La guerra, oltre la guerra. Il report del dibattito a Sherwood Festival

22 / 6 / 2022

Lunedì 20 giugno si è tenuto a Sherwood Festival il primo dibattito di questa edizione, intitolato “La guerra, oltre la guerra”.  Hanno partecipato Donatella Di Cesare (filosofa), Ida Dominijanni (filosofa), Andrea Fumagalli (economista), Davide Grasso (ricercatore e scrittore, ed ex combattente Ypg). Ha introdotto e moderato Antonio Pio Lancellotti (Global Project).

Il dibattito è stato preceduto dal video del centro studi Open Memory intitolato La Guerra del fuoco, sulla storia dei movimenti contro la guerra degli ultimi 40 anni.

In occasione della giornata mondiale del rifugiato Antonio Pio Lancellotti introduce il dibattito ricordando che la guerra in Ucraina ha creato un doppio standard fra rifugiati di serie A e di serie B. Ha poi presentato il conflitto riaffermando che questo non è circoscrivibile ad un affare regionale e che non è possibile leggerlo con l’unica lente dell’oggi ma va invece analizzato in un processo di medio e lungo periodo. Poiché la guerra assume un ruolo fondativo nella ridefinizione del rapporto tra capitale, lavoro e natura, è stato introdotto il tema della transizione ecologica che va inquadrata come una fase storica più che un momento di passaggio, nella quale il capitalismo sta tentando di internalizzare ii vincoli ambientali per proporre nuove forme di accumulazione. Dall’altra parte, dalla caduta del Muro si è potuto scorgere la tendenza della NATO di svolgere il ruolo di vera e propria polizia internazionale e dall’altra il tentativo di potenze economiche e coloniali, in primis Russia e Cina, di riattivare uno scontro multipolare per l’egemonia. 
Infine, Lancellotti osserva che è in atto un mutamento della narrazione politica e istituzionale volto a normalizzare la guerra prendendo le forme di un “patriottismo di guerra”.

A questo proposito lascia la parola a Donatella Di Cesare, che sull’ultimo numero di Jacobin ha scritto un ottimo articolo sul tema della “verità” e della “propaganda”.

Di Cesare inizia il suo intervento descrivendo la guerra in Ucraina come uno spartiacque verso un nuovo capitolo della storia: pandemia, recessione, inflazione, cambiamento climatico sono fenomeni connessi tra loro che descrivono uno scenario apocalittico, rappresentato dalla propaganda come processo irreversibile.
La guerra ha riportato in luce e addirittura potenziato ideali come il patriottismo e la mistica dell’eroismo e del sacrificio. A questo proposito viene tirato in ballo il concetto di “necropolitica”, ovvero di una politica che richiede la morte, la pretende come soluzione necessaria. Questo scenario appare profondamente inquietante: diventano labili i confini tra resistenza e suicidio (ben rappresentato con la metafora degli aerei dell’11/09), tra libertà e martirio.

La filosofa ritrova una continuità tra la politica durante la pandemia, che abdicava alla scienza, e quella di oggi (impersonata dal governo tecnico-amministrativo di Draghi), che abdica alla guerra (con l’invio di armi) e legge in questa dinamica la vera disfatta: l’invio di armi è critico proprio perché rappresenta la sospensione della politica a favore di una una necropolitica amministrativa, che contempla il diritto di decidere e uccidere attraverso la violenza e la sopraffazione. In quest’ottica la vera differenza tra gli “interventisti” e i “pacifisti” è che i primi accettano questa visione di morte e gli ultimi avvertono invece la preoccupazione per una guerra che diventa un attacco alla vita e ai cicli - alimentari, energetici, esistenziali - del pianeta. Secondo Di Cesare l’unico modo per disertare questi mondi di morte, combattere il profondo senso di impotenza che viviamo, che definisce come una vera e propria “grande depressione”, politica ed esistenziale, sta nella ricerca del pensiero e del confronto - nemici di propaganda e conformismo - e nell’elaborazione di nuove categorie politiche. La guerra oltre la guerra sta, secondo la filosofa, proprio nell’andare oltre a questo senso di impotenza.

Rivolgendosi ad Andrea Fumagalli, Lancellotti chiede quali siano le ricadute di un'economia di guerra sulle condizioni di vita e di lavoro in un mondo che da più di un decennio vive una situazione di crisi e stagnazione continua.

La risposta si apre attribuendo al pensiero neoliberista il “merito” di porre le questioni economiche al centro dell’analisi politica, sociale e giuridica del nostro tempo, condizionando anche il pensiero filosofico. Dall’89 in poi tutti i conflitti che si sono succeduti hanno avuto una natura più geo-economica che geo-politica, effetto del processo di globalizzazione, di finanziarizzazione e del ruolo crescente che hanno i mercati finanziari nel definire i processi di distribuzione del reddito.
Negli ultimi 10 anni è poi venuto meno l’unipolarismo americano centrato sul dollaro. Durante il G20 del 2016 la Cina ha proposto di creare un pacchetto di 5 valute internazionali (tra cui il dollaro e lo yuan) per fornire, attraverso una media ponderata basata sull’importanza delle singole valute, una paniere di monete di riferimento internazionale che andasse oltre l’unilateralismo monetario. Questo evento richiama in linea generale un conflitto che va ben oltre l’aspetto bellico attuale.

