Intervista al filosofo napoletano da Il Corriere del Mezzogiorno del 02 luglio di Sergio Marotta

La Rivolta ! di Pierandrea Amato

il nuovo libro in uscita per Cronopio

2 / 7 / 2010

La politica è in crisi. E sembra anche definitivamente tramontata l’idea che dalla politica possa arrivare una soluzione condivisa ai problemi della quotidianità. Da dove potrà venire il nuovo? Che cosa potrà determinare il cambiamento? Quale sarà il luogo di questa prima scintilla?

Il napoletano Pierandrea Amato, ricercatore alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Messina, un’idea ce l’ha: «I moti urbani in grado di inquietare il potere globale— penso alle rivolte di Los Angeles, Genova, Atene e in particolare a quelle delle banlieues parigine— non sono forme violente di anti-politica ma, al contrario, costituiscono un evento politico in grado di invocare una rottura delle forme con cui generalmente siamo governati».

A prima vista niente di particolarmente originale visto che molti affidano le loro speranze ai movimenti no-global, alla reazione pacifica ma ferma ad una condizione di sfruttamento non più sopportabile che costringe il potere a mostrare il suo volto oscuro. Tuttavia Amato cerca di fare qualche passo più in là ed elaborare una teoria originale che pone al centro la «rivolta» come manifestazione politica della natura umana. Così La rivolta diventa il titolo del suo ultimo saggio appena pubblicato dalla casa editrice napoletana Cronopio. E proprio da Napoli partiamo per qualche considerazione.

Due capitoli del libro sono dedicati alle rivolte nelle banlieues parigine. Ma secondo lei Napoli è un possibile teatro di rivolta?

«Credo che qualsiasi luogo sia il posto giusto per un gesto rivoltante in grado di infrangere il corso normale del tempo. Dunque, anche Napoli non dovrebbe fare eccezione. È vero però che la posta in gioco tra chi ci inchioda a essere ciò che siamo a Napoli trova un terreno fertile. Perché qui il governo dell’esistenza è gestito non soltanto dalla police statuale, ma anche da forme organizzate di criminalità in grado di produrre forme di disciplinamento complementari a quelle legali. Napoli, in questo senso, è solo apparentemente una città fuori controllo. Per questa ragione il rischio è che qui le rivolte non rappresentino eventi di rottura, ma la manifestazione di un’esasperazione delle condizioni rivoltanti in cui siamo gettati, assumendo l’aspetto della guerra tra poveri. Detto ciò, sono convinto che senza una rivolta metropolitana, non vi sia alcuna opportunità di scatenare le forze che devono spezzare antichi equilibri. Per fare un esempio: credo che qualcosa del genere sia germogliato nella rivolta contro la costruzione della discarica Chiaiano; dove esperienza politica, conoscenza diretta del territorio e acquisizione di un sapere tecnico condiviso, hanno dato vita a una rivolta urbana in grado di non esaurirsi nella sua specificità. Non è detto che ciò non accada di nuovo e molto presto. Ad esempio, da Pomigliano, contro il feroce protocollo Fiat, potrebbe diffondersi una ribellione in grado di propagarsi in modo inatteso».

La rivolta è l’unico momento in cui l’uomo manifesta la propria essenza e torna ad essere se stesso?

«L’attuale collasso di presa analitica sul reale delle categorie politiche, epistemologiche, filosofiche moderne indubbiamente permette di intravedere, come dire, senza veli, il fondo antropologicamente rivoltante dell’esistenza umana. Più semplicemente: con la crisi della legittimità del moderno, l’esistenza umana non è più catturata in una rete di discorsi tesa ad addomesticarne la natura».

Un gesto ‘‘rivoltante’’ è un atto che si scaglia contro la libertà del mercato, contro la mistica della democrazia e della guerra in nome dell’uomo. Quindi, secondo lei, non ci può essere alcun processo rivoluzionario prima elaborato teoricamente e poi messo in pratica.

«Una pura teoria della rivoluzione, ammesso che sia mai esistita, non ha nulla di rivoluzionario. Ogni teoria della rivoluzione, in realtà, è sempre andata a scuola della realtà e lì si è nutrita per definire le proprie traiettorie fondamentali. La rivolta, in questo senso, incarna in modo prepotente i privilegi della prassi. Per questa ragione, da un punto di vista squisitamente teorico, rappresenta una nozione inevitabilmente ambigua».

Non molti anni fa «rivolta» era un termine da condannare. La parola giusta era rivoluzione…

«È vero che generalmente la figura della rivolta genera molti sospetti. E non solo da parte di politici e filosofi conservatori. La storia dei partiti comunisti potrebbe, ad esempio, essere raccontata anche attraverso le prese di distanza dalle rivolte popolari. D’altronde oggi anche pensatori radicali, ad esempio Alain Badiou e Slavoj Žižek, considerano la rivolta l’espressione di un movimento sostanzialmente anarchico che non ha una statura politica perché rinuncerebbe alle sue forme canoniche: l’organizzazione stabile, una rivendicazione chiara, dei leader riconosciuti. Da parte mia, invece, penso la rivolta come il presupposto ultra-politico, perché inscritto nell’esistenza di chiunque, di qualsiasi politica degna di questo nome.
Voglio aggiungere, per non essere frainteso, che la centralità che il volume attribuisce alla rivolta non si oppone alla rivoluzione. Volevo semplicemente mostrare la loro diversa relazione con il potere: se la rivoluzione pensa che l’accesso al potere sia il presupposto della trasformazione della singolarità, la rivolta immagina che il mutamento della singolarità nell’atto rivoltante sia il principio di una possibile trasformazione».

La rivolta è la scintilla che fa scoppiare qualcosa da cui può nascere il nuovo. Ma perché dovrebbe essere migliore dell’esistente? Non le sembra anche questa una forma estrema di teologia politica che pure lei condanna senza mezzi termini in più punti del suo saggio?

«Certamente non ogni rivolta contribuisce alla trasformazione dell’esistente. Può anche avere un carattere reattivo. Adoperando un punto di vista ontologico più che politico, posso dire che la rivolta, a mio giudizio, è tale se logora materialmente la condizione immonda del mondo. Se dopo la sua esplosione, produce tangibili processi di trasformazione individuale, collettivi e finanche istituzionali. Ma perché ciò accada, deve rinunciare a qualsiasi forma di verticalità del senso e del comando politico. Per questa ragione la rivolta dovrebbe evitare qualsiasi teologica politica. In questa direzione, ad esempio, va l’idea, che nel volume cerco di sostenere, che la rivolta in sé non è mai violenta perché è un evento che non ammette alcuna decisione preventiva sulla propria natura. Può essere violentata a fare violenza, ma non è cosa che in anticipo può essere determinata proprio perché la sua esistenza si consuma esclusivamente nella prassi. La violenza, in termini filosofici e politici, è una questione che riguarda lo Stato, non le rivolte».