Genere e produzione di soggettività

Intervista a Roberta Pompili (collettivo Euronomade) fatta da Elisabetta Stracci (Non Una di Meno Perugia) nel corso di PRESSto (Perugia 12-14 aprile 2018)

30 / 4 / 2018

Nel corso della seconda puntata di PRESSto (Perugia 12-14 aprile 2018), è stato affrontato il tema dell’hate speech e del modo in cui i mezzi d’informazione riproducono e amplificano i dispositivi d’odio, soprattutto seguendo la linea della razza e quella del genere. Rispetto a quest’ultima proponiamo un’intervista, fatta nel corso della trasmissione, da Elisabetta Stracci, attivista di Non una di Meno Perugia, a Roberta Pompili, antropologa e componente del collettivo Euronomade.

Betta: Ciao Roberta, nel corso della trasmissione (link al podcst) abbiamo visto come la governance neoliberale ci abbia traghettato in una fase autoritaria - all’interno di quello che viene definito “ciclo reazionario” - e di come in questo contesto entrino in gioco i dispositivi di genere razza e classe. Ad esempio, il ruolo del genere nelle politiche della governance?

Roberta: Cominciamo con alcune premesse di carattere generale teorico: la questione di genere è prima di tutto un terreno di trasformazione straordinaria, perché la rottura della dicotomia produzione-riproduzione ha determinato l’ingresso nella contemporaneità e nella “produzione contemporanea”. In questa rottura, mentre prima esisteva una divisione sessuale tradizionale del lavoro, che chiaramente portava una serie di apparati ideologici con sé e specifiche forme di sfruttamento, adesso abbiamo a che fare con la produzione che tracima nella riproduzione e viceversa. 

Parliamo di femminilizzazione del lavoro perché quei dispositivi di genere sono attivi sulla produzione e non riguardano esclusivamente le donne; i dispositivi di genere sono le modalità di inferiorizzazione, di messa al lavoro in termini di subalternità. Questo, intanto, per capire il contesto in cui ci troviamo e in cui vige la rottura tradizionale della legge del valore del lavoro. Valore che viene prodotto nell’insieme della società, nella cooperazione e continuamente riprodotto. In questo senso il dispositivo di genere rappresenta un elemento con cui leggere l’eterogeneità della composizione di classe: quando noi parliamo di genere dobbiamo avere in mente un campo di lotta di classe. Chiaramente, non siamo ingenue, sappiamo bene che il genere è stato declinato nel diversity management, che può essere riassorbito nelle politiche neo-liberali, nelle politiche identitarie etc. Ma questo non significa che sia un dispositivo chiuso, perché in realtà esprime un campo d’azione e di lotta per noi imprenscindibile.

In questo momento è anche al centro del ciclo reazionario di cui stai parlando, ovvero di quelle politiche identitarie che hanno lasciato uno spazio alla (ri)territorializzazione delle politiche reazionarie, che in questo momento cercano di ricolonizzare, in maniera più aggressiva, le forme di subalternizzazione delle soggettività come genere e razza. 

Però questo aspetto del genere è ancora per noi un campo aperto - formidabile - di trasformazione, proprio perché, nella misura in cui la femminilizzazione del lavoro ha di fatto tracimato tutta la produzione, siamo convinte che non esista soltanto il piano del potere e dello sfruttamento, ma inevitabilmente assistiamo al divenire donna della lotta di classe. In altri termini, la questione di genere e le donne intese come soggetto politico possano parlare all’eterogeneità dei soggetti subalterni e subalternizzati e riaprire un campo di conflitto incredibile.

Betta: A questo proposito io introdurrei la chiave intersezionale, proprio perché parliamo di più dispositivi e del superamento delle politiche identitarie. Dove per politiche identitarie possiamo intendere sia quelle propriamente dette, che guardano allo Stato-nazione, al patriottismo, ai confini, ma anche quelle che in apparenza si propongono come antitetiche alle prime, ma che riportano comunque a una cristallizzazione identitaria. La chiave intersezionale ci può aiutare a superare tutto questo e, se sì, in che modo?

Roberta: Assolutamente sì, nel momento in cui mette insieme una pluralità di dispositivi. Però, badate bene, che l’intersezionalità è un artificio metodologico astratto che ci fa vedere il soggetto come se fosse tagliato in genere, razza, classe, insomma segmentato. In realtà io preferisco parlare di produzione di soggettività piuttosto che di intersezionalità, anche se l’intersezionalità è certo uno strumento importante ed efficace per vedere la molteplicità delle differenze. La produzione della soggettività rende meglio l’idea di come il soggetto non sia tagliato a fette, ma sia un continuo divenire; è vita, trasformazione continua. E questi assemblaggi che riguardano genere razza vengono declinati di volta in volta e costruiti come in un puzzle. Sicuramente l’intersezionalità riapre fortemente, nel discorso politico, questioni come quelle della razzialità e della razzializzazione, che spesso vengono declinate in termini identitari. 

Le stesse questioni di genere nascondono in qualche modo l’eterogeneità delle stesse donne e quindi, ad esempio, delle differenze legate alla razzializzazione, differenze delle provenienze. Quindi l’intersezionalità apre a questo complesso soggetto che è in divenire e che oggi è partecipe della produzione e degli enormi dispositivi di sfruttamento che fanno leva proprio su queste leve di genere e di razza. 

Betta: Per me una parte dell’approccio intersezionale è la messa a critica del fatto che sessismo e razzismo vengano proposti come due funzioni, due derivazioni ideologiche che si possono correggere, come se fossero degli errori secondari risolvibili rispetto a una questione capitalista preminente. Mentre invece sono degli strumenti di controllo primari e di frammentazione tanto quanto quello di classe.

Roberta: È proprio questo il ruolo del soggetto produttivo. Non stiamo parlando soltanto di controllo e oppressione come dividendo di una questione principale da altre dette secondarie, ma stiamo parlando di lotta di classe e di soggetto produttivo che si compone in assemblaggi di genere e di razza in prevalenza. Una composizione fatta da un’eterogeneità molteplice perché è la vita stessa ad essere molteplice e in divenire.