La prima sanzione contro la Russia è stata il blocco del 50% delle riserve valutarie della banca centrale russa detenuta all’estero, per mettere in difficoltà il finanziamento bellico del paese, togliere liquidità all’economia della sua banca centrale ma soprattutto procedere alla svalutazione del rublo e ad una conseguente inflazione per frenare la crescita economica. Nelle prime due settimane successive ne è conseguita una svalutazione quasi del 100%. Le autorità monetarie russe hanno chiesto di conseguenza che i pagamenti del petrolio e del gas venissero versati su di un conto apposito che permettesse di convertire in maniera automatica, senza una modifica dei contratti, il dollaro e l’euro in rublo per difenderne la quotazione, riuscendo in conclusione ad arginare una così alta svalutazione. “L’attacco” da parte degli Stati Uniti e dell’Europa non è riuscito perché siamo in una fase di cambio di governance finanziaria internazionale che forse richiede un nuovo accordo. Il recupero del ruolo del dollaro che era stato ridotto da Trump attraverso le politiche protezionistiche suggerisce che questa guerra potrebbe non vedere una fine troppo prossima.

Qualunque situazione bellica permette nuove forme di profittabilità e la guerra in Ucraina mette in moto un forte processo di ripresa economica degli USA attraverso l’apparato militare, soprattutto grazie al “capitalismo delle piattaforme” che permette lo sviluppo di molti settori di punta dell’economia americana. Questa guerra invece limita l’autonomia dell’Europa rispetto alle politiche della NATO e degli Stati Uniti e il “vecchio continente” è quello che di più paga lo scotto dell’aumento dei prezzi delle materie prime e delle merci che ne derivano. 

La guerra non è però la causa primaria di un’inflazione che Fumagalli definisce “da profitti” (perché l’aumento dei prezzi è maggiore e non è proporzionato all’aumento dei costi di produzione) ma è piuttosto l’ultima di una serie di storture interne al capitalismo delle piattaforme. Un’ulteriore riprova è il prezzo del gas russo in Italia che ad oggi è lo stesso fissato dai contratti di due anni fa. In questo frangente è inevitabile che vengano messi in moto dei processi di ristrutturazione: perdita di potere di acquisto del lavoro, effetti di specializzazione produttiva finalizzati a modificare le strutture organizzative del lavoro, eliminazione di quella parte del sistema delle piccole imprese e del sistema produttivo che non è in grado sopravvivere a queste condizioni e incremento di forme di intervento statuale di supporto che in base alla logica “divide et impera” riscuoteranno consenso politico nel futuro.   

Lancellotti, ricordando le tematiche trattate da Ida Dominijani nei mesi passati, oltre a quello della simbologia del “patriarcato neonazionalista” riportato in auge dal conflitto, chiede alla filosofa di esporre la sua critica al modello di democrazia liberale inquadrata in un’ottica di “scontro di civiltà”.

Ripartendo dall’11 settembre, la filosofa ricorda che negli ultimi 70 anni ci sono state molte guerre che hanno coinvolto l’Europa (Ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia e Siria), riportando la propria stanchezza nei confronti di un ennesimo conflitto in un tempo così ravvicinato e la confusione che riscontra nel dibattito politico: ci sono molti riferimenti alle guerre mondiali, al nazismo, al comunismo ma nessuno pensa all’ultimo ventennio.
La sequenza pandemia-guerra, oltre a mettere in secondo piano la problematicità della saturazione capitalista, ha oscurato la riabilitazione del paradigma della cura e l’ontologia della vulnerabilità, sovrastati da una nuova autodistruttività, tipica della necropolitica.

Elementi del martirio suicidario che 20 anni fa l’occidente attribuiva all’arretratezza culturale del “nemico” oggi vengono descritti come patriottismo o “resistenza”. Allo stesso tempo questo scenario si colloca nella “retorica democratica” che a partire dal “fondamentalismo islamico” inquadra i conflitti in uno “scontro di civiltà” ed è stato di nuovo identificato un nemico nella figura dell’autocrate. L’esportazione della democrazia è un sentimento che è andato a potenziarsi a fronte di una crisi in primis delle democrazie esistenti, che sono sempre più pervase di elementi e tentazioni autocratiche (Trump in USA, ma anche in Europa e Italia). Più la democrazia assume un valore assoluto più si depaupera al suo interno: dal punto di vista dei diritti, dello stato sociale, dello stato di diritto, dell’opinione pubblica.
Viene rimarcata la responsabilità dell’UE nel conflitto ucraino, che dall’’89, allargandosi verso est, ha annesso molti paesi dell’ex blocco sovietico inglobandoli nel mercato senza monitorarne i processi di democratizzazione, provocando una sindrome di delusione rispetto all’europeizzazione su un piano politico, economico e culturale.

