Donne, razza, classe: il report del dibattito a Sherwood Festival

14 / 7 / 2021

Il dibattito al quale sono intervenute Kwanza Mousi Dos Santos (Associazione QuestaèRoma) e Wissal Houbabi (cantante/scrittrice) pone le sue basi sul testo di Angela Davis, un testo cardine di una delle attiviste afroamericane più conosciute che è stato d’avanguardia fra gli anni ‘70 e ‘80 perché ha introdotto il pensiero di critica femminista nera. Già negli anni ‘70 si parlava di intersecare le lotte e di non vederle come filoni staccati perché la necessità di intrecciare le lotte significava innanzitutto mettere a sistema tutte le oppressioni delle identità.

«Cosa significa questo testo oggi e per voi cosa ha significato essere donne nere cresciute in Italia e aver vissuto oltre e fuori i confini degli stati d’azione, che opprime e definisce, cosa significa superarli?» è la prima domanda che è stata posta alle ospiti.

Kwanza Mousi Dos Santos, attivista  italiana afrobrasiliana cresciuta a Roma: «Mi occupo di temi di identità in società patriarcale sessista ed eteronormata e Angela Davis per me è stata di grande ispirazione come molte altre scrittrici afrobrasiliane». Il papà di Kwanza è stato attivista del movimento negru per l’affermazione dei diritti dei neri e le ha sempre insegnato che la “diversità” è un valore aggiunto e non può essere motivo di scherno. «In Brasile non c’è mai stato un presidente nero mentre più della metà della popolazione lo è: questo è emblematico della sistematicità del razzismo in Brasile. Le contraddizioni fanno parte della mia vita e della mia quotidianità, Angela Davis mi ha aiutato a dare un senso alle cose che vivevo e vedevo, che sentivo ma non sapevo collocare, perché grazie a lei ho capito che è il problema è globale».

L’antirazzismo, però, da solo non basta, se non si intreccia con la componente femminista, e la stessa cosa vale al contrario: «essere donna e nera sono questioni intrecciate nel mio vissuto. Superare le dicotomie e le contraddizioni è essenziale per affrontare il nocciolo duro della questione, cioè la complessità identitaria che dovremmo imparare a valorizzare e a valorizzare, senza feticizzazioni e con quella genuinità che può farci andare oltre le etichette identitarie che si fermano alle apparenze».

Anche Wissal Houbabi parte dal suo vissuto: «vengo da Bologna e non so se definirmi attivista. Sono una ragazza cresciuta in un contesto di provincia senza stimoli, figlia di immigrati marocchini di ceto sociale molto basso. Kimberlé Crenshaw e Angela Davis mi hanno aiutata, ma è l’istinto di sopravvivenza mi ha portata a trovare un modo per poter respirare».. Crescere in Italia come donna razzializzata pone spesso le persone in quel bivio nel quale si deve capire se lottare in quanto donna o in quanto immigrata: «trovarsi in questo bivio significa lottare contro la propria comunità o  usarla per lottare contro il sistema».

Uscire dalla dicotomia razza/genere non è semplice perché c’è sempre pericolo di strumentalizzazione politica, soprattutto da parte della destra: è attraverso le letture che sono riuscita a sentirmi sollevata, perché ho capito che non dovevo decidere da che parte stare. Angela Davis aggiunge anche l’elemento della classe, che nella mia esperienza di immigrata economica era naturale percepire, visto che ho sempre vissuto al di sotto del “rango italiano”. La classe, il genere e la classi si alimentano fra loro al punto da soffocarti e portarti a pensare che il tuo destino sia già scritto: badante o cameriera, sei destinata a un lavoro umile perché gli italiani saranno sempre al di sopra di te. Questa è stata la condizione in cui sono cresciuta che mi ha portato anche un senso di autocondanna e depressione. Ho risolto tutto questo andando contro corrente, seguendo il mio istinto e il mio lato irrazionale e finalmente la mia rabbia si è trasformata in riflessione e autocoscienza.

Il dibattito è proseguito con la seconda domanda: «parlando di razza e razzializzazione, ci troviamo a fare i conti in Italia con questo aspetto ogni giorno. La scorsa estate Black Lives matter ha attraversato l’Oceano riempiendo le piazze italiane di seconde generazioni e non solo, che hanno rotto la narrazione emergenziale sulle migrazioni. Una narrazione che da un lato passivizza i soggetti, dall’altro, soprattutto nella lettura della sinistra istituzionale, antirazzista riproduce la dinamica razzista perché innalzano la figura del white saviour. Rispetto a questo, cosa avete visto cambiare nella società?».

