Limiti dell'ibrido

Recensione a “Nell’Antropocene” di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola

6 / 8 / 2018

Riprendiamo da Effimera.org la recensione di Paolo Missiroli al volume Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, uscito nel 2018 per i tipi di DeriveApprodi.

Non è facile pubblicare un libro sull’Antropocene. Questo per due motivi: in primo luogo, in pochissimi luoghi (e questa piattaforma è uno di questi) si discute attivamente di questo tema (e in generale della crisi ecologica), che rimane quindi ai margini del dibattito politico-etico (sopratutto italiano); in secondo luogo, il concetto stesso è pervaso da una vaghezza che a tratti sfiora l’inconsistenza che lascia sconfortato chi prova ad avvicinarsi al tema per capirne qualcosa di più. Antropocene vuole dire una molteplicità di cose; è possibile parlarne in una molteplicità di sensi; spesso le critiche e le discussioni che vertono su questo concetto si strutturano intorno a specifiche concezioni dell’Antropocene che ne lasciano completamente da parte altri significati, altrettanto sensati (se non altrettanto comuni). Pubblicare un testo che ha come titolo Nell’Antropocene è dunque già di per sé azione meritoria, non fosse altro perché è un ammirevole tentativo di introdurre una parte del pubblico di lettori al problema.

Chi voglia leggere il libro di Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola si troverà un valido strumento introduttivo ad una serie di posizioni relative all’Antropocene, o meglio, che intendono questo “tempo della fine” (o dell’inizio) in sensi anche opposti. Questo compito introduttivo e didascalico è svolto dagli autori nella prima parte del testo, che riporta dunque, dopo aver spiegato in breve il significato del termine da un punto di vista più legato alle scienze del clima e della Terra, nel breve spazio di un’ottantina di pagine, le posizioni degli ecomodernisti, dei catastrofisti, dei difensori del Capitalocene, e dei naturalisti, per riprendere il lessico dei due studiosi. Emerge già in queste pagine l’idea degli autori a proposito dell’Antropocene. Esso è il tempo della “natura” ibrida, e cioè dello spazio di mescolanza tra natura e cultura, natura ed artificio, che si espande al Globo intero. Tale idea trova la sua esplicazione migliore nella lunga seconda parte, quella che gli autori dedicano all’etica, dove ha luogo una dettagliata e, a parere di chi scrive, originalissima analisi delle posizioni etiche che si possono assumere riguardo al rapporto tra uomo e natura. Ripercorrendo moltissime posizione, assunte ed assumibili, gli autori vanno alla ricerca di qualcosa che non sia antropocentrico, cioè che non faccia identificare il valore a partire dalla centralità dell’umano, ritenendo in questo modo di poter valorizzare il mondodell’Antropocene al di là del valore che attribuiamo o meno all’umano. Se il loro tentativo è senza dubbio interessante, vorrei però sottolineare che esiste tutta una parte dell’antropologia contemporanea (penso in particolare a Viveiros de Castro, ma anche a Philippe Descola) che ha identificato forse non morali, ma deleuzianamente-spinozianamente etiche, ovvero forme di vita che si costruiscono nella maniera più ecologica immaginabile proprio a partire dall’umanizzazione dell’universo. De Castro, in Esiste un mondo a venire descrive proprio queste società radicalmente antropomorfiche e proprio per questo non antropocentriche. Per questi amerindi, tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano.

In ogni caso, i nostri autori giungono ad affermare che l’unico modo per costruire quest’etica non antropocentrica che vanno ricercando è la valorizzazione della contingenza, tanto più presente nell’Antropocene, in forza dell’esistenza pervasiva di ibridi, di composizioni che nella loro assoluta contingenza e quindi fragilità sono da salvaguardare. Come le saline di Priolo o le tubature della Chevron al largo della California, elementi originariamente distruttivi di ecosistemi ma che poi hanno dato a loro volta vita a ricchissimi ecosistemi, brulicanti di vita, composizioni dell’Antropocene. Oppure, utilizzando un termine caro ai due studiosi: monumenti del rapporto tra uomo e natura. L’oggetto prodotto da tale ibridazione ha valore in sé, poiché nella sua contingenza è il datum da salvaguardare, che è che potrebbe non essere più. A questi ibridi si rivolge la proposta etica di Pellegrino e di Di Paola.

