Il giornalismo d’inchiesta tra precarietà, mafia e sistema emergenziale.

Intervista a Nello Trocchia. PRESSto (Perugia 12-14 aprile 2018)

30 / 4 / 2018

In occasione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia è stato intervistato Nello Trocchia, giornalista d’inchiesta, inviato della trasmissione Nemo - Nessuno escluso, in onda su Rai2 e collaboratore de il Fatto Quotidiano e altre testate. L’intervista è stata trasmessa integralmente nella prima puntata di PRESSto (Perugia 12-14 aprile 2018), intitolata “Il valore sociale e politico dell’inchiesta giornalistica”.

Da giornalista d’inchiesta, qual è oggi il valore dell’inchiesta nel giornalismo? Soprattutto rispetto al fatto che la carta stampata sta morendo e il web è un mercato molto selezionato, dove difficilmente si riesce ad accedere ai contributi d’inchiesta.

L’inchiesta penso sia un genere indispensabile per il giornalismo e penso soprattutto che sia in difficoltà nella misura in cui sta vivendo una stagione di forte precarietà. In un mondo del lavoro sempre più precario e con sempre meno garanzie, anche il mondo dell’informazione vive questa vera e propria “patologia”.

Avere un’informazione precaria significa anche avere giornalisti meno liberi, con meno possibilità di scrivere, meno autonomi.

L’inchiesta soffre per questo primo aspetto di precarizzazione e perché i cronisti sono sottopagati, soprattutto a livello territoriale. L’altro aspetto centrale per cui soffre è che le inchieste vengono bloccate con minacce, intimidazioni e aggressioni, strumenti utilizzati sempre di più, come rivela Ossigeno, osservatorio che si occupa di questi casi. Ma anche le liti temerarie, cioè quando potentati politici, imprenditoriali ed economici chiedono risarcimenti di danni da milioni di euro a fronte di inchieste realizzate, sono un vero e proprio ostacolo alla libertà di informazione, che servono a indebolire e spegnere delle voci.

In questo quadro, l’inchiesta è un genere sempre più complicato da fare.

Durante il Festival del Giornalismo ho partecipato a un panel chiamato “Giornalisti in prima linea”, un tema non trascurabile che presuppone che ci siano giornalisti anche in seconda, terza e quarta linea. Il problema della categoria è anche che, rispetto a realtà territoriali, potentati e affarismi, a fare nomi e cognomi e scrivere le notizie si è in pochi, questo porta all’isolamento che non contribuisce al miglioramento della credibilità e della qualità dell’informazione.

Ti sei spesso occupato della cosiddetta emergenza rifiuti - che come quella dei migranti è un problema con cui il nostro Paese convive da anni - e del problema strutturale, cioè della provenienza e del transito del rifiuto nel momento in cui viene prodotto. Com’è la situazione sotto questo punto di vista e, oltre a raccontarla, qual è l’alternativa a trattare questo problema come un’emergenza?

La questione rifiuti è un’emergenza finta, costruita negli anni, che ha consentito di alimentare carriere politiche, imprenditoriali e sistemi di potere clientelari. È una finzione perché parlando solo di rifiuti urbani, questi sono i più facili da gestire e l’idea che Regioni, Stati e Province non siano in grado fa sorridere, se non fosse che dietro ci sono interessi imprenditoriali e politici che hanno lucrato negli anni.

Accanto a questa finta emergenza, c’è la questione non trascurabile dei rifiuti speciali - pericolosi e non - cioè i rifiuti tossici che rappresentano un problema ambientale notevole, che ogni anno racconta di una montagna di rifiuti speciali tossici che scompare nel nulla; significa che vengono smaltiti illegalmente. Tra questi rifiuti ci sono anche rifiuti speciali prodotti in nero, non registrati e quindi smaltiti in nero.

