Google e la censura cinese

29 / 1 / 2010

 Google ha dichiarato di non essere più disposta a censurare i contenuti reperibili con la versione cinese del suo motore di ricerca. Ufficialmente la ragione andrebbe ricercata nella violazione di alcuni account di Gmail appartenenti ad attivisti per i diritti umani, in Cina e all’estero, e in una serie di non meglio precisati cyber-attacchi nei confronti dei suoi server, di cui il governo sarebbe corresponsabile. Affermazioni molto gravi che hanno indotto i cinesi a reagire prima diplomaticamente e poi, dopo l’intervento a favore della libertà di Internet del segreteraio di Stato Hillary Clinton, ad attaccare: “le aziende che lavorano in Cina devono rispettare la legge”. Sì, ma quali? Le leggi in questione riguardano la sicurezza nazionale della Cina e la sua stabilità sociale, minacciate, secondo i burocrati del partito/stato, da tutte le informazioni che riguardano il massacro di Tien An Men, la setta religiosa dei Falung Gong, il Tibet e il Dalai Lama, argomenti considerati potenzialmente dannosi dal paese del socialismo di mercato realizzato.

Non sappiamo se questa schermaglia da guerra fredda digitale fra Usa e Cina porterà a una rottura diplomatica, gli interessi in giocono sono troppi, ma che dimostra come la politica della moral suasion non può funzionare verso uno stato autoritario.

Google sbarca in Cina nel 2006 e da subito accetta di censurare pagine e informazioni sgradite al partito comunista al potere. Per un’azienda il cui motto è sempre stato “don’t be evil”, la giustificazione  era duplice: da una parte l’interesse commerciale ad essere presente in un mercato assai ampio come quello cinese, accreditato della crescita più veloce in termini di utenti e servizi Internet, dall’altra quella di non precludere agli utenti cinesi la possibilità di accedere a contenuti non controllati ed a servizi rispettosi della privacy individuale.

Entrambe le previsioni si sono rivelate inesatte. Nonostante l’elevato tasso di crescita di Google in Cina, dopo tre anni l’azienda californiana non è riuscita a insidiare il primato della rivale Baidu.com, e si è trovata impossibilitata a offrire alcuni servizi di pregio come Youtube.

Perciò la mossa di Google è stata criticata anche dai blogger cinesi come il tentativo di rifarsi il trucco e migliorare la propria immagine con un perdita potenziale molto modesta, 600 mln di dollari di fatturato annui in Cina contro i 26 miliardi di dollari che guadagna a livello globale, ma anche come un tentativo di mettersi al riparo da future tragedie nel caso in cui le violazioni dei server avranno come effetto incriminazioni e arresti nei confronti dei dissidenti che ne avevano usato i servizi certi della protezione del gigante commerciale.

I precedenti sono noti. La rivelazione da parte di Yahoo dell’account di un giornalista cinese colpevole di aver ricordato in una email la data del massacro studentesco di Tien An Men aveva portato al suo arresto, ma secondo Amnesty International nel solo 2008 in Cina sono stati arrestati 30 giornalisti per i loro post su Internet, mentre secondo Reporters sans Frontiers nel 2009 sono stati imprigionati 108 cyberdissidenti di cui diversi cinesi. E ora la crisi con Google che potrebbe portare l’azienda a ritirarsi dal mercato cinese.

Alcuni rumors dicono che anche altri player come Microsoft, siano pronti a irriggidere la propia posizione se il governo cinese non offrirà delle garanzie in termini di diritti umani, che però intanto non ci sono state. La faccenda ha avuto comunque il merito di far conoscere al mondo lo stato del rispetto dei diritti umani in Cina dopo le Olimpiadi pure funestate dalle polemiche sul controllo dei giornalisti e di Internet. Ma quello che è accaduto, da solo, dovrebbe insegnare che mentre da un punto di vista etico non è accettabile fare compromessi tanto pesanti con governi autoritari, non si può derogare dal rispetto per i diritti umani neppure in maniera strumentale e che, probabilmente, le aziende che pensano di poterlo fare prima o poi ne pagheranno il prezzo, almeno in termini di popolarità presso il proprio pubblico.

 Human Rights first!

Arturo Di Corinto

per Peace Reporter