Il moltiplicarsi dei confini tra attacco ai diritti e razzismo. Il report del dibattito.

Domenica 23 giugno allo Sherwood Festival

26 / 6 / 2019

Domenica 23 giugno allo Sherwood Festival a Padova si è parlato di confini, di migrazioni, diritti e razzismo. Argomenti più volte dibattuti, ma che ancora necessitano un confronto, studio e analisi, soprattutto alla luce della legge “sicurezza immigrazione” e dell’ultimo decreto legge voluto dal Governo, misure inserite in un quadro generale di attacco e restrizione di diritti e libertà nei confronti di migranti, attivisti, esperienze di lotta sociale o chiunque faccia della solidarietà.

Si è partiti da una riflessione chiara, almeno agli attivisti e a chi ha lottato insieme ai migranti per la conquista dei diritti, ossia che le migrazioni, non da questo momento, sono oggetto di politiche di controllo e di prevenzione. Negli ultimi decenni, in particolare in Italia, queste politiche hanno superato la soglia di un vera e propria guerra a bassa intensità. La gestione politica delle migrazioni è una risultante di un processo che parte da lontano, attraverso una sequela di accordi, normative, decreti, direttive orientati al contrasto e alla limitazione della libertà di movimento dei migranti e alla compressione dei loro diritti materiali.

Mai come oggi, afferma Stefano Bleggi di Melting Pot e moderatore del dibattito, si assiste ad un proliferare di confini e sistemi di confinamento che diventano anche simboli delle stesse politiche repressive. Uno tra i più tristemente famosi è il mar Mediterraneo. Il canale di Sicilia è diventato un luogo di scontro per la sopravvivenza. Ma l’Italia non è l’unico paese vittima di una postura autoritaria portata avanti dal governo M5S-lega, anche a livello europeo si consolidano politiche di esternalizzione dei confini e di respingimento.

Nell’introduzione, infine, si è voluta portare la massima solidarietà di tutto lo Sherwood Festival alla Sea Watch, da 12 giorni bloccata al largo di Lampedusa con i 42 naufraghi a bordo.

Con Annalisa Camilli, autrice del libro “La legge del mare” e giornalista di Internazionale, si è parlato della questione del “Mediterraneo” riflettendo soprattutto su quelle che sono le verità non raccontate.

Il libro è stato scritto per superare la prospettiva che giornalisti e intellettuali hanno di ridurre tutto ad un eterno presente. Bisogna dare una prospettiva storica, raccontare cosa negli anni è successo non soltanto nel mar Mediterraneo, ma anche lungo la rotta balcanica.

Annalisa si chiede come sia possibile che uomini, donne e bambini si trovino a 16 miglia dalle coste italiane da più di 10 giorni, in balia del mare e senza nessuna prospettiva di sbarco, come se non fosse bastato quello che hanno dovuto subire nel loro lungo viaggio e soprattutto dopo esser passati dall’inferno dei lager libici, luoghi che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere grazie alle centinaia di testimonianze raccolte. Nonostante tutto questo l’Italia, ma anche l’Europa ignorano che ci sono persone in pericolo di vita. C’è un silenzio assordante su tutto questo che sta accadendo. Politici, intellettuali, società civile tacciono, gli unici a tenere alta l’attenzione sono i movimenti sociali e l’associazionismo. Chi di contro parla molto, sono ovviamente gli esponenti politici che sono al governo e che su queste politiche hanno creato il loro consenso e la loro agenda. A partire dalle azioni di questi politici che oggi sono al governo è iniziata una propaganda che ha portato ad un imbarbarimento del linguaggio e ad una criminalizzazione dello straniero. Dalla fine del 2016 sono stati tanti gli interessi, politici ed economici, che hanno portato ad una criminalizzazione del soccorso in mare. Nonostante siamo un paese che ha da sempre “vissuto” il mare e ha interiorizzato le proprie leggi, oggi anche la più banale “norma del mare” non viene rispettata. Il soccorso in mare, fondamentale legge per chi vive gli specchi d’acqua, è stata totalmente messa da parte.

