Il fumetto e i centri sociali: una vicenda complessa (ben prima di Zerocalcare)

11 / 2 / 2014

L’uscita del graphic novel di Claudio Calia Piccolo Atlante Storico Geografico dei Centri Sociali italiani ci pare una buona occasione per approfondire il tema delle relazioni tra il fumetto e il circuito dei centri sociali. D’altro canto, la storia della produzione alternativa e indipendente – intrecciata com’è con lo stesso fumetto cosiddetto “d’autore” – ha infatti un debito significativo, in Italia, nei confronti di quel canale di diffusione e vendita. Minore forse per quantità, ma non certo per i suoi effetti culturali.

Nati alla metà degli anni Settanta, e sviluppatisi nei due decenni successivi, i Centri Sociali hanno rappresentato per un ventennio una valvola di sfogo decisiva per molte produzioni a fumetti – fanzines, riviste, albetti spillati ma anche graphic novel – tradizionalmente collocate ai margini dell’industria culturale. Un ambiente culturale adatto, in particolare, al lavoro di autori e piccoli editori in cerca di forme espressive diverse – e talvolta ideologicamente contrapposte – alle forme più omologate di fumetto (e non solo) che offriva il mercato dell’epoca.

In anni in cui il fumetto era pressoché assente dalle librerie, i bookshop dei Centri sociali sono stati tra i pochi luoghi ad esporre pubblicazioni di maestri ‘classici’ dell’underground (Robert Crumb su tutti), ma anche autoproduzioni di giovani autori che sarebbero diventati, più avanti, protagonisti del fumetto italiano. Non solo: come spazi di animazione culturale, i Centri Sociali hanno inoltre ospitato, fra gli anni Ottanta e Novanta, mostre ed eventi che hanno messo in comunicazione la tradizione del fumetto underground degli anni Sessanta/Settanta con la produzione nostrana recente. Basti pensare all’Happening Internazionale Underground, vero e proprio festival che portò a Milano (e altrove), tra il 1996 e il 2003, autori come Peter Kuper, Thomas Ott, Rick Griffin, Spain Rodriguez, Seth Tobocman, Peter Pontiac, Alexandar Zograf…

Oggi i fertili risultati di questa relazione sono sotto gli occhi di tutti (o, almeno, dei meno miopi): numerose etichette editoriali d’eccellenza come Rasputin, Black Velvet, Coconino Press, Canicola hanno trovato lettori fedeli proprio in quel contesto; e un autore come Zerocalcare (non a caso autore della prefazione al libro di Calia) nemmeno *esisterebbe* – creativamente parlando – senza i Centri sociali, ambito in cui si è formato (ben) prima di diventare il fumettista italiano più venduto in libreria.

Insomma, il rapporto tra Fumetto e Centri Sociali è stato qualcosa di piuttosto importante, del quale vale la pena non dimenticarsi. Anche e soprattutto oggi, mentre i Centri sociali sono ormai cambiati: alcuni spariti per sempre, altri maturati e diventati spazi ‘tradizionali’ di animazione e produzione culturale. Di tutto questo abbiamo chiesto anche ad alcuni autori, che hanno vissuto l’esperienza di questi luoghi, conoscendoli e frequentandoli anche – e soprattutto – da fumettisti.

 Le risposte di Ratigher, Gianluca Costantini, Claudio Calia e Massimo Giacon le trovate, perciò, nelle prossime pagine

Ratigher

Quando negli anni Novanta arrivò in TV South Park, l’etichetta Underground smise di avere senso. Fino ad allora, i Centri Sociali/Spazi Occupati e ibridi vari, erano stati l’ambito principe in cui promuovere e produrre fumetti e immagini fuori dal coro. L’eccellenza del fumetto italiano rappresentata da “Frigidaire” era potuta esistere solo nel grembo dei Movimenti degli anni Settanta. Il primo fatto politicamente rilevante dopo il ’78, in termini di organizzazione e impatto sul territorio, io lo individuo proprio nella nascita e proliferazione dei Centri Sociali (che non ha eguali al di fuori dell’Italia). Come era naturale, per una forma d’arte “bimba” (definizione di Filippo Scozzari, sempre da lodare) e con un impatto commerciale così blando, il Fumetto prolifera in questa nuova rete antagonista. Chiariamoci, non svetta mai eh, sempre secondo alla Musica e soprattutto alla nascente street art. Però sta lì, visto come uno svago adatto anche al popolo militante. Le tematiche sono anti-, i disegni perlopiù “efferati”, si ricalcano ancora stilemi anni ‘70; anche se non mancano autori precursori, tipo Prof. Bad Trip.