Le conseguenze che ne derivano sono non solo un danno irreparabile all’ambiente, derivante dallo smaltimento illegale, ma anche un danno economico, perché i costi nei bilanci delle aziende vengono cancellati e, da un punto di vista della tassazione, avremmo meno tasse pagate e meno introiti per lo Stato. Affinché queste emergenze non ci siano c’è la necessità che le gestioni siano efficaci; bisogna porsi il problema dell’abbraccio troppo stretto tra politica e imprenditoria: fino a quando un pezzo di politica sarà finanziato e sostenuto da un’imprenditoria che ha come modello quello della discarica, quella classe politica non svilupperà nessuna alternativa. Se questo abbraccio esiste, presuppone che le politiche che saranno messe in campo sono e saranno declinate a favore degli interessi di quella classe imprenditoriale che la politica abbraccia.

Questo è successo non solo in Campania, ma ad esempio anche in Lazio. L’imprenditore monopolista Manlio Cerroni, che opera in numerose città con il suo modello gestionale fondato sulle discariche e sui TMB (impianti di trattamento meccanico-biologico), ha indicato alla politica l’orizzonte da seguire.

La politica non si è mai riscattata da questo monopolio, ma anzi lo ha utilizzato e ha fatto in modo che continuasse nel tempo, per oltre trent’anni. Nonostante oggi Cerroni sia sotto processo in tre diversi procedimenti penali e le sue aziende siano interdette a fini antimafia, le sue società con impianti di TMB sono ancora indispensabili per lo smaltimento dei rifiuti di Roma. Ciò significa che la politica ha goduto perché aveva rapporti privilegiati o perché il monopolista privato rappresentava una soluzione allo smaltimento efficiente dei rifiuti; cioè - secondo le indicazioni dell’Unione Europea - di ridurre, riciclare e riutilizzare i prodotti.

I modelli efficienti ci sono e si possono adottare, ma la politica, pigra e troppe volte in combutta con un potere imprenditoriale, ha sposato modelli che nulla avevano a che fare con il riciclo, quanto piuttosto con lo smaltimento in discarica e gli enormi guadagni per i privati.

Nel tuo libro “Roma come Napoli” entrambe le città sperimentano delle alternative rispetto ai partiti politici tradizionali italiani. Quali sono le differenze e le somiglianze poiché sia Luigi De Magistris che Virginia Raggi in campagna elettorale e post elettorale hanno cavalcato il tema dei rifiuti e del decoro urbano di larga traccia?

Virginia Raggi ha iniziato malissimo. Ho realizzato diverse inchieste per il Fatto Quotidiano, in particolare sull’assessora all’Ambiente Paola Muraro, che era stata per dodici anni consulente dell’AMA. Un soggetto che ha avuto ruoli di responsabilità enormi tra cui delle funzioni relative agli impianti di TMB, lavori in diverse società che hanno preso appalti col comune di Roma, e conosceva il mondo di Cerroni.

Un aspetto interessante è che nel suo curriculum c’era un ritocchino rispetto al ruolo che aveva ricoperto all’interno del procedimento penale a carico di altri a Napoli, in particolare di commissari che avevano gestito l’emergenza rifiuti in Campania. Questo per dire che era un soggetto che con il rinnovamento e la rivoluzione promessa non aveva niente a che fare e che, dopo sei mesi, all’ennesima bugia, quella sull’indagine a suo carico, ha lasciato il posto a una nuova assessora.