Mi pare ci sia un problema in questo tipo di prospettiva. Se la chiave di volta dell’argomentazione sta nella valorizzazione della contingenza in quanto tale, l’Antropocene non è forse il luogo ed il tempo in cui l’interezza delle composizioni naturali (oloceniche) si mostrano nella loro fragilità? La sesta estinzione di massa, in fondo, mostra la contingenza e la accidentalità del leone, del gorilla di montagna e dell’abete dei Nèbrodi. Non che gli autori non se ne rendano conto; solo, non si capisce bene perché questo non dovrebbe portare ad una difesa di tutto l’esistente in quanto tale, proprio perché è contingente. Come si concilia, insomma, questa posizione, con l’idea, spesso difesa dai due autori, che non si tratti di difendere spazi di natura wild o con ogni forma di esistenza in generale? D’altro lato, questo tipo di posizione, e questo è tanto più chiaro dagli esempi che abbiamo evidenziato (sono esempi riportati esplicitamente dai due autori), rischia di divenire, a posteriori, giustificativa di ogni forma di ibridazione. In fin dei conti, la Chevron devastò l’ambiente naturale in cui impiantò le sue tubature. Quale azione poteva essere meno raccomandabile di quella? Eppure, essa ha portato alla nascita di un ecosistema specifico, in quanto tale certamente da salvaguardare. Ma se la posizione diviene quella della valorizzazione di ogni possibile contingenza, non si rischia di avvallare simili azioni in forza della possibile nascita di composizioni così brulicanti di vita? Pare che la potenza del vivente di adattarsi e di proliferare anche dove alcuni umani fanno di tutto per eliminare la vita possa divenire l’arma giustificativa di una costruzione infinita, di un’azione senza limiti perché comunque portatrice di vita. Un’oscillazione, insomma, come sarà chiaro, tra due opposti, forse speculari: da un lato, la difesa di ogni elemento in quanto tale perché contingente, dall’altro il disinteresse verso ogni datum in quanto comunque superabile da nuove forme di contingenza. Non dico certo che questa sia la posizione dei due autori: mi chiedo solo se non possano verificarsi impasse di questo tipo quando si ponga al fulcro di tutto quello che è senza dubbio un valore fondamentale in un ragionamento che voglia mettere al centro l’ecologia, e cioè la contingenza.

Nella terza ed ultima parte gli autori passano alla politica, per tirare ancora in ballo il vecchio Deleuze. In prima battuta riconoscono la crisi della politica liberal-democratica di fronte alle sfide tipiche dell’Antropocene ed in generale della crisi ecologica, identificando diversi punti di caduta della difficoltà degli stati occidentali ad occuparsi di questa nostra crisi: responsabilità democratica, legittimità democratica, neutralità liberale. Senza l’ambizione di proporre soluzioni definitive a questa sfaccettata crisi Di Paola e Pellegrino propongono quello che secondo loro è un primo passaggio verso una “cittadinanza attiva” all’interno dell’Antropocene. Essi, ritenendo che, al fondo, grande spazio nella storia delle democrazie liberali abbia il “progresso morale” dei cittadini, i quali, se trasformati moralmente, possono imporre l’agenda ad una politica che per definizione segue i loro interessi manifesti e rivendicati, immaginano una “repubblica dei giardini”, nella quale un primissimo passo possa essere l’implementazione di quelle pratiche di orti urbani e di coltivazione interna agli spazi urbani (luoghi principe di quella dimensione ibrida da essi identificata come fondante l’Antropocene) che possano dare luogo ad un rinnovato interesse verso i temi ambientali. Una nuova forma di “cittadinanza attiva”, dunque, valida al tempo dell’Antropocene.

In questa ultima parte mi pare emergano con più forza alcune difficoltà inerenti all’approccio ed al tipo di “campo di azione” all’interno del quale il libro è pensato, nonché altri punti indubbiamente validi. Senza dubbio (e su questo è presente nel testo una valida critica a Bruno Latour) l’Antropocene impedisce di pensare la politica nella forma liberale, anche per i motivi identificati dagli autori. E’ quindi necessario porsi le domande che gli autori si pongono sul superamento di alcuni luoghi comuni delle liberal-democrazie. Allo stesso tempo, è certo che una politica all’interno dell’Antropocene non possa prescindere da una forma di etica, proprio nel senso di una forma di vita differente da quella generalmente moderna che (secondo una categorizzazione molto ampia e forse da rivedere nella sua genericità) ha abitato gli ultimi secoli. Torneremo su questo in conclusione.

D’altra parte, se i due autori rimangono pienamente interni alla prospettiva delle democrazie liberali e dello Stato (sottolineando, a mio parere con acutezza, che non può esistere una politica dell’Antropocene che non coniughi locale e globale), in queste pagine essi parlano di resilienza contro conservazione propendendo per la prima, in virtù di quel paradigma dell’ibrido che abbiamo visto in precedenza. E’ noto come il concetto di resilienza sia quanto di più problematico possa esserci da un punto di vista ecologico e come esso, unito a quello di adattamento sia alla base di tutti i discorsi ecomodernisti in primo luogo e di quelli legati alla green economy (per una critica approfondita di queste forme concettuali si veda il testo di Romain Felli, La grande adaptation, Seuil, 2016 ). Sembra proprio, in questi ultimi passaggi, che quell’oscillazione che abbiamo visto poco sopra tenda pericolosamente verso un giustificazionismo della trasformazione e della costruzione infinita. Abbiamo la prova che questo composizionismo ha un rischio teorico, certo non inevitabile, di non poco conto: quello di divenire politicamente e concettualmente poco servibile per identificare una qualsivoglia (anche relativa, modulabile) forma del limite, concetto che, appunto, non sembra piacere molto ai due autori, che rifiutano senza remore tutto il discorso relativo alla decrescita. D’altronde, i due autori sono chiari nel sottolineare che non si può ridurre la crisi ecologica alla dinamica capitalistica, nonché che ogni discorso che voglia fare seriamente i conti con la crisi ecologica non possa che essere di fatto pro-capitalistico, cioè, dicono Di Paola e Pellegrino, perché gli investimenti per politiche energetiche alternative non possono che derivare da investimenti, le cui risorse sono estraibili solo attraverso un’opera di convincimento dei capitalisti stessi, con i quali quindi è necessario venire a patti. (p. 217) Non esattamente un’idea conflittuale di politica, possiamo dire. La politica non è un rapporto di forza, è un’operazione di convincimento. Da questo punto di vista, la “politica dell’Antropocene” non pare così diversa dalla politica tipica della Terza Via degli anni ’90.