Questo è accaduto per volontà di Frontex che, dopo la chiusura dei Balcani, ha deciso di chiudere la rotta mediterranea con un’accusa violenta nei confronti delle ONG. L’accusa che Frontex ha mosso nei confronti delle navi delle ONG è quella che quest’ultime siano diventate un fattore d’attrazione – pull factor - nei confronti dei migranti. Diversi studi svolti da enti di ricerca e Università hanno smentito questa affermazione. Infatti, nonostante non ci siano più navi delle ONG nel mar Mediterraneo i migranti continuano a partire. Nel febbraio del 2017 con il memorandum di intesa con Tripoli si riprendono vecchi accordi come il trattato di amicizia firmato da Berlusconi e Gheddafi. Con il memorandum d’intesa, che diventa il cavallo di battaglia del governo Gentiloni-Minniti, si da mandato alla cosiddetta guardia costiera libica di rimandare indietro in Libia i migranti, nonostante nel 2011 l’Italia con il caso Hirsi era stata sanzionata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i respingimenti. Per non essere accusati in prima persona, si decide di affidare il controllo del mare e i respingimenti alla guardia costiera libica.

In quel periodo oltre ad una propaganda fomentata dai partiti politici sovranisti, iniziano a diffondersi una serie di fake news che gettano benzina sul fuoco. L’estrema destra inizia ad utilizzare termini come “taxi del mare” e a produrre studi senza nessuna attendibilità scientifica. Frasi e pensieri che vengono fatti propri dai partiti che all’epoca erano all’opposizione e che oggi governano il nostro paese. Nel marzo del 2017 Luca Donadel pubblica un video “fatto in casa” dove afferma di raccontare la verità sui migranti e accusa le ONG di avere grossi interessi economici nel portare i migranti in Italia. Quello che all’inizio sembra un normale cittadino, settimane dopo si scopre essere un collaboratore del Primato Nazionale (sito web collegato a Casa Pound, ndr.), e che tutta l’operazione ha l’obiettivo di iniziare una propaganda anti migranti. Dai social media questi contenuti iniziano ad arrivare nei canali di comunicazione mainstream e addirittura in interrogazione parlamentari.

Dal marzo del 2017 all’approvazione del Decreto Sicurezza bis gli attacchi nei confronti dei migranti e la propaganda costruita sul problema migrazione sono cresciuti vertiginosamente. 

Quello che emerge in maniera chiara, conclude la Camilli, è che l’obiettivo di queste politiche non sono mirate a chi porta una semplice solidarietà, il vero obiettivo era ed è colpire quei soggetti indipendenti, come le ONG, essenziali in tutte le democrazie moderne per controllare il potere.

L’accordo Italia-Libia ha generato una serie di politiche di respingimento e di criminalizzazione, ma l’accordo ha anche avuto delle ripercussioni economiche molto forti. Duccio Facchini, giornalista di Altreconomia, ha approfondito tutti gli affari che sono stati fatti nella militarizzazione dei confini.

Le politiche di esternalizzazione delle frontiere, sono gestite in parte dalla direzione della polizia delle frontiere e dell’immigrazione che è il braccio operativo del Ministro degli Interni. L’Italia oggi è impegnata in Libia con quattro missioni internazionali, nessuna di queste fa riferimento all'attuale esecutivo come inizio della missione stessa.

