"Il mondo in fiamme". Una recensione dell'ultimo libro di Naomi Klein

21 / 10 / 2019

Sulla prima di copertina c’è un mondo stilizzato e la scritta “Il mondo in fiamme”, poi in basso “Contro il capitalismo per salvare il clima”. Sulla quarta stessa immagine, ma sul cerchio c’è scritto “Non c’è più tempo. Il clima sarà la nostra nuova lotta”.

L’estetica dell’ultimo lavoro della giornalista canadese Naomi Klein, Il mondo in fiamme (Feltrinelli, 2019, 284 p.)  ha l’aspetto di un volantino vero e proprio e dalla perentorietà dei suoi interventi scritti sembra lei stessa  a distribuirlo agli angoli delle strade di tutto il mondo. Il testo è composto da una raccolta di articoli, scritti a partire dal 2010 fino a oggi sulle questioni ambientali, tra indagini e interventi in incontri pubblici.

Ma attenzione, non si parla di una semplice selezione di articoli a tema ambientalista, perché una parte consistente del libro, a voler essere precisi un terzo esatto, è stato scritto durante questo anno solare; e si parla di Greta, del movimento Fridays For Future, del Green New Deal. E’ chiaro che l’intento della Klein e’ quello di entrare a capofitto nel dibattito mondiale innescato dalla mobilitazione transnazionale contro il cambiamento climatico, a distanza di 4 anni dal suo più corposo lavoro di denuncia ambientalista e critica al capitalismo Una rivoluzione ci salverà, e questo avviene in particolare nell’introduzione del libro.

Dopo l’introduzione, il primo articolo (ogni pezzo contiene degli aggiornamenti a mezzo note che attualizzano i contenuti del testo) è incentrato sul disastro ambientale più grave della storia americana, quello della petroliera Deep Water Horizoon, affiliata alla British Petroleum, che ha sversato nelle acque del Golfo del Messico milioni di barili di petrolio che hanno lambito le coste di Louisiana, Missisipi, Alabama e Florida. Si tratta di un pezzo di giornalismo ambientalista d’antan dal titolo “Un buco nel mondo”, che mette in risalto le gravi negligenze dei bossi della BP, sia in fase preventiva che nel corso dei limitati interventi di ripristino della situazione. 

Un aspetto di carattere più scientifico divulgativo, che dimostra l’impatto delle emissioni di CO2 nell’atmosfera terrestre, è contenuto in “Quando la scienza ci dice che la nostra unica speranza è una rivoluzione politica”, in cui si parla di come gli scienziati siano indotti dalle proprie rilevazioni a scendere in piazza e protestare contro il cambiamento climatico. In particolare, vengono messe in evidenza le ricerche di Kevin Anderson e Alice Bows, del Tyndall Center for Climate Change Research, sulla necessità impellente di ridurre da subito le emissioni di gas serra da parte degli Stati di tutto il mondo. 

Nel pezzo “Smettetela di cercare di salvare il mondo da soli”, viene riportato il discorso per la consegna dei diplomi al College of the Atlantic, in cui la giornalista canadese racconta un aneddoto per svelare l’atteggiamento troppo individualista delle lotte sociali e ambientali occidentali. A ventisei anni la Klein chiese a un sindacalista delle Filippine come mai le operaie, sfruttate e vessate nei luoghi di lavoro dove producevano i vestiti delle multinazionali, indossassero gadget Disney e swoosh Nike. Il sindacalista fece capire alla Klein che il loro potere sindacale non stava nelle scelte di consumo individuali, ma in quello che facevi come movimento organizzato collettivo. Tutto questo per dire: cosa fare contro il cambiamento climatico globale come individui? La risposta è nulla. La sfida dei tempi invece può essere affrontata solo attraverso un movimento organizzato globale.

E poi ci sono le poche ma veramente fortissime pagine del pezzo “Non c’è nulla di naturale nel disastro di Porto Rico”, scritto nel 2018 in seguito al passaggio devastante dell’uragano Maria. Si tratta di un condensato di critiche alle politiche di austerity, di colonialismo economico e di negligenze ambientali da parte del potere in stile Shock Economy, un libro che non a caso è stato di recente inserito dal The Guardian in diciottesima posizione nella classifica dei 100 libri migliori dell’attuale secolo.

