Fratelli Bastardi: ACAB è - anche - un film

"L'idea era quella di fare un film di genere che affrontasse i temi caldi della nostra società senza declinarli direttamente". Stefano Sollima

1 / 2 / 2012

Premesso che le occasioni di contestazione preventiva sono state fino a oggi esclusivo appannaggio di integralisti religiosi ossessionati da ipotetiche blasfemie, spesso accompagnati da decerebrati dalla testa rasata (ultimo il caso dello spettacolo teatrale Sul concetto di volto nel figlio di Dio)  e della singolare e tutta italiana categoria dei parenti delle vittime, nelle diverse declinazioni "del terrorismo" e "del dovere" (cito per tutti La Prima Linea di Renato De Maria e Vallanzasca di Michele Placido); premesso altresì e di conseguenza che verosimilmente tutti concordano sulla dinamica che mette in sequenza "prima" la visione di ciò che costituisce oggetto di presa di posizione critica e ”dopo” la formulazione e la motivazione del proprio pensiero, bisogna interpretare il senso della contestazione di ACAB da parte di chi il film non lo aveva visto, semplicemente perché non era ancora uscito, e dava l'idea di non volerlo proprio vedere.

Non ho letto il libro di Carlo Bonini. Normalmente questo sarebbe irrilevante, essendo libro e film due unità distinte e autonome. Ma in questo caso se chi ha letto il libro non vi ha riconosciuto la determinazione ad essere indagine obiettiva, frutto di ricerche e testimonianze, cogliendo viceversa un tentativo di edulcorare e romanzare invece che descrivere in modo realista e condivisibile, ecco che l'incazzatura conseguente può essere motivo di contestazione del film. Che d'altra parte, dice testualmente Bonini, è completamente fedele al libro nell'approccio alla materia e nello sguardo. Libro che è stato comunque presentato assieme all'autore in più di un Centro Sociale e non risulta sia stato contestato. Non so, non c'ero. Per quanto mi riguarda Bonini è anche un pistarolo con troppe buone conoscenze nei servizi segreti, come fu il suo collega D'Avanzo, e in altri luoghi sgradevoli. E' il suo mestiere, si dice. Il libro in ogni caso non lo leggerò. Il film, invece, l'ho visto.

Sollima si avvale degli stessi sceneggiatori con cui ha realizzato la serie televisiva Romanzo Criminale: mai vista, non ho nemmeno Sky, se ne parla bene, anche se le facce sembrano più legnose di quelle utilizzate da Placido per il suo film. Ma la prima nota di demerito si colloca qui. Il suo lungometraggio d’esordio risente nettamente  della abitudine alla confezione televisiva: taglio, ritmo, montaggio, inquadrature, sviluppo delle storie incrociate rimandano dritti al piccolo schermo. Non racconta la Polizia, ma restringe lo sguardo su un compatto manipolo del Reparto mobile di Roma, tre celerini: Cobra, Mazinga e Negro tra loro si chiamano fratelli. “O sei di un gruppo o non sei niente” sentenzia Cobra. E infatti senza divisa sono tre sfigati. Ancorché fascisti senza se e senza ma. La casa di Cobra è una sorta di museo dell’iconografia littoria, Mazinga per non sbagliare ha sposato una guardia e messo al mondo un nazi che lo ha scavalcato a destra, Negro ha comprato una moglie cubana per poi farsi mandare giustamente a fare in culo e prenderla a pugni senza troppo pensarci su. Tre pezzi di merda, sia in servizio che nel tempo libero. Infatti la giovane “spina” attratta dal gruppo dopo un po’ si chiama fuori, a costo di passare da infame, prima di diventare anche lui un Fratello Bastardo a tutti gli effetti.

Sollima, malgrado le nobili dichiarazioni di intento, sembra però schierarsi dalla parte dei suoi cops. Vero è che maneggia una materia ad alto grado di politicità cercando di portare continuamente lo sguardo dello spettatore dentro e fuori la soggettiva dei personaggi; vero che riesce a dare una misura dell’odio che, attorno agli stadi ma non solo, non era così percepibile nel Paese almeno dagli anni ’70; vero che apparentemente non condanna o assolve nessuno nel tentativo di mettere sullo schermo una violenza oggettivata, raffreddata da ogni partecipazione; vero ancora che, un occhio al polar francese, si sforza di porre l’azione al centro del discorso provando a coniugare genere e autorialità. Ma la sua durezza di sguardo non sembra accompagnarsi ad altrettanta intransigenza morale. E’ l’incapacità degli autori a mantenere la giusta distanza dai protagonisti a deprivare gli stessi di ogni possibile fascino provocando, forse involontariamente, la presa di posizione dello spettatore contro i tre “celerini figli di puttana” e per estensione contro le forze dell’ordine tutte. Con questo rendendo ACAB un film da vedere piuttosto che da evitare.

Appaiono molto istruttivi lo squallore e il vuoto delle loro vite, il virile vittimismo verso Stato e gerarchie, verso la politica che prospera mentre loro vanno a prendersi le legnate in piazza. Il machismo cameratesco, la semplificazione che governa qualsiasi simulacro di analisi della società. Il ricondurre ogni ragionamento a categorie più rozze che elementari, il culto del manganello e dello spirito di corpo. Invece di farci vedere gli ultras delle curve come una massa indistinta e minacciosa senza volto, come i nativi americani nei western anni '40 e '50, ancora più istruttivo sarebbe stato mostrarci qualcosa dell’uso illegittimo delle armi, anche solo un candelotto CS sparato lucidamente ad altezza d’uomo. O quello che succede troppo spesso nelle camere di sicurezza delle questure e delle caserme nelle quali la ministra di Giustizia Severino vorrebbe fossero trattenuti i fermati per il tempo infinito di 48 ore. Quando Mazinga dice che il massacro della Diaz al G8 2001 è stata “la più grossa stronzata della vita nostra” non sembra proprio si stia rammaricando della macelleria messicana, quando i fratelli vanno in borghese a ripulire un parco dai rumeni il loro piacere traspare senza equivoci, quando decidono di vendicarsi privatamente di una “pungicata” subita in servizio è evidente che del rispetto della Legge se ne sbattono altamente. Il sospetto di condivisione autoriale dell'agire dei protagonisti contribuisce a deprivare gli stessi di ogni possibile fascino, a paralizzare qualsiasi pulsione emulativa, ad annientare ogni simpatia.

In attesa di vedere se e quanto rispondente al vero - a quello che ricordiamo o immaginiamo come vero -  sarà il film sulla Diaz che Daniele Vicari è stato costretto a girare in gran parte in Romania, è possibile archiviare ACAB traendone almeno uno spunto di riflessione utile: se loro sono i cattivi allora noi siamo i buoni. Il che non significa che siamo quelli che prendono le manganellate. Siamo quelli che alle manganellate non rispondono con un mazzo di fiori, senza paura di fare male e di farsi male. Perché certo, ACAB è - anche - una realtà.

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