Come dicevo prima, negli anni Novanta cambia tutto; l’irriverenza e l’estetica di quei fumetti va in televisione, e sbanca. Prima con i Simpsons, e poi definitivamente con South Park, le masse scoprono quanto sia divertente e liberatoria (ed intelligente) la spietata rappresentazione della follia moderna. Questo fatto svuota di urgenza le produzioni a fumetti dei Centri Sociali, ormai il messaggio è passato. Gli spazi occupati e liberati hanno il dovere di aprire nuove strade, sono isole laboratorio dentro le città; dovrebbero accaderci cose inedite. Ora forse siamo ancora troppo a ridosso di quegli anni per capirci bene qualcosa, io però decido, anche per il mio vissuto, di individuare in una radicalizzazione verso l’eccellenza della filosofia D.I.Y. (do it yourself) quale nuova frontiera alla quale dedicarsi, da metà degli anni novanta in poi, nel circuito degli Spazi Occupati. Il D.I.Y. nasce con il Punk, a fine anni Settanta, e si basa sul concetto che bisogna rendersi autonomi non solo nell’ideazione, ma anche nella produzione artistica.

Non mi dilungo perché non è questo il luogo – ma nella seconda metà dei Novanta, anche grazie alle facilitazioni portate da internet, la produzione di dischi e, nel nostro caso, di libri e prodotti tipografici, aumenta di livello, fino a superare i prodotti professionali. I miglioramenti ci sono su tutti i fronti produttivi, dalla stampa alla distribuzione. Quasi tutti i miei coetanei fumettisti che hanno gravitato nel giro dei Centri Sociali sanno, oltre a realizzarli, anche impaginarli, stamparli, promuoverli, venderli e farne profitto. Il posto e momento per toccare con mano tutto ciò è il festival annuale Crack!, che si tiene al Forte Prenestino a Roma.

Certo, anche questa frontiera è già stata inglobata e “normalizzata”. Basti pensare alla proliferazione di piattaforme su internet di vendita diretta, tipo Etsy, per intenderci. Cosa starà succedendo adesso nei fumetti “dei Centri Sociali”? Onestamente non lo so: non li frequento da cinque anni, da quando mi sono trasferito in una provincia sprovvista di C.S. potrei rigirare la domanda in questo modo: “Cosa dovrebbe accadere adesso nei fumetti *dei Centri Sociali*?” Roba che non esiste.

Postilla: le spinte innovatrici e feconde che ho descritto sono esistite solo in alcune realtà occupate. Come in qualsiasi ambito, l’universo dei Centri Sociali è pieno di situazioni diverse; a volte anche becere e reazionarie. Il mio consiglio è di guardare cosa succede negli spazi più piccoli e di evitare di entrare in contatto con questa realtà per trovare il “proprio” mondo o un locale dove ascoltare i gruppi alternativi o leggere le storie che ti rappresentano. Questi spazi servono a cambiarci e a metterci in discussione. Come i migliori fumetti.

Gianluca Costantini

I Centri sociali sono stati molto importanti, negli anni Novanta, per la divulgazione e la condivisione di un certo tipo di fumetto. Venivano organizzate mostre, e si trattava di incontri solitamente molto partecipati. Tutto questo faceva parte della cultura underground, e di un certo immaginario. Le modalità di un certo tipo di fumetto erano le stesse, in fondo, che c’erano nell’attivismo politico: e cioè l’azione e la condivisione. In questi ambienti il fumetto interagiva con altre arti – la street art, la fotografia, le installazioni. Ed era così che andavano a formarsi quelli che sarebbero stati i nuovi artisti, ovvero la generazione dei protagonisti di oggi, che non si limitano ad una sola arte bensì ne usano molte contemporaneamente.

Il punto più alto, dal punto di vista delle manifestazioni, è stato l’Happening Internazionale Underground del Centro Sociale Leoncavallo, a Milano. Però ad un certo punto, un certo tipo di immaginario è piano piano scomparso e anche i centri sociali sono cambiati. Oggi come oggi non sono più quella fucina di cultura alternativa di cui avremmo bisogno, e anche il fumetto underground è, un po’ alla volta, scomparso dalla scena…

Claudio Calia

Se pensiamo a un’epoca che non ricorda più nessuno, gli anni Novanta – che sono poi anche quelli in cui sono cresciuto in tutti i sensi – esisteva l’Happening Internazionale Underground, che è passato per il Centro Sociale Garibaldi, e in qualche edizione si è sviluppato come mostra itinerante per vari centri sociali italiani, e infine stabilizzato al Leoncavallo a Milano, il tutto organizzato da Marco Teatro. Ospiti internazionali, mostre, una rivista più o meno correlata come “Hard Times”, durata solo due numeri. Ma dove li potevi trovare, i fratelli Hernandez, accostati a José Muñoz, a quei tempi poi? Neanche su “Raw”!