A distanza di cinque anni dall’uscita del libro, Roma mantiene gli stessi problemi del capoluogo partenopeo. Alcuni punti di analogia non trascurabili sono una bassa raccolta differenziata stradale, cioè di scarsa qualità e non in grado di soddisfare le percentuali previste dalla legge, e l’assenza di impianti di trattamento della frazione umida, che per un terzo è quella prodotta quotidianamente dai cittadini. Un terzo punto è che attraverso i sistemi di gestione dei rifiuti, negli anni si sono costruiti dei sistemi clientelari di potere, di consenso sociale e politico. Attraverso le cooperative a Napoli e i consorzi di bacino, la politica è riuscita a neutralizzare il dissenso sociale, a contenere la richiesta di occupazione e a contenere una sacca non di resistenza, ma di pressione rispetto al potere politico, che chiedeva occupazione e posti di lavoro. Quindi i rifiuti sono serviti anche per creare doppi costi. C’erano comuni che avevano la gara d’appalto data a una ditta e contemporaneamente il consorzio faceva una raccolta in due, o semmai nessuno dei due la faceva perché i camion non venivano utilizzati e i lavoratori erano retribuiti nonostante non lavorassero. Si sono duplicati e triplicati i costi perché, attraverso il paravento dei rifiuti, non solo si sono costruiti le carriere, non solo l’establishment si è alimentato e gli imprenditori hanno guadagnato, ma a livello sociale non si può costruire un sistema di potere senza accontentare “il popolo”, e quindi attraverso l’occupazione si è riuscito a contenere le esigenze e le istanze di una popolazione che ha costante bisogno di lavoro.

Un’altra analogia è che Roma ha vissuto la stagione commissariale, cioè la sospensione delle leggi, della democrazia e del dissenso sociale, in nome e per conto di un “salvatore della patria” che non l’ha mai salvata e che tendenzialmente, sia in Campania che nel Lazio, ha contribuito ad aumentare il disastro.

A Roma, rispetto a quanto è stato fatto in termini occupazionali su Napoli - cioè contenere il dissenso e le esigenze di lavoro - è stato fatto lo stesso programma dove ci sono state assunzioni clientelari che hanno consentito ai partiti di soddisfare esigenze di clientela in cambio di tessere sindacali e di voti.

Quindi le analogie tra Roma e Napoli tra i sistemi di gestione sono enormi, in termini di assenza impiantistica, di modelli di gestione commissariale, di sistemi clientelari costruiti e a volte anche in termini di soggetti.

Un esempio è il prefetto di Roma, Giuseppe Pegoraro, che diventa commissario delle emergenze rifiuti in Campania e che utilizza due vecchi amici delle scuole elementari che erano stati protagonisti della gestione campana. Lo stesso Pegoraro viene poi sostituito da Goffredo Sottile, prefetto della Repubblica, che diventa commissario per le emergenze rifiuti a Roma, dopo aver gestito in maniera disastrosa l’emergenza rifiuti in Calabria. Nonostante questi soggetti, quando assumono degli incarichi, vengano raccontati come veri e propri supereroi dalla stampa, basta guardare il loro curriculum per scoprire che hanno già fallito in altre occasioni. In realtà sono uno strumento che la politica adotta per evitare di assumersi le responsabilità dei fallimenti e addossarle a soggetti che, essendo uomini dello Stato, non avranno il problema del consenso e delle ricandidature.

Nell’ultima campagna elettorale nessuno ha menzionato il tema della mafia né dell’ecomafia, che riguarda non solo i rifiuti, ma tutta la gestione ambientale relativa alla mafia; quale deve essere il ruolo del giornalismo, visto che il giornalista d’inchiesta è spesso lasciato solo? Come parlare di mafia ed ecomafia per raggiungere il pubblico e come deve comportarsi il giornalista d’inchiesta? Chi si avvicina al giornalismo d’inchiesta?

È molto difficile. I libri sulle mafie, ora che il mercato è saturo, sono quasi invendibili; il racconto sulla mafia è diventato molto complicato da fare e il tema sembra esaurito. Il problema è che dobbiamo capire che la protervia delle organizzazioni criminali e il rapporto della politica con l’imprenditoria non si è esaurito.

Parlare di mafie significa fare nomi e cognomi, parlare di territori dove la democrazia non è piena e compiuta, dove i cittadini sono considerati dei sudditi, dove il diritto del cittadino diventa un privilegio e un favore e dove sostanzialmente la democrazia non c’è.