Il ritmo delle azioni alla frontiera è scandito da “intese tecniche” tra ministeri di Esteri e Interno “per l’uso dei finanziamenti” previsti nel Fondo Africa, istituito alla fine del 2016 per rilanciare il dialogo tra Italia e Libia. La prima azione, datata 4 agosto 2017, riguarda il “supporto tecnico del ministero dell’Interno italiano alle competenti autorità libiche per migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. L’“eventuale spesa prevista” è di 2,5 milioni di euro. Nel novembre 2017 se n’è aggiunta un’altra, rivolta a “programmi di formazione” dei libici del valore di 615 mila euro circa.Dalle intese si passa ai contratti veri e propri. il “fornitore”, all’interno dei contratti, è sempre lo stesso: il Cantiere Navale Vittoria. È l’azienda di Adria a occuparsi della rimessa in efficienza di svariate imbarcazioni (tre da 14 metri, due da 35 e una da 22) custodite a Biserta (in Tunisia) e “da restituire allo Stato della Libia”. Ma anche della formazione di 21 “operatori della polizia libica” per la loro “conduzione” o del trasporto di un’altra nave di 18 metri da Tripoli a Biserta. La somma degli appalti sfiora complessivamente i 3 milioni di euro. In alcuni casi, il Viminale dichiara di non avere alternative al cantiere veneto. Lo ha riconosciuto la Direzione in un decreto di affidamento urgente per la formazione di 22 “operatori di polizia libica” e la riconsegna di tre motovedette a fine 2017. 

Ai primi di maggio del 2018, il Viminale decide di accelerare. Infatti, c’è l’urgenza di potenziare, attraverso la rimessa in efficienza delle imbarcazioni e l’erogazione di corsi di conduzione operativa, il capacity building della guardia costiera libica, al fine di aumentare l’efficienza di quel Paese per il contrasto dell’immigrazione illegale.

Nell’estate 2018 viene bandita la formazione per l’addestramento degli uomini che stanno sulle motovedette, progetto finanziato dal fondo fiduciario per l’Africa. Il cantiere navale Vittoria, unico fino a quel momento ad avere il monopolio di tutti i contratti, fa sapere che non parteciperà al bando perché poco remunerativo. A gennaio del 2019 l’affidamento va ad un’associazione di formazione cagliaritana: l’Exfor. Questa associazione si occupa di corsi di cucina, bar, ecc. Dalla formazione di cuochi e camerieri a militari che stanno su delle motovedette il passo è breve.

Paolo Cognini, avvocato penalista ed esperto in diritto dell’immigrazione, ha centrato il suo intervento sulla crisi dello stato di diritto, tralasciando i contenuti tecnici dei vari decreti ma contestualizzando i passaggi normativi all'interno di un quadro generale.

Dal 2017 ad oggi abbiamo assistito all’introduzione di modifiche normative di una gravità assoluta che toccano principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Tutti i provvedimenti hanno seguito una parabola coerente: la norma si costruisce sull’emergenza. Si costruisce una nuova narrazione dell’emergenza e si crea la norma. Rispetto al passato si crea l’emergenza dove l’emergenza non c’è, al massimo un’urgenza, come può essere quella dei salvataggi in mare. Da un concetto temporaneo come l’urgenza si arriva ad una prassi statica come la Norma, che cambia in maniera strutturale il sistema giuridico. 

I decreti sono ormai misurati sulla repressione sociale. La normalità nata da quella che abbiamo capito essere un’urgenza, un caso e non un’emergenza crea dei nuovi confini. Il daspo o la produzione amministrativa che stronca qualunque meccanismo autonomo di aggregazione, con controlli e regole ferree, sono dei confini creati dall’ordinamento giuridico che crea così un diritto differenziale. Si rompe quindi il concetto del “siamo tutti uguali davanti alla legge” per creare delle diversità negli atteggiamenti verso i cittadini.

La natura del diritto differenziale, che differenzia i soggetti sociali e dedica loro norme ad hoc, è diventato un dispositivo generale.

Il differenziare le norme in base ai soggetti alimenta e sottolinea con forza la crisi dello stato di diritto.

