L'aggressività online

The Communication CUT: cyberbullismo, shitstorm, hate speech

13 / 6 / 2022

Terzo articolo di The Communication CUT, rubrica a cura di Teresa Zavattiero che parla di comunicazione massmediatica, tassello fondamentale della società odierna. Una panoramica dell’odio online, delle sue cause e dei suoi effetti.

Il comportamento online è sempre più influenzato dalle proprietà che caratterizzano il mondo di Internet. Tutto è sempre più immediato: ne risente la soglia dell’attenzione, abituata a fermarsi a titoli accattivanti e a video sempre più brevi, e ne consegue la rapidità di reazione a tali contenuti. Tale rapidità di risposta confluisce nell’aumento di reazioni istintive, guidate principalmente dall’aggressività[1]. In quest’ottica l’aumento della rabbia online è un’anomalia paragonabile al concetto di “fogna comportamentale” che si verifica nell’atteggiamento animale durante una situazione di sovraffollamento[2]. Gli individui agiscono in modo auto ed etero distruttivo, fino a che l’affollamento non diminuisce drasticamente.

Sono sicuramente complici anche la parvenza di anonimato, la distanza, la freddezza del digitale e la non presenza diretta della vittima, l’indebolimento dei “freni” morali, il desiderio narcisistico di apparire o di mostrare una personalità diversa dalla propria, il sentirsi deresponsabilizzati… È chiaro che il comportamento online di una determinata persona può essere totalmente differente dalle sue azioni offline.

Inoltre, se si parla di velocità in relazione alla diffusione di aggressività online, è bene considerare la diffusione di fake news che alimenta tale odio: spesso sono proprio queste notizie a confermare il disprezzo e la condanna verso qualcuno[3]. La rapidità delle reazioni a queste notizie, e il poco tempo che si impiega per una valutazione e una verifica delle fonti, rende difficile verificare una notizia. E per certi versi non importa a nessuno: esprimere la propria opinione è più importante che diffondere notizie vere. Non importa se si tratta di condividere una fake news: il vero messaggio è la propria presa di posizione rispetto a un determinato argomento.

L’aggressività online, a causa di questi numerosi motivi, sfocia in diversi fenomeni. Molti ne confondono la terminologia, definendo “cyberbullismo” qualsiasi commento offensivo, ma sono in realtà atti molto distinti tra loro, e che vedono come protagonisti differenti tipi di utenti. I principali sono cyberbullismo, shitstorm e hate speech.

Il cyberbullismo

Il cyberbullismo è bullismo virtuale: consiste in comportamenti aggressivi ripetitivi e reiterati nel tempo, commessi da una o più persone nei confronti di una vittima incapace di difendersi. I ruoli sono ben definiti e creano un’asimmetria di potere: da una parte c’è il bullo e dall’altra la vittima, ritenuta debole e “diversa”.

La shitstorm

La shitstorm consiste in un numero elevato di persone che, in un breve lasso temporale, manifesta il proprio dissenso nei confronti di un personaggio pubblico, un’azienda, un’organizzazione o un’altra persona. Ciò che caratterizza lo shitstorming è la reazione a catena: c’è sempre un evento scatenante che dà inizio ai primi commenti negativi, questi trovano poi eco nella viralità dei media.

L’hate speech

Il fenomeno dell’hate speech consiste in espressioni di odio e incitamento all’odio, che si verifica non solo sui social media, ma anche nei commenti dei lettori a margine degli articoli su testate nazionali. Gli odiatori colpiscono soprattutto alcune categorie minoritarie o socialmente più deboli: migranti, musulmani, ebrei, donne, omosessuali. Insomma, non c’è una vittima singola e precisa, ma ci si indirizza verso minoranze considerate “diverse” e si colpisce indistintamente per generalizzazione. Solitamente, è un fenomeno che si lega soprattutto alla percezione di eventi internazionali.

È interessante il fatto che da uno studio italiano è emersa una correlazione con i messaggi promossi da personaggi pubblici, politici, uomini di potere e giornalisti. Il linguaggio della politica soprattutto, sempre più caratterizzato da toni intolleranti e discriminatori e dall’aumento dei tweet razzisti e xenofobi, ha un impatto enorme sulla diffusione e la viralizzazione dei discorsi d’odio: ciò non solo crea un clima culturale sempre più ostile al “diverso”, ma legittima la diffusione dei discorsi aggressivi e lesivi dei principi di uguaglianza e di solidarietà, ai quali è ispirata la nostra Costituzione.

