di Neva Cocchi
365 giorni di ripresa per raccontare l’aeroporto di Malpensa a Milano.
Un aeroporto internazionale ritratto durante quattro stagioni, quattro
momenti di un anno della vita dell’aeroporto, che scandiscono la
narrazione e l’organizzazione tematica del film (e dell’aeroporto):
arrivi, sicurezza, attese, partenze.
Il Castello non nasce direttamente come film sull’immigrazione, ma necessariamente lo è, lo diventa mano a mano, poiché l’aeroporto, come altri luoghi di frontiera formali, sono investiti della funzione di controllare e disciplinare la mobilità delle persone. E’ allora dovere dell’aeroporto decidere se bloccare, ritardare o negare il movimento dei cittadini stranieri che transitano da Malpensa. Come recita il sottotitolo, è un "ritratto di frontiera", nulla sfugge alla telecamera che osserva in disparte come sono negati o concessi i visti, o come sono perquisiti e interrogati i migranti; grazie al suo sguardo neutro si scoprono le “zone di detenzione temporanea” per le persone in via di rimpatrio.
“L’aeroporto è un laboratorio del controllo sociale, solo lì sono ammissibili alcune procedure” ci dice il regista Massimo D’Anolfi, e solo per alcuni, aggiungiamo noi. Solo per alcuni è possibile trovarsi in un aeroporto distesi su un lettino medico, con un apparecchio che ti guarda dentro allo stomaco per controllare cosa ci sia dentro. “E’ un luogo che viviamo da turisti”, ci dice la regista Martina Parenti “ma in questo luogo si incrociano e si scontrano le storie di chi va e di chi resta, il film non è un film contro il controllo in se stesso, ma contro l’abuso del controllo, contro la prevaricazione, e su chi è costretto a subire il controllo ingiustamente”.
E infatti l’ossessione securitaria che caratterizza la nostra società
è già tutta contenuta e commentata nella scena iniziale del film, che
riprende la rimozione di un bagaglio incustodito da parte di un
artificiere. Una procedura di routine, certo, che assume però tratti
grotteschi, perché con il suo costume spaziale l’agente sembra egli
stesso pericolo anziché soccorso, e per un momento si ribaltano i ruoli
nella procedura di difesa che regge l’impalcatura del Castello:
interverrà qualcuno per bloccare quell’alieno che cammina tra i sedili
della sala d’aspetto? Come a dire che le procedure di questa sicurezza
esasperata ci portano a diventare irriconoscibili, dei mostri
trasfigurati dalla paura da cui vogliamo difenderci con tecnologie
sempre più avanzate e che invece ci rimbalza addosso.
Tecnologie e procedure di sicurezza che sono possibili solamente nella
misura in cui annullano la distinzione tra persone e animali, tra corpi e
pacchi: “non c’è differenza se il pacco è di carta o di carne umana”,
spiega Martina Parenti, resta un involucro da ispezionare, con la stessa
tecnica procedurale con cui viene esaminato un astice, un pesce
surgelato. Non a caso il controllo delle persone e quello delle merci è
filmato nella stessa stagione: come i veterinari ispezionano con i
guanti di lattice le chele delle aragoste, così gli agenti di Polizia
con le mani inguantate setacciano tasche, telefoni cellulari, valige,
stomaci, alla ricerca di anomalie. “La procedura vince su tutti, anche
sull’uomo - spiega la regista - “l’aragosta prova a ribellarsi, ma
viene rimessa nella scatola”, allo stesso modo il ragazzo migrante che
tenta di difendere la sua dignità viene zittito dal funzionario di
frontiera che quasi sadicamente gli spiega “Decido io”.
Se quindi la disumanizzazione dei corpi di donne e uomini, così come il dominio sono accettabili in nome dell’efficienza securitaria, allo stesso modo l’espulsione è una violenza legittimata da una politica immigratoria che vede nel migrante una fonte di minaccia. I migranti sono pericolosi anche perché possono imbrogliare, e fingersi rifugiati. Il film si chiude quindi con un dialogo tra un richiedente asilo e un interprete africano dell’Ufficio Immigrazione della Polizia.
Il richiedente asilo, che arriva da un paese europeo che gli ha rifiutato lo status di rifugiato, spiega al traduttore che intende chiedere all’Italia di riconoscergli la protezione internazionale. Ma solo lo spettatore sa che siamo in autunno, la stagione delle partenze, o, per alcuni, la stagione dei rimpatri. E il castello ha le sue regole: nessun diritto sopravvive alla frontiera, nemmeno il diritto di asilo.
Il Castello, di Massimo D’Anolfi, Martina Parenti
Montmorency Film; in collaborazione con Rai Cinema
Italia 2011
Il Castello sarà proiettato per la rassegna Frontiere giovedì 3 maggio alle ore 21.30 al TPO, Via Casarini 17/4 Bologna
Ascolta l'intervista di Sara Manfredi per Radio Kairos su Melting Pot Europa