E poi ricordo “Interzona”, una rivista che invece è durata parecchio e presentava le storie di tanti degli autori che vediamo ancora in giro oggi, prodotta dal centro sociale El Paso di Torino. Poi fa brutto autocitarsi, ma dal 2004 con Emiliano Rabuiti, in un panorama totalmente diverso, abbiamo dato vita allo Sherwood Comix Festival, produzione nata all’interno di un grande festival autogestito, che ha pubblicato 7 antologie di cui cinque distribuite in libreria per vari editori. In ciascuna uscita, il tema “politico” dell’anno suggerito da Sherwood ha dato modo a tanti autori di esprimersi sulla realtà che ci circonda, e di essere esposti per la prima volta sugli scaffali delle librerie.

Infine, consideriamo che al Forte Prenestino di Roma si tiene un importante festival internazionale di fumetto e arti grafiche che non ha paragoni in Europa, il Crack. Tornando al passato, ricordo con affetto anche “Katzy Vari”, rivista diretta da Diavù, Stefano Piccoli e Ottokin, che acquistai per la prima volta proprio al festival di Sherwood, ben prima che cominciassi a frequentarlo.

Quale ruolo hanno avuto? Secondo me nei centri sociali si sono formati al fumetto tanti dei lettori che oggi leggono libri a fumetti: persone non interessate al linguaggio in quanto tale, ma che hanno scoperto come quel linguaggio poteva anche raccontare di argomenti che, pure, potevano loro interessare. Ne ho chiaramente la prova da tante persone che conosco, che magari prima che nascesse Sherwood Comix guardavano ai fumetti con sospetto, mentre oggi alternano Gipi o Joe Sacco alle loro letture abituali.

Quale ruolo svolgono oggi? Ciò che mi sorprende di più, è che chi parla abitualmente di fumetto non li valorizzi abbastanza: sono decine le presentazioni di libri che si svolgono abitualmente nei centri sociali, un tessuto produttivo e di distribuzione – con limiti e difetti – che sopperisce ad un vero interesse del settore pubblico rispetto a questo linguaggio. Parlo soprattutto della mia realtà di provincia: in Veneto – che a quanto so non è una regione di poco conto anche riguardo al numero di copie vendute per tanta editoria a fumetti – non ci fossero stati i Centri Sociali a far bene i conti non ci sarebbe stata neppure una presentazione di Zerocalcare, tanto per dire, che invece ha trovato giustamente casa negli appuntamenti ormai abituali allo Sherwood Festival, al Centro Sociale Pedro e in tanti altri della regione.

Massimo Giacon

I fumetti hanno sempre svolto un ruolo importante all’interno dei Centri sociali. Solo che negli anni Settanta venivano vissuti come una forma naturale di comunicazione, in qualche modo – come si sarebbe detto all’epoca – “trasversale”: perché utilizzava un linguaggio popolare, comprensibile a tutti, diretto ed economico, e veniva quindi visto come come un supporto, un veicolo.

Ricordo però, a volte, conflitti tra “l’ala creativa del movimento” e le nomenclature interne, che guardavano con occhio poco benevolo le figure poco allineate. Ha fatto storia, per esempio, la diaspora all’interno di Radio Alice nei confronti di Filippo Scozzari, considerato troppo “sessista”.

Negli ultimi tempi, invece, i Centri sociali sono diventati un bacino in cui sono cresciuti molti autori contemporanei, e non solo perché l’autore di fumetti li frequenta, ma perché è uno dei soggetti che spesso all’interno dei Centri sociali ci lavora. Al di là dei piccoli o grandi seminari tenuti anche da autori molto conosciuti, i Centri sociali sono luoghi di autoproduzione, a volte anche l’unica strada possibile per giovani fumettisti di pubblicare o, per lo meno, di distribuire e vendere le proprie autoproduzioni.

Naturalmente un autore non può sperare di vivere lavorando all’interno di questo variegato mondo, ma di dialogare con un pubblico in maniera diretta e meno mediata dei blog e delle fanzine on line: questa è sì una opportunità interessante. Per non parlare del bacino di storie incredibili a cui attingere!

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