La motivazione che sembrerebbe stare dietro questo fenomeno di hate speech è la paura verso la complessità di un mondo che sta andando in una direzione che intimorisce, confonde, o con cui non si è capaci di misurarsi: l’aggressività è infatti una forma primitiva di difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui.

Queste categorie di comunicazione aggressiva sono accomunate da un fattore: l’appartenenza ad una massa. Gli utenti sul web ritengono necessario schierarsi, prendere una posizione. Più che capire, verificare, riflettere, è importante dire qualcosa, parlare soltanto per occupare la scena e, di conseguenza, esistere[4]. E schierarsi dà all’utente la sensazione di appartenere a un grande “clan”, con il quale bisogna combattere per difendere e portare avanti le proprie opinioni. I social network, inoltre, ci inviano messaggi in base alle nostre scelte precedenti: la nostra interazione con essi conferma le nostre stesse preferenze e queste ci vengono continuamente ricordate, rafforzando ciò che abbiamo sempre pensato e che vogliamo di nuovo sentirci dire. Tale affinità di noi con noi stessi ci è trasmessa sempre da un algoritmo. Anche a causa di queste camere d’eco (echo chamber) i social sono strumenti che educano poco al senso critico. Citando Jonathan Franzen, scrittore statunitense: “il risultato è una catena di messaggi in cui, da qualsiasi parte tu ti sia schierato, hai assolutamente ragione a odiare ciò che odi.”

Le Bon già nel 1895 spiegava i motivi per cui un individuo è indotto ad un determinato comportamento quando si sente parte di una massa[5]. Una folla non è il risultato della somma delle singole persone che la compongono, ma un organismo indipendente, entro il quale gli individui passano dalla propria identità personale all’identità collettiva, ovvero ciò che rende quel determinato gruppo sociale distinto dagli altri. Essi non perdono completamente valori, norme e personalità, anzi, una volta usciti dal gruppo tornano all’identità individuale, ma temporaneamente agiscono in termini di valori e norme associate al gruppo. All’interno della folla un utente può quindi lasciarsi trasportare dagli istinti e dalla spontaneità, ed essere indotto a commettere atti contrari ai suoi interessi e alle sue migliori abitudini.

Verrebbe da chiedersi quali siano gli obiettivi e le conseguenze di questo tipo di comunicazione. Partendo dal modello basilare di Jakobson[6] della comunicazione mi sono chiesta: se gli emittenti sono gli odiatori (finora li abbiamo chiamati anche bulli o utenti in generale, ma ora per comodità vorrei chiamarli proprio odiatori), chi sono i destinatari? C’è veramente un destinatario, o il loro obiettivo è comunicare e basta, quindi parlare per sé stessi e per occupare la scena pubblica? Se ci sono altri “attori” all’interno di questo tipo di comunicazione questi sono gli altri membri della cerchia alla quale appartengono, quindi altri utenti con la stessa opinione, ma il loro intento non è comunque comunicare tra loro. È come se il destinatario venisse ridotto a un mero contenitore ricevente del loro punto di vista. Si tratta di un processo più monologico che dialogico, che non punta affatto alla condivisione razionale e costruttiva delle conoscenze, ma è più affine al concetto di comunicazione come strumento di persuasione.

L’hate speech generalmente non colpisce il singolo individuo, ma una minoranza, ed è il fenomeno che più ha influenza sull’opinione pubblica. Esso ha come obiettivo la persuasione, attraverso la narrazione di una storia che ha come punto di forza delle emozioni ben precise: l’odio e la paura. Parliamo quindi di un concetto di cui hanno parlato molteplici teorici: ideologie che fanno uso di narrazioni incentrate sull’emotività a scapito del contenuto[7]. Molti comunicatori, tra cui Paolo Iabichino, affermano che la comunicazione emozionale è la più efficace, perché va a colpire la parte più irrazionale della nostra mente, e che l'emozione più primitiva sia la paura. Ed è su di essa che fanno leva molti personaggi politici.

Sarebbe inutile concludere cercando di trovare una soluzione all’aggressività online. Credo che le mie considerazioni a questo punto riguardino soprattutto la mia preoccupazione riguardo al fenomeno dell’hate speech in relazione soprattutto al linguaggio usato dalla politica. Questo mi angoscia perché negli ultimi anni sembra essere veramente un metodo efficace per acquisire consensi, voti e altre menti persuase da contenuti scorretti.

