Il centounesimo chiodo

“L’essere umano ha come scopo nella vita la relazione con gli altri esseri umani”. Ermanno Olmi.

12 / 10 / 2011

Una chiesa di periferia viene smantellata perché prossima alla demolizione. Si tolgono i paramenti, una gru tira giù il crocifisso sospeso. Restano le panche, i muri di cemento, un portone destinato a non aprirsi più ai fedeli. Nella stanza spoglia del vecchio prete un televisore muto manda le immagini di una barca arenata su una spiaggia, la vela stracciata. Inizia così “Il villaggio di cartone”, ultimo lavoro di Ermanno Olmi. Quando nel 2007 uscì nelle sale “Centochiodi” Olmi dichiarò che quello sarebbe stato l’ultimo suo lungometraggio di finzione, l’ultimo grido contro un dio che non mostrava di avere pietà verso i poveri cristi, per tornare alla sola regia di documentari. Ma qualcosa ha chiamato ancora questo uomo di cinema di ottant’anni a gridare ancora più forte, così come ha chiamato molti tra gli autori italiani presenti alla Mostra del Cinema di Venezia a confrontarsi con il tema dell’immigrazione. E paradossalmente lo sguardo del “vecchio” Olmi appare più provocatorio e sperimentale di quello dei suoi ben più giovani e apprezzati colleghi.

Infatti Andrea Segre sta raccogliendo riconoscimenti ovunque con “Io sono Li”, Emanuele Crialese rappresenterà l’Italia agli Oscar con “Terraferma”, Guido Lombardi è stato premiato al Lido per “Là-bas”, unanime consenso ha riscosso Francesco Patierno con “Cose dell’altro mondo” (ma vedo in trasparenza una faccenda di immigrazione anche ne “L’ultimo terrestre” di Gian Alfonso Pacinotti), persino il bel documentario di Davide Ferrario “Piazza Garibaldi” dedica un breve capitolo ai forestieri poveri che transitano per un' Italia unita (unita?) dalle Camicie Rosse. Ma il loro modo di raccontare anagraficamente giovane, se si differenzia per linguaggio e poetica, è però sostanzialmente convenzionale sotto il profilo della confezione cinematografica e dello sguardo soggettivo. Certo proponendo domande importanti, ma suggerendo anche le relative risposte.

Il cinema di Olmi - era il 1961 quando presentava a Venezia, fuori concorso, “Il posto” - è cambiato a seconda di come è cambiato il suo autore nel guardare il mondo, attraverso una vita spesa a cercare l'Uomo. “Noi siamo come dei viandanti, ogni tanto ci fermiamo e raccontiamo agli altri ciò che abbiamo visto durante i nostri viaggi, che sono viaggi nella vita”. Così “Il villaggio di cartone” è narrato come un apologo. Non realistico, non plausibile, non verosimile, ma ricco di suggestioni e di emozioni. Il villaggio è quello edificato da africani in fuga dalla loro terra utilizzando le panche, qualche coperta, i cartoni che segnano le tappe della Via Crucis, in una chiesa spogliata di paramenti e opere d'arte, di ogni strumento di culto, di tutto ciò che fa della chiesa stessa una realtà virtuale. Da cui resta fuori la realtà della strada, della vita vera. Più che mai connotata da sofferenza, esclusione, ingiustizia, comando. Al loro cartone, simbolo e distintivo della precarietà, fanno da contraltare le nostre abitazioni blindate e piene di allarmi: perché siamo più fragili e abbiamo più paure di quante ne avevano i nostri padri e i nostri nonni.

Olmi ci suggerisce che la nostra sicurezza può realizzarsi solo nella sicurezza dei diritti. Di tutti. Racconta della determinazione con cui milioni di africani affrontano rischi altissimi avendo fiducia in se stessi, affrontando la morte, generando nuove vite, perché la sicurezza va cercata dentro di noi prima che fuori. Mentre i funzionari amministrativi vengono dipinti come agenti paramilitari, mentre le forze di polizia assomigliano molto di più a un inquietante esercito da guerra interna senza gradi e senza distintivi (loro non fanno le leggi, le applicano), mentre Giuda può avere la pelle sia bianca che nera, il vecchio prete riesce a elaborare il dubbio che lo ha accompagnato sin da una delle sue prime prediche: perché dio ci ha messo dentro questo fuoco per poi riempirci di proibizioni, non viene forse il bene prima della fede? Il suo sguardo è smarrito, la preghiera disperata in un vuoto oltre il quale si odono voci minacciose che gridano ordini e urla di sirene. Non è un presepe quel villaggio di cartone, non c'è via di uscita consolatoria. Sta a noi non smettere di interrogarci e riempire il vuoto trovando il coraggio di chiedere conto di tutto quel dolore.

trailer