Produrre diritto differenziale vuol dire creare confini. La provenienza di una persona, la situazione economica e sociale, inizia a caratterizzare i comportamenti dello stato di diritto nei confronti della soggettività. I cambiamenti economici, in primis, sono determinati per capire i cambiamenti che stanno avvenendo nel sistema di diritto. La modifica è sistemica e congenita. Con la valorizzazione delle informazioni che servono al mercato economico, per sfruttare il consumatore, si aggiungono dati che vanno a creare un diverso controllo sociale. So cosa compri, cosa desideri, cosa pensi, chi sei. Gli algoritmi che organizzano i dati, le informazioni, riescono così a tradurre anche nel piano giuridico una differenziazione della gestione sociale, normativa e giuridica della persona.

Le esperienze sociali, i movimenti, devono andare oltre al problema della modifica di una legge, bisogna creare dei nuovi rapporti di forza ed economici. Movimenti come ad esempio i “Gilet Gialli”, o il movimento che è sceso nuovamente in piazza ad Hong Kong fa capire come i movimenti sociali sono in grado di rovesciare le dinamiche sociali, politiche ed economiche che si stanno costituendo.

Attorno ai confini si combattono battaglie di straordinaria intensità. Tutto questo accade - afferma Sandro Mezzadra, docente universitario e membro dell’Operazione Mediterranea - in tantissime parti del mondo. I confini sono luogo di conflitto in cui spesso è in gioco la vita delle persone. I migranti portano avanti una sfida, una battaglia di libertà.

Bisogna uscire dalla prospettiva per cui la violenza dei confini e la solidarietà con i migranti sarebbero questioni «settoriali», per assumerle al contrario come chiave di lettura della «questione sociale» e di articolazione di un progetto ambizioso e radicale di trasformazione della società nel suo complesso.

Tutto questo è essenziale visto che ci troviamo di fronte perfino alla criminalizzazione della solidarietà e dell’intervento umanitario.

A questa criminalizzazione reagisce un movimento composito ed eterogeneo, che si batte per i porti aperti o per la libertà delle navi che in mare prestano aiuto ai migranti. Al rafforzamento dei confini e alla criminalizzazione non si può contrapporre, secondo Mezzadra, soltanto l’umanitarismo o lo stato di diritto, bisogna aprire nuovi terreni di scontro e di sperimentazione politica dal basso. Attorno ai confini queste pratiche devono essere inventate, e oggi ci sono le condizioni per lavorare collettivamente a questo laboratorio.

Mediterranea, per esempio, ha tentato di inserirsi all’interno di questa contraddizione della criminalizzazione per creare un nuovo spazio, per “politicizzare” l’intervento del soccorso in mare.

Dal mare bisogna riuscire a creare delle vertenze nelle città. Quello che accade in mare non può essere marginale rispetto a quello che accade nel paese. Bisogna cercare di “collegare” questi due piani di lotta e non soltanto con la pratica della solidarietà.

A partire da questa collaborazione, tra anime e diverse, e dal lavoro comune nelle città e in mare bisogna mettere al centro la libertà di movimento. Libertà che non deve esaurirsi soltanto quando si passa un confine territoriale, ma deve diventare un terreno di conflitto e di lotta in cui il fronteggiamento quotidiano può andare al di là delle esperienze dei migranti per diventare pratica generale che facciano della libertà di movimento un terreno di programma per costruire coalizioni e sperimentare azione politica.

Dopo questa serata è emersa la necessità di continuare a confrontarsi e si è sottolineato come nel corso di quest’ultimo anno c’è stata un’ampia “disponibilità” a scendere in piazza: da Ventimiglia nel luglio scorso, a Roma il 10 novembre con #indivisibili, alle tantissime iniziative nei territori.

Oggi ci ritroviamo, a maggior ragione, nella situazione di non disperdere quanto costruito in termini di relazioni, di parole comuni e rivendicazioni, provando invece a rafforzare percorsi territoriali e nazionali per scendere nuovamente in piazza e contrastare questo nuovo decreto.