Non vengono trattati temi come la storia dell’italo-tedesco che ho intervistato e che fa capire cos’è la mafia. Un signore che ha comprato un appartamento a Mattinata, in provincia di Foggia, a cui il sindaco ha chiesto il pizzo, scoprendo poi che il sindaco era il boss della zona, Antonio Quitadamo, detto Baffino. In quella zona si paga il pizzo sull’appartamento, sulla presenza fisica in un’area di pertinenza criminale.

La mafia è questo: il monopolio sulle attività turistiche, il pizzo, l’assenza di un lavoro sicuro, il lavoro nero e sottopagato. È consunzione della democrazia perché si declina in questi spazi, è incapacità di poter fare attività imprenditoriale libera se non sotto scorta o se non minacciate; la mafia significa non poter girare liberamente in strada perché si rischia di morire per errore in un agguato.

Non capita solo nella provincia di Foggia, dimenticata. La Direzione nazionale antimafia quattro anni fa dedicava una relazione a Milano nella quale diceva che, a livello imprenditoriale, qui registriamo la stessa omertà che c’era negli anni ‘80 a Palermo, perché è diventata capitale finanziaria della ‘ndrangheta. Io sono stato minacciato da un boss tre anni fa, dopo aver raccontato le attività imprenditoriali di questo soggetto, che poi è stato arrestato e condannato per camorra sette anni. Questo boss faceva affari a Milano, comprava i bar in pieno centro e ciò significa riciclaggio di denaro sporco, condizionamento della ristorazione, delle attività alberghiere e dell’economia.

Se non si capisce che questo è dentro e attorno a noi e condiziona la nostra vita di tutti i giorni, le scelte che facciamo e la capacità di sentirci liberi, forse questo ci fa capire perché è importante parlare di mafia. Se però la dignità, la libertà, il sentirsi cittadini, la partecipazione, il senso di comunità non sono sentimenti che ci appartengono è bene anche non occuparsi di mafia perché la mafia pregiudica tutto questo. Ma se non ci occupiamo di mafia non ci può essere libertà di impresa, di voto, di fare attività politica; perché la mafia condiziona pezzi di elettorato e può condizionare le amministrative, e si costruiscono dei modelli di rapporto tra potere mafioso e potere politico imprenditoriale che risultano egemoni.

L’idea che l’omertà appartenga a un perimetro territoriale è sbagliata, l’omertà è un problema culturale, si sedimenta e manifesta quando non riconosci più nel tuo territorio i poteri istituzionali e statuali, ma riconosci poteri devianti come legittimati al governo del tuo territorio. Riconoscendo nel soggetto mafioso il potere egemone, la paura è normale, perché l’altro potere ha perso di presenza. Quindi non è più un problema territoriale, ma è un problema dei poteri egemonici in quel territorio, e quando questi diventano poteri criminali l’omertà è una condizione inevitabile.

Se non si riparte dai territori dove più di ogni altro si consuma il patto tra potere criminale e politico imprenditoriale, non riusciremo a realizzare una democrazia compiuta. Dovremmo tornare a occuparci di periferie, di province e comuni italiani considerando che dal 1991 a oggi ci sono stati oltre 270 comuni sciolti per mafia e un quarto della popolazione in certe aree, circa 7 milioni di persone in Italia, sono interessate da fenomeni mafiosi intesi come beni confiscati, comuni sciolti o presenza di un clan. Le mafie anno investito all’estero, creato holding finanziarie e catene.

Non occuparsi della mafia significa non occuparsi di noi, del nostro futuro e di quello dei nostri figli. Al di là della retorica del ricordo, che è fondamentale, se non si associa con la capacità di leggere le trasformazioni dei fenomeni mafiosi e l’urgenza di intervenire e di combattere le mafie noi perdiamo la partita della democrazia, della realizzazione di uno stato di diritto e pregiudichiamo la nostra condizione di cittadini intesi come destinatari di diritti e soprattutto di doveri.