Insomma, alcuni dei temi prevalenti di Il “Mondo in Fiamme” sono l’intersezione tra le lotte per la giustizia sociale (e quindi la richiesta di diritti sociali, magari costruendo nuove forme di lavoro e welfare legate ad attività di carattere ambientale) e quella climatica. Un tema che ritorna spesso nei vari articoli è quello della necessità urgente di trasformare il paradigma produttivo: “non c’è più tempo” è un monito, ma è anche la consapevolezza dell’irriformabilità del capitalismo.

In entrambe le questioni, si capisce che chi ha maggiori responsabilità nella produzione delle emissioni di CO2 sono le grandi multinazionali dei combustibili fossili, e non indistintamente tutti i cittadini, chiamati comunque a fare la loro parte.

In Italia, ad esempio, da qualche tempo sta circolando una pubblicità di Eni, una delle più grandi multinazionali di petrolio e gas, in cui si descrivono alcune politiche “di tipo ambientalista” portate avanti dalla suddetta azienda, e alla fine di questa descrizione la Eni spiega che i risultati ecologici si possono ottenere solo con lo sforzo di pratiche individuali (solo individuali, e non sociali magari) virtuose da parte di persone - dai nomi generici, ma che potrebbero essere ciascuno di noi - i cui volti disegnati vengono mostrati a tutti: Eni + Luca è meglio di Eni e così via. Ecco che l’Eni diventa come i “mercati finanziari”, cioè giusta, che necessità della nostra fiducia, senza volto e con una voce di sottofondo tipo divinità, mentre le nostre facce e i nostri volti sono chiamati in causa uno per uno.

Bisognerebbe ricordare a tutti che anche Amnesty International in questi ultimi anni ha denunciato le cattive condotte dell’Eni in Nigeria, come la storia della denuncia della comunità Ikebiri contro lo sversamento di petrolio di cui è responsabile l’azienda italiana che ha portato al processo di Milano iniziato nel 2018. Queste gravi irresponsabilità non  sono compiute dai singoli cittadini, ma da multinazionali in cerca di profitti sulla pelle dei popoli, in questo caso africani.

Ritorniamo a Il Mondo in fiamme della Klein. Bene, tra gli aspetti critici di questo libro c’è proprio questo continuo riferimento alla clessidra che sta per scadere, al tempo che manca e che invita ad agire subito. Proprio la Klein però in Shock Economy ci ricordava che l’emergenzialità, più che essere un fatto oggettivo, è una condizione di panico creata dal potere che può essere un boomerang, utile per imporre le proprie logiche, insomma, una passione triste dei giorni nostri.

Altro aspetto su cui ragionare è la proposta del cosiddetto Green New Deal, a cui l’autrice canadese dedica più pagine alla fine del libro. Si tratta di un piano governativo che appunto, dal nome, richiama il New Deal Roosveltiano degli anni 30 negli States. In breve, si tratta di. Una misura auspicabile e corretta, necessaria, contraria alle politiche neoliberiste dei governi di tutto il pianeta, che magari potrebbe anche diventare un hastag utile alla causa ambientalista internazionale. Il rischio, però, è di depotenziare le mobilitazioni per il clima nate dal basso a partire dallo scorso anno.

Nell’esposizione di questo programma - un piano di riforme radicali di carattere ambientale e sociale, da implementare da parte dei governi, fondato sulla tassazione delle multinazionali, la redistribuzione della ricchezza e la creazione di nuovi posti di lavoro che abbiano una finalità ecologica - la giornalista canadese fornisce sempre un contrappunto tra le proposte politiche da attuare e la spinta dal basso necessaria a doverlo realizzare, imprescindibile (facendo proprio riferimento alle forze sindacali, operaie, popolari che scossero dalle fondamenta la vita politica degli Stati Uniti negli anni 30 del secolo scorso).

E proprio questo dimostrano quei cartelli mostrati dai tanti giovani in tutto il mondo nelle manifestazioni de

Quello su cui però bisogna puntare in assoluto è proprio la dinamica emersa nella mobilitazione di Fridays For Future: attestano  la volontà di far sentire la propria voce entrando nel merito di quello che pensano del circuito della produzione sulle questioni sociali e ambientali, nel momento in cui questo è impedito dagli interessi delle multinazionali e dalla comunicazione tecnocratica ed escludente dei media e della politica; per una democrazia diretta e forme comunitarie di esistenza alternative da perseguire in tutto il mondo.