Per Kwanza la razza è una parola che fa paura perché ci spinge in un’epoca storica che vorremmo superare. «Da bambina il mio essere brasiliana pensavo fosse un complimento, nonostante gli stereotipi che il Brasile si porta dietro. Mi sono resa conto di essere persona razzializzata, quando ho percepito che la mia apparenza e ciò che ne viene associato viene prima di qualsiasi cosa che riguarda la mia persona: prima della mia competenza, delle mie aspirazioni, delle mie passioni, paure e complessità, delle mie criticità».

Kwanza  dice di aver avuto la fortuna di crescere con tanti afrodiscendenti, «con cui non mi sentivo bersaglio di razzismo, anche se  rivendicavo il mio essere per metà bianca, esattamene come uscendo dal contesto nero difendevo la mia origine non italiana. Mi sentivo in questo limbo perenne di meticcia, mulatta, figlia di “coppia mista “, termine stesso emblematico del razzismo sistemico». Crescendo Kwanza si è accorta dell’esistenza della razza e del razzismo, riconoscendosi come persona razzializzata: «non c’è niente di sbagliato nel differenziare e nell’etichettare, a patto che però questa differenziazione non sia inserita in una scala di valori migliori o peggiori, in cui il bianco è sempre all’apice. Le persone bianche non vengono razzializzate perché il bianco è lo standard. Scegliere di non vedere questo privilegio riproduce le dinamiche di razzializzazione».

Wissal sposta la questione su Black Lives Matter: «la radicalità non è la somma delle oppressioni e la forza di Black Lives Matter negli ultimi anni è stata quella di far entrare in circolo diversi tipi di antirazzismo e di mettere a nudo la fragilità bianca nel momento in cui ci si rende conto del privilegio».

Un tema cruciale al momento riguarda la cittadinanza, e in particolare lo ius soli: «quando si tratta di cittadinanza, non riguarda solo le persone razzializzate, ma tocca tutti quanti perché i diritti materiali, gli strumenti per vivere, sono connessi all’essere di una certa nazionalità e identità. Sarebbe bello invece immaginare un mondo in cui una persona potesse votare pur mantenendo la propria cittadinanza. Io non voglio sentirmi italiana per forza e la cittadinanza per gli immigrati deve essere un lasciapassare materiale, non una volontà di sentirsi “italiano”». Per Wissal è importante combattere per lo Ius soli per coloro che sono nati e cresciuti in Italia, ma bisogna capire dove finisce l’italianità e dove iniziano i diritti che si acquisiscono per sangue. Laicizzare i diritti e abbattere i privilegi sono cose che vanno di pari passo: «non credo che i partiti di sinistra possano aiutare questo percorso, io credo nel movimento dal basso e nella nuova generazione che adesso è più consapevole. Ho bisogno di persone arrabbiate come me che collettivamente si organizzeranno per abbattere il privilegio».

L’ultima domanda l’intersezione delle tematiche affrontate con il concetto di classe: «il razzismo è funzionale alla distribuzione di potere dettato dal sistema capitalista in cui viviamo. E questi temi non possono non intersecare il tema della classe connesso all’economia e alla finanziarizzazione».

Per entrambe prima della razza c’è la classe perché la classe è la base della razza. «La povertà è la premessa che ti fa scoprire il razzismo» dice Wissal, che ha sempre avuto nella musica rap lo strumento per dare voce alla sua condizione e alla sua rabbia: «la musica è il metodo che mi ha portato ad autodeterminarmi perché i libri da piccola non potevo permettermeli. Il rap è stato  l’unico compagno di vita che potesse parlare a gente come me che aveva bisogno di linguaggio basilare, e che esprimesse il grado di rabbia che avevo».

La marginalità di classe può diventare uno spazio radicale di resistenza creativa: «riesco a parlare con ragazzi come me, e usando il rap apro un ponte a persone come me che vengono da condizioni di povertà estreme. Questa è la mia sfida. Bell hooks dice “vai dove riesci ad arrivare, vai oltre, ma ricordati da dove vieni e in mezzo a quali persone sei cresciuta”. Abbiamo bisogno di spiattellare tutta la rabbia che le generazioni nuove fanno emergere, perché almeno la rabbia concedetecela».