Il modello patriarcale sta poi vivendo un periodo di crisi se non una sua fine definitiva ed il paradigma bellico, da cui dipende, sta accusando il colpo: la stanchezza degli eserciti, in particolare russo, è palpabile ed è inoltre chiara una disaffezione alla formazione virile che può fornire la guerra.
Eppure su di un piano simbolico e politico sembrerebbe che sia Putin che Biden guardino al nazionalismo e alla giovinezza di Zelenski come ad una cura ricostituente di questo modello patriarcale.

Rivolgendosi infine a Davide Grasso, Lancellotti ricorda l’intervento del ricercatore a proposito dell’incapacità di una parte della sinistra di riconoscere anche Putin come “nemico” e gli chiede come si possano ricostruire nuovi valori comuni che parlino un linguaggio realmente internazionalista, e che non siano radicati in una cultura nazionalista e patriarcale.

Davide Grasso inizia il suo intervento dicendo che la “resistenza” ucraina andrebbe sostenuta, non tanto da un Occidente astratto o dallo Stato Italiano nei quali non si identifica, ma su un piano di principio. Secondo Grasso, nella narrazione che contrappone USA e NATO alla Russia, scompare il popolo ucraino, vittima di ingiustizia, offesa, abuso e sopruso. 

Il senso di impotenza che avvertiamo è determinato soprattutto, secondo Grasso, dalla necessità di autocritica della sinistra. Le principali criticità riscontrate dall’ex combattente Ypg sono tre: un anti imperialismo che si rivela essere unilateralmente diretto verso l’Occidente. Sul piano psicoanalitico invece il rancore presente in una parte della sinistra sociale verso le popolazioni dell’est che continuano a rivoltarsi chiedendo un modello giuridico più vicino all’UE che a Mosca, che secondo Grasso sarebbe mal riposto perché non esiste ancora una “terza via”, una proposta politica alternativa a questi due modelli. Di conseguenza, e arriviamo al terzo punto, secondo Grasso la sinistra non dovrebbe accontentarsi di esercitare critiche negative ma proporre un’alternativa, altrimenti la sua irrilevanza sul piano storico continuerà ad essere assoluta.

In conclusione al dibattito, Lancellotti pone un’ultima domanda a tutti gli ospiti “Su quali basi oggi possiamo costruire una nuova idea di contrapposizione di massa alla guerra, agli interessi che questa contiene, al riassetto globale del capitalismo e a tutto quello che esprime nella contemporaneità?”

Per Donatella Di Cesare a sinistra è sempre stata internazionalista, «perciò reputo molto pericoloso schierarsi dalla parte di una nazione - l’Ucraina - che trova la propria identità nella rivendicazione e nel possesso di un territorio in termini nazionalistici, soprattutto se pensiamo che il compito originario dell’Europa era quello della coabitazione dei popoli. Una nuova sinistra dovrà essere capace di vedere la politica al di là dello stato e a questo proposito persino il principio di autodeterminazione andrebbe rimesso in discussione»

Secondo Andrea Fumagalli quando è crollato il socialismo reale le sinistre europee, che dovevano rappresentare gli interessi delle fasce più deboli, sono state abbagliate dalle nuove forme di liberismo. Questo ha impedito di pensare a un “altrove”. «La pandemia era la grande occasione per iniziare una battaglia comune per la creazione di veri ammortizzatori sociali, di un welfare universale e non selettivo. Perché non siamo stati in grado di farlo?».

Ida Dominjiani crede che, rispetto alla questione Ucraina, ci sia stata una confusione tra solidarietà e identificazione. Quest’ultima ha prevalso, con la retorica che in Ucraina si gioca il destino dell’Europa, e non ha aiutato la causa. La solidarietà funziona quando si riconoscono le differenze in gioco. «Dobbiamo uscire dalla logica binaria molto regressiva e cominciare a fare una topografia delle vittime di questa guerra, che sono tantissime, incrociate e soprattutto trasversali - ucraini e ucraine, russi che dissentono, profughi, chi risentirà della crisi ambientale più di noi in Nord Africa, noi stessi, vittime dell’inflazione accelerata da questa guerra - per creare alleanze sociali internazionali ma soprattutto trans-nazionali. Per farlo il primo passo è quello di aumentare la resistenza e la lotta interna alle degenerazioni insopportabili prima di tutto delle nostre democrazie».

Davide Grasso afferma che il sistema mondiale degli stati nazionali va superato: sono proprio gli stati nazione, che negando le diverse nazionalità presenti al loro interno, a creare i presupposti continui per queste guerre. D’altra parte bisogna anche evitare di ipostatizzare lo Stato e modificare la mentalità, ma questa è un’opera di lunghissimo periodo e perciò il nostro intervento non può limitarsi a questo: è necessario agire anche in modo contingentato. L’internazionalismo non può rimuovere la questione della nazione e della nazionalità: «abbiamo bisogno di forme organizzate che ci permettano di abbandonare la frammentazione e il linguaggio metaforico che usiamo quando parliamo del cambiamento e che siano credibili quando si schierano dalla parte degli oppressi».

Lancellotti conclude il dibattito ringraziando gli ospiti per averci riportato alla complessità, essenziale nell’analisi di questo conflitto.

Immagine di copertina: Teresa Zavattiero, Sherwood Foto