I confini come campi di tensione

Intervista a Sandro Mezzadra a Sherwood Festival 2019

5 / 7 / 2019

Abbiamo conversato con Sandro Mezzadra, docente di filosofia politica all’Università di Bologna e membro del collettivo Euronomade e di Mediterranea, intervenuto nel dibattito “Il moltiplicarsi dei confini tra attacco ai diritti e razzismo”, tenutosi allo Sherwood Festival lo scorso 23 giugno.

Come spiegheresti, a parole o attraverso immagini, il concetto di confine oggi, nell’era della globalizzazione e della libera circolazione di merci e capitali?

Ho scritto molto su questi temi e l’ho fatto perché i confini sono prima di tutto oggi un luogo di conflitto, alcuni confini in modo particolarmente pronunciato. A me pare che il confine, contrariamente a quello che suggerisce la sua rappresentazione cartografica, definito come una linea, sia un campo di tensione determinato da una parte da processi di rafforzamento del confine stesso e dall’altro lato da pratiche che puntano con successo all’attraversamento. Detta così sembra un concetto astratto, ma se pensiamo a quel che accade nel Mediterraneo ci rendiamo conto che tale definizione non è astratta.

Nel Mediterraneo ci sono processi che puntano al rafforzamento e direi anche alla fortificazione dei confini a questi processi reagiscono però pratiche messe in campo da donne e uomini in movimento che puntano all’attraversamento di quei confini, sfidano quei confini pagando spesso un prezzo intollerabile. Questo è per me il confine, oltre ad altre cose…

 

Veniamo ora al “terreno conflittuale” dell’immigrazione. I migranti che valicano un confine o lo attraversano via mare, divengono automaticamente illegali perché così è stato stabilito dalla legge. Su di loro incombe, non appena poggiano il piede su un nuovo Paese, lo stigma del clandestino che fomenta “panico morale” e senso di insicurezza, che tra l’altro sono alimentati giorno dopo giorno dal nostro ministro dell’Interno. Come sfatare il binomio che assurge a verità, istituzionalizzato attraverso una legiferazione, dell’insicurezza collegata all’immigrazione?

Esiste effettivamente in questo momento in Italia un processo di spettacolarizzazione dei confini, un processo per cui tutto ciò che accade viene presentato nei termini dell’emergenza che a che fare con la sicurezza. Rispondere a questa domanda è tutt’altro che facile.

Siamo tanti e tante, collettivamente, impegnati a riguardo. Una pista di riflessione è quella che spinge a collegare ciò che accade attorno al confine con ciò che accade all’interno dello spazio che il confine dovrebbe perimetrare: l’Italia. Nello spazio Italiano la migrazione si presenta come qualcosa di normale, radicato e ancora: normale.

Dovremmo essere in grado di proiettare la normalità dell’immigrazione sul confine, produrre noi una trattazione del confine nutrita dalla normalità dell’immigrazione. Non significa naturalmente proporre un’immagine irenica, idilliaca dell’immigrazione, la normalità dell’immigrazione è una realtà di conflitto, di lotte, di processi di organizzazione, ed è questa normalità che bisogna rivendicare, cercando di spingerla verso una società che sia sempre più libera ed eguale. Certamente non è la tendenza che esiste oggigiorno in Italia, dobbiamo lavorare contro la tendenza in atto.

 

Parlavi tu stesso di immigrazione come terreno conflittuale anche se normalmente si rischia di entrare in una logica infantilizzante o “paternalistica”.  Come si decostruisce questa logica?

Sono i migranti e le migranti che decostruiscono ogni giorno la logica paternalistica e la smentiscono con le loro vite quotidiane. Noi dobbiamo cercare di agganciarci a queste pratiche e a queste vite, per metterle in risonanza con altre pratiche ed altre vite.