Khalifa e gli altri. Incroci di civiltà

La scrittura come mezzo attraverso cui far parlare la rabbia e la sofferenza di un intero popolo. La letteratura come forma di resistenza

8 / 4 / 2016

Si è da poco conclusa "Incroci di civiltà", la rassegna internazionale di letteratura promossa dall'Università Ca Foscari e che dal 2008 vede la partecipazione di grandi autori da tutto il mondo. Diversi gli scrittori presenti durante quest'edizione che hanno dato il loro contributo portando le testimonianze dei loro paesi d'origine: dalla Siria, alla Palestina, dall'Azerbaijan al Vietnam, dall'Italia all'Australia passando per tanti altri luoghi vicini e lontani. 

Tra gli ospiti più attesi, spicca il nome di Khaled Khalifa, scittore siriano, simbolo della resistenza del suo paese, divenuto una penna di fama internazionale grazie al suo terzo romanzo "L'elogio dell'odio" (Bompiani, 2011), incentrato sulle vicende della Siria degli anni '80, candidato al Premio Internazionale per la Narrativa araba, e al Premio per la Narrativa straniera indipendente. 

Khalifa nasce in un villaggio vicino ad Aleppo nel 1964, dopo gli studi in legge fonda la rivista letteraria "Aleph", in seguito censurata dal regime siriano. Attualmente all'estero per studio, ma con tanta voglia di rientrare in Siria per stare con il suo popolo, Khalifa ha vinto la prestigiosa medaglia Mahfuz con il suo romanzo "Non ci sono più coltelli nelle cucine di questa città". 

Il suo impegno non solo letterario, ma anche politico, gli è costato la rottura della mano nel 2012, quando fu aggredito dalla polizia di regime mentre partecipava al funerale dell'amico Rabi' Ghazzi. 

Qualche mese prima, Khalifa aveva scritto una lettera aperta agli scrittori di tutto il mondo affinchè prendessero posizione sul massacro del popolo siriano:  "(…) Il mio popolo è un popolo di pace, di caffè e musica che mi auguro un giorno possiate gustare anche voi, e di rose di cui spero possiate sentire il profumo, affinché sappiate che il cuore del mondo è oggi vittima di un genocidio e che il modo intero è complice nello spargimento del nostro sangue. Non riesco a spiegare nulla di più in questi momenti cruciali, ma spero di avervi esortati a mostrare la vostra solidarietà al mio popolo con i mezzi che riterrete più opportuni. So che la scrittura è impotente e nuda di fronte al frastuono dei cannoni, dei carri armati e dei missili russi che bombardano città e civili inermi, ma non mi va che anche il vostro silenzio sia complice dello sterminio del mio popolo."

La scrittura come mezzo attraverso cui far parlare la rabbia e la sofferenza di un intero popolo. La letteratura come forma di resistenza. Tutto ciò fa tremare i regimi dittatoriali, i poteri forti. Khalifa non è il primo, e non sarà l'ultimo, purtroppo, degli intellettuali censurati, minacciati, aggrediti.

E se parliamo di censura, ma anche di altri ospiti attesi durante quest'edizione di "Incroci di civiltà", non possiamo non citare Akram Aylisli, scrittore, romanziere ed ex parlamentare azero, trattenuto a Baku proprio mentre era in viaggio per Venezia, dove avrebbe dovuto essere intervistato da Gian Antonio Stella (Corriere della Sera) e Giampiero Bellingeri (Università Ca Foscari).

Le ripercussioni contro Akram Aylisli, candidato nel 2014 al Premio Nobel per la pace, e la sua famiglia sono iniziate con la pubblicazione del romanzo "Sogni di pietra" ( trad. di Bianca Marie Balestra, Guerini e Associati, 2015.), in cui l'autore "tenta di capire e di spiegare le ragioni dell'altro", raccontando le violazioni subite dagli armeni per mano sia turca che azera. Il conflitto tra Azerbaijan e Armenia per la rivendicazione del Nagorno Karabakh, enclave cristiana armena situata in territorio azero, tra il 1988 e il 1994 aveva procurato migliaia di vittime e centinaia di migliaia di profughi. 

Aylisli, a cui è stata ritirata la pensione e alcune onorificenze, avrebbe dovuto parlare proprio nei giorni in cui il conflitto stava ritornando sulla scena politica internazionale. Motivo per cui le autorità di Baku hanno ben pensato di fermarlo con l'accusa di "teppismo". 

La censura intellettuale non stupisce più. Khalifa, Aylisli, come gli autori e i libri arabi censurati alla Fiera internazionale del libro di Ryadh, in cui ogni anno vengono eliminati interi stand considerati "pericolosi" dall'autorità saudita. L'anno scorso, durante lo stesso evento, furono confiscati centinaia di libri e lo stand di Nawaf al Qudaimi, co-direttore della casa editrice Al-Shabaka al-arabiyya li al-abhath wa al-nashr (La rete araba per la ricerca e l’editoria), fu completamente distrutto per i suoi saggi sull'Islam politico. Tra gli autori considerati scomodi dall'Arabia saudita, anche il palestinese Mahmud Darwish, tra i più grandi, se non il più grande, dei poeti arabi contemporanei.

Viene da chiedersi, leggendo tutto ciò, quale sia il ruolo della letteratura araba in un contesto come quello in cui ci troviamo. Quale, quindi, il ruolo degli intellettuali e letterati. 

Un tempo, gli scrittori arabi si trovavano a denunciare, attraverso le loro parole, l'ingombrante presenza occidentale nei loro paesi o si facevano portavoci di questioni sociali, come l'egiziano Qasim Amin, tra le figure centrali della Nahda, quel movimento arabo di rinascita sociale, politica e letteraria, che già nel 1899 denunciava il velo imposto, la poligamia che non valorizza la donna e la necessità di dare accesso alle donne al mondo del lavoro.

 Oggi, il loro ruolo non è poi cambiato così tanto. C'è chi preferisce trovare nella letteratura e nella propria penna una via di fuga dal contesto reale, fuggendo anche da una certa situazione politica, e chi, come Khalifa, resiste proprio attraverso le sue opere. 

In questi giorni, in diverse città italiane, grazie alla sua testimonianza si ritorna a parlare di Siria e del massacro di un popolo che scappa da tragiche guerre e cerca rifugio all'interno di un'Europa che alza muri e barriere e gioca allo scambio di persone con il suo primo alleato, la Turchia.

Mi sarebbe piaciuto chiedere a Khalifa se avesse in programma un romanzo ambientato fuori dai confini siriani, magari in un campo infinito come quello di Idomeni, in cui i protagonisti sono Rawan e Moad, coppia siriana in attesa di un figlio che dopo quaranta giorno bloccati alle porte della fortezza Europa, dopo un viaggio drammatico che li ha condotti fino a lì, si ritrovano su un autobus verso la Turchia, perchè la deportazione è iniziata.

Avrei potuto chiederglielo, ma forse mi sarei staccata troppo dal contesto letterario.

O forse no.. perchè è Khalifa stesso a ricordare, durante Incroci di Civiltà, il suo ruolo: "È sempre difficile spiegare il perchè della morte del tuo popolo. Io, come scrittore, cerco di spiegarlo affinchè in futuro non si dica che abbiamo chiuso gli occhi sulla Siria".