La rivoluzione delle pratiche zapatiste, quelle conquiste che (r)esistono ancora oggi

Presentazione dei libri “Economia comunitaria indigena” e “Il sistema educativo nella resistenza zapatista”, con gli autori Andrea Mazzocco e Lorenzo Faccini, e la partecipazione di Gianfranco Bettin, ricercatore, saggista e attivista politico.

9 / 2 / 2022

Introduce la presentazione il saggista Gianfranco Bettin. Le due pubblicazioni, di Lorenzo Faccini e Andrea Mazzocco, gettano luce su fenomeni scomparsi negli ultimi tempi dalla sfera mediatica, un po’ per la disattenzione nei confronti di fenomeni che esulano dal mainstream, un po’ anche perché è nel modo di agire di queste esperienze evitare le luci della ribalta, fondando in questo la propria diversità. I due lavori attirano l’attenzione su percorsi profondi e di lunga durata, che non sono però riducibili alle vecchie vicende di guerriglia sudamericane, ma superano paradigmi di una volta e puntano a rifondare i percorsi autonomisti, aprendo nuove vie.

Qui il video completo del dibattito:

Da questo punto di vista è molto importante il ragionamento sulle forme economiche indigene. Le forme di economia indigena ci mostrano pratiche altre rispetto alla forma politica dominante, così come il sistema di istruzione delle comunità zapatiste; sono temi a cui è fondamentale continuare ad ispirarsi, per evitare di cadere in vecchi e sterili dinamiche.

Andrea Mazzocco racconta la genesi di questi due lavori, che nascono da un sentimento come di innamoramento nei confronti di un’esperienza che, quando è nata e si è svelata al mondo, il 1 gennaio 1994, è stata capace di rompere ogni schema anticapitalista statocentrico. L’attenzione mondiale, allora, fu completa. Al contrario, oggi, quest’attenzione è purtroppo scemata, ma le basi della più grande rivoluzione degli anni ’90 continuano tuttora a svilupparsi ed evolversi. Questa visione del mondo ottimista, che abbiamo potuto esperire anche in occasione della Gira Zapatista, è una fondamentale deviazione dall’individualismo, che ci aiuta a riscoprire i valori persi nei decenni. Raul Zibechi parla della trascendenza del movimento, ovvero la capacità del movimento di trascendere le generazioni attraverso un auto-riflessione. In prospettiva storiografica non c’è eguale, nei movimenti di resistenza. 

Andrea Mazzocco continua, parlando di come conoscere le esperienze zapatiste possa aiutarci nel nostro presente. La loro rivoluzione nasce da una sollevazione armata, ma non è una chiamata alle armi: sono molto consapevoli del fatto che l’uso delle armi è stato necessario, ma che le conquiste successive sono dovute all’organizzazione. La costruzione di un mondo diverso, ed è un grande insegnamento, è un processo continuo e senza fine; e questo obiettivo ha portato ad un confronto molto pratico con i delegati zapatisti, anche durante il loro viaggio europeo, per quanto riguarda le pratiche. A partire dalla vita comunitaria, dalla creazione di cooperative, dal lavoro collettivo, dalla condivisione di beni e terra. Solo con un sostentamento collettivo tutta la comunità può avanzare, e finanziare attività fondamentali che magari non hanno un ritorno diretto. 

Un tema fondamentale è proprio l’innovazione dell’organizzazione. Tutte le conquiste sociali, infatti, che noi guardiamo e osserviamo con ammirazione, sono arrivate con l’organizzazione, con le pratiche. Il percorso degli zapatisti nel mettere in relazione i territori autonomi va nella direzione di creare una comunità forte e autonoma: il livello comunitario è baluardo contro il capitalismo, perché la vita in comunità non è basata sull’accumulazione. Una produzione comunitaria ha diverse caratteristiche, dalla ricerca di sussistenza all’esistenza di un capitale non privato: tutto questo è racchiuso in una logica di aumento di possibilità di vita, su diversi livelli (dalle comunità, ai municipi, ai caracoles). L’obiettivo della produzione comunitaria è rompere l’accerchiamento capitalista, e trovare delle forme organizzative alternative. 

