, non verrà dai tribunali insomma. Quel che conta è l’attivismo dei comitati, il fatto che le vedove di quei morti, invece di stare a casa a guardare la tv, hanno socializzato il loro lutto e ora hanno una grande famiglia costituita dagli attivisti di Casale Monferrato, mentre le loro istanze si uniscono a quelle di tanti comitati italiani, ai gruppi contro l’amianto francesi, spagnoli, belgi, inglesi. La gente a Casale muore coi volantini in tasca. Cioè vive fino all’ultimo una vita piena, lottando contro la multinazionale dell’Eternit, creando una comunità in lotta. Come è in lotta, in maniera conviviale, la Val di Susa. Il progetto TAV vuole stravolgere la geografia di quelle zone in cui un tempo anche mio padre lavorava, tra raffinerie e altri stabilimenti industriali, tra Genova e il Piemonte (penso anche alla variante di valico che attraversa la Valle Scrivia). Sono località in cui la gente è stata esposta a una serie di spaventose nocività e alla trasformazione del territorio sotto i colpi di maglio degli ingegneri industriali. E ancora si va avanti con progetti costosi, fallimentari e impopolari.

Il tuo libro e le interviste che ne parlano insistono sul tema della trasmissione da una generazione operaia a un'altra che non si può forse più definire strettamente operaia ma certamente proletaria. Da una generazione all'altra, abbiamo assistito alla trasformazione dei modi di sfruttamento capitalistico. Secondo te, in questo passaggio da una condizione proletaria all'altra, cos'abbiamo perso, cos'abbiamo guadagnato? Mi pare che un libro come il tuo dimostra che abbiamo guadagnato nelle capacità di teorizzare e di raccontare. Per come la racconti, la tua storia di precarietà ti ha anche dato la possibilità di scoprire che la tua storia non era unica, che era simile a molte altre…

Oggi in Italia c’è un nuovo proletariato che in parte è costituito da figli di ceti medi proletarizzati. Per loro la crisi economica ha significato la scoperta che il capitale è una brutta bestia. Ma questa crisi spesso viene descritta come un meteorite, un macigno caduto sul loro collo da un momento all’altro. Faticano a storicizzare. Sono nati negli anni della Milano da Bere e ora scoprono lo sfruttamento. Chi come me viene da una famiglia operaia, riconosce nella crisi il volto del capitale e può storicizzare (e socializzare) le proprie esperienze. Perché in crisi ci è nato.

Al tempo stesso, la mia è una generazione di proletari che hanno fatto l’università, che hanno ereditato dai padri operai e contadini l’umorismo corrosivo, la satira tenace, la forza e la resistenza che ti porta a studiare per giorni e giorni, affrontando ogni difficoltà perché il cantiere industriale fa più male… non sentiamo la stanchezza, andiamo avanti testardi. I nostri nonni muratori o i bisnonni contadini non sapevano quasi scrivere e oggi noi siamo in grado, penna alla mano, di mettere nero su bianco lo strazio del lavoro vivo, inchiodando il padronato con le spalle al muro. Abbiamo questa forza dalla nostra parte: il figlio nel notaio non potrà mai scrivere come me, con la stessa incisività. Non potrà mai alternare la merda e il sole, la fame e la gioia, la tragedia e l’umorismo. “Amianto” nasce dalla tensione ben calibrata di questi opposti, che chi ha avuto vantaggi nella vita non può raccontare. Nasce dall’uso della penna come se fosse un martello e un cacciavite. Dall’ironia usata per coibentare il dramma. Altro punto. Nel momento in cui ho raccontato una storia che credevo mia, ho scoperto che era in realtà una storia di molti. Andavo a fare presentazioni nel nord, nel sud, a Bagnoli, a Monfalcone, a Torino… e la gente mi diceva: “È anche la mia storia, è la storia della mia famiglia…” Ho ricevuto centinaia di storie di lettori che mi raccontavano come il lavoro aveva fatto ammalare il padre, il nonno che si ribaltava col trattore, la nocività di un sistema industriale che uccide anche chi non lavora in fabbrica con l’inquinamento, con lo stress, coi ritmi di vita che spingono l’umanità fuori dall’umano, producendo metastasi di alienazione e stress… E piano piano attraversando l’Italia nelle presentazioni del libro ho cominciato a pensare che si sta formando un Quinto Stato, una nuova classe di lavoratori che cercano un modo per contarsi, per allacciare relazioni, per riconoscersi, per lottare assieme… “Amianto” è un piccolo attrezzo a disposizione, per non replicare gli errori del passato, per capire chi siamo e da dove veniamo. Spero che serva per i prossimi cicli di resistenza e di lotte.

 A che punto sei con la trilogia di cui Amianto sarebbe la prima parte? 

È una trilogia working class. Sto concludendo il secondo volume, in cui il racconto si sposta in Europa del nord. Racconterò la nuova emigrazione italiana e il lavoro delle nuove generazioni di sfruttati europei, anche europei del nord, che passa non più dalla feticizzazione del lavoro ma dal suo rifiuto o più sovente dal sopportarlo come un elemento di negatività in una vita di ricatti e di precariato. Amianto è un modo per spiegare come il precariato emerge dalle sconfitte della generazione dei lavoratori del boom economico. Nel secondo volume racconto il lavoro privo di soddisfazione e di garanzie di una nuova generazione di precari. Con il terzo libro, lo scenario si sposterà, seguendo i flussi di capitale, verso oriente. Ma dovrò tornare a spostarmi anch’io in Asia (ho insegnato in India in un periodo di due anni). Per il momento, il terzo volume sta ancora nella mia testa, mentre il secondo andrà presto in visione ad alcuni editori. 

Articolo originale in francese: http://www.article11.info/?Alberto-Prunetti-La-justice-si#pagination_page