L’opinione comune è che i provvedimenti debbano riguardare proprio la comunicazione online: si cerca di bloccare i messaggi d’odio una volta che vengono prodotti, censurandoli, eliminandoli. La soluzione a mia opinione deve riguardare la radice del problema, educando e informando su argomenti che riguardano le minoranze. Se nelle scuole ci fossero campagne di prevenzione volte a educare su culture e religioni diverse dalle nostre forse diminuirebbe la paura diffusa verso il diverso. Bisognerebbe incontrare la paura e l’odio e risolverli nel dialogo.

[1] Emanuele Fadda, nel libro Troppo lontani, troppo vicini (2018), affronta il tema della comunicazione digitale dal punto di vista della prossemica. Nella prospettiva della primatologia come modello per il comportamento online, egli afferma che l’etica non avrebbe alcun senso, a scapito dell’empatia e dell’aggressività. Nicholas Carr, invece, nel libro Internet ci rende stupidi? (2011), scrive che la reazione empatica è comunque meno immediata rispetto a quella aggressiva. Effettivamente, secondo la teoria di MacLean (1985), le reazioni più istintive risiedono nel cervello rettiliano, e comprendono istinti aggressivi più che empatici.

[2] Fadda (Troppo lontani, troppo vicini, 2018) riconduce il comportamento aggressivo online a ciò che l’antropologo Edward T. Hall (1914-2009) chiama “fogna del comportamento”, ovvero l’aumento di violenza che si verifica nell’agire degli animali in una situazione di insopportabile affollamento protratto nel tempo.

[3] Matteo Maria Zuppi, cardinale e arcivescovo cattolico, nel libro Odierai il prossimo tuo (2019), affronta la questione dell’odio anche in relazione ai social media. Secondo lui molte fake news sarebbero verosimili o prodotte ad arte per essere falsamente vere: esse avrebbero come fine proprio la diffusione di odio verso qualcuno.

[4] Sia Mario Perniola in Contro la comunicazione, nel 2004, che Zuppi (Odierai il prossimo tuo, 2019), esprimono un concetto molto simile riguardo al comportamento online, sebbene a molti anni di distanza – e, nonostante il primo social network sia nato nel 1997, sappiamo bene che il boom della comunicazione di massa è avvenuto ben dopo il 2004, ovvero quando tutti hanno avuto accessibilità ai mezzi per poter esprimere la propria opinione ed essere sentiti da, potenzialmente, tutto il globo. Gli individui, sui social network, sentono il bisogno di dire qualcosa per “esistere” e per dichiarare la propria presenza. Secondo questa prospettiva non è importante capire, prima di parlare, poiché seguendo le tempistiche online la necessità è quella di intervenire subito: non c’è spazio per riflessioni, bisogna essere protagonisti, anche se per un attimo.

[5] L’opera più nota di Gustave Le Bon, Psicologia delle folle (1895), sebbene scritta oltre un secolo fa, ha introdotto un nuovo attore sociale: la folla, il cui comportamento è nettamente diverso rispetto a quello del singolo individuo e, in un certo modo, anche maggiormente manipolabile.

[6] Il linguista Roman Jakobson (1896-1982) è colui che ha individuato i sei fondamentali della comunicazione: mittente, messaggio, destinatario, contesto, codice, contatto. In questa analisi ho preso in considerazione solamente mittente e destinatario.

[7] Pensiero espresso sia da Mario Perniola (Contro la comunicazione, 2004) sia da Anna Maria Lorusso (Postverità, 2018): il predominio della logica emotiva, a scapito della verità, a scapito del contenuto. Lui ne parla definendo il concetto di “sensologia”, ovvero quell’alterazione dell’ideologia in una nuova forma di potere che cerca consenso fondandosi su fattori affettivi e sensoriali. La Lorusso, invece, analizza il nuovo termine post-verità, attribuendo anche lei a cause emotive il condizionamento dell’opinione pubblica a danno dell’oggettività dei fatti. La post-verità, infatti, riguarda anche – ma non solo – le fake news, ma intacca la comunicazione attuale in maniera più radicale e complessa: essa influisce sul nuovo modo di intendere il dibattito politico e sociale.