In questa direzione, dice Lorenzo Faccini, è fondamentale l’esempio del caracol n. 12, che prende il nome dall’indigeno che nel XIX secolo guidò una rivolta in Yucatan. Inizialmente non era un caracol, ma le comunità indigene mandavano i ragazzi in questo centro a formarsi, con la possibilità di seguire laboratori pratici ma anche teorici. Il centro era sostenuto e mantenuto dalle comunità stesse, in modo che non fosse necessaria una retta per gli studenti. Ora è entrato a far parte, diventando un caracol, un centro dell’educazione autonoma zapatista. 

Altrettanto importante è la riflessione sul sistema educativo svolta da Lorenzo Faccini. La dimensione educativa è infatti un tassello chiave delle pratiche rivoluzionarie, è il cuore di pratiche politiche complesse, in cui, nel contesto zapatista, sono protagoniste le nuove generazioni. Non si tratta di un aspetto settoriale, tecnico, ma è il centro della resistenza, perché si interseca naturalmente con lo sviluppo delle forme economiche alternative. 

Un esempio calzante è quello dello spostamento da tradizione culturale orale a scrittura: un fenomeno che nei territori colonizzati spesso diventa brutale, anche perché il più delle volte vuol dire privare le popolazioni indigene della propria lingua, che non sempre ha una forma scritta. Questo processo diventa quindi l’ennesima violenza del dominante sul dominato. Al contrario, nelle comunità zapatiste, la cura in questo percorso consente di evitare la perdita di ricchezza, anzi, di aumentarla. La tradizione diventa quindi strumento di rovesciamento del paradigma messicano neoliberale, grazie alla messa in pratica di un sistema educativo autonomo. Risulta essere, inoltre, una resistenza all’interiorizzazione culturale di paradigmi altri da sé. Questo esempio dimostra che i mezzi, come i mezzi linguistici, sono importantissimi. 

In Messico il paradigma della scuola è visto però purtroppo come uno strumento per liberarsi dalla condizione stigmatizzata dell’essere indigeni; i bambini vengono mandati a scuola per farli integrare nell’ambiente messicano, liberandoli dalle tradizioni indigene. Di fatto, però, la maggior parte delle volte non hanno successo, e rimangono come subalterni in città, oppure fanno come da mediatori culturali, che però di fatto diventa modello di rinuncia al proprio retaggio. Le comunità zapatiste, in questo senso, mettono al centro la comunità, che garantisce che il cammino educativo e il cammino di resistenza vadano sempre di pari passo. La scuola in questo caso viene quindi modellata a partire dalla comunità, da ciò di cui la comunità ha bisogno, ed è uno dei tanti aspetti che tentano un’emancipazione da un sistema neoliberista.

Gli autori ci tengono infine a precisare che questi due lavori di ricerca e di approfondimento non sono nati per osservare in maniera sterile un caso di studio, con il portato culturale eurocentrico che inevitabilmente si portavano dietro nel loro viaggio. Invece, vogliono inserirsi in una discussione costante e arricchente, di continuo scambio di idee e informazioni, per comprendere come i valori e le pratiche delle comunità zapatiste possono incastrarsi nelle nostre comunità. Ci sono alcuni temi che le nuove generazioni stanno facendo loro, come la protezione dei territori, l’auto-formazione. Questo può avere senza dubbio delle ripercussioni positive. Determinati concetti, come la dimensione assembleare delle decisioni, possono essere esercizi a lungo termine che ci aiutano a comprendere qual è il bene collettivo. Solo attraverso l’economia e la pratica collettiva si rompe il modello di gratificazione individuale, per intaccare la macchina capitalista.