Si possono identificare due problemi in queste posizioni, in un libro che comunque conserva intatta la sua validità analitica ed il suo interesse (nonché la sua originalità). Il primo lo definirei di natura politica. Da questo punto di vista sembra che per i due autori la “politica dell’Antropocene” non possa partire che in una cornice che è quella della cittadinanza attiva, in cui i cittadini prenderanno coscienza (ma c’è davvero il tempo per aspettare tanto, nell’Antropocene?) della necessità di conservare l’ibrido e faranno leva sui loro rappresentanti perché rispettino le loro richieste, a questo punto “ecologiche”. Non pare, va detto, una grande soluzione (per quanto i due autori relativizzino sempre la portata delle loro proposte). Il problema mi pare, in parte, legato alla modalità con cui i due autori concepiscono l’istituzione. Secondo loro, le istituzioni sono sostanzialmente quelle già esistenti e al massimo le loro idee a proposito di “nuove istituzioni” sono quelle di tavoli di studio dei problemi delle generazioni future o ministeri specifici. Non c’è traccia né delle discussioni su neo-municipalismo ed ecologia, né di quel pensiero dell’istituzione che sta nascendo in giro per il mondo. E’ forse il concetto di comune che manca in questo tipo di approcci. Naturalmente, però, parlare di comune, anche e sopratutto in senso ecologico, significa immediatamente prendere come punto di attacco il capitalismo. Se si parlasse di comune a proposito dell’Antropocene, non per forza si darebbe tutta la “colpa” dell’Antropocene al capitale; ma certamente se ne vedrebbe l’uscita in una critica radicale del capitalismo. Non ci si potrebbe certo rammaricare, come fanno di due autori, del fatto che spesso i movimenti ecologisti si fondono e si intersecano con quelli che criticano il capitalismo come sistema di sfruttamento. E dunque è ancora il comune che si affaccia qui alla prova della politica e del legame possibile tra ecologia e politica. E che si affaccia in una duplice veste, politico-etica (ma non nel senso che i due autori danno a quest’ultima parola): il comune sarebbe un’istituzione ma anche (anzi, proprio per questo) una forma di vita, un’etica (ma nel senso di Spinoza, e non di Kant), dunque immediatamente politica. Non si tratterebbe di convincersi per convincere, ma di divenire altri.

Il secondo problema, è di natura direi più filosofico-teorica. Come si è ripetutamente detto, il fulcro della proposta dei due autori sta nel riconoscimento della natura ibrida dell’Antropocene e nel conseguente obbligo morale di riconoscere la contingenza degli ibridi dell’Antropocene. Abbiamo visto i possibili problemi che questa posizione può suscitare, come l’oggettiva oscillazione verso il paradigma della resilienza che si trova alla fine del testo. Si tratta forse, da parte di chi scrive, di una fissazione, ma non si potrebbe identificare il problema proprio in questo modo di declinare il tema dell’ibridazione? E cioè, pensare la composizione come indefinitamente data a partire dall’incontro dell’infinità degli elementi che popolano il mondo (umani e non-umani), tutti interni alla natura e quindi tutti “natural-culturali” non porta forse a non dare gli strumenti per pensare un relativo limite, un confine modulabile, di questa composizione? In fondo, parlare di Antropocene, oltre che parlare di ibridi, non vuol dire anche parlare di ciò che non si può continuamente costruire?Forse il punto è proprio questo. Tracciare una linea si può fare solo se ci si ricorda che la contingenza di cui tanto e giustamente parlano i due autori, è davvero propria di tutto l’universo, almeno nelle sue forme specifiche (altri avrebbe detto, dei suoi modi). E dunque anche di quei particolari ecosistemi e vite che devono essere colte nella loro specificità, e non all’interno di un quadro che parli di una generica potenza della vita, in quanto tale sempre ibridabile e sempre in grado di adattarsi alle tubature della Chevron. Si tratta forse, e questo non nega certo una prospettiva che valorizza l’ibrido ma prova a completarla, di smettere di concentrarsi sempre sulla composizione indefinita, che non pone limiti alla costruzione, ma di pensare l’Antropocene a partire da quella parte incostruttibile della Terrache è forse la vera bandiera di chi combatte in una Valle, in un campo di ulivi, o in una foresta Amazzonica. Non certo una Terra originariamente data, non certo la wilderness: ma quello spazio di gioco tra Dato e Azione, tra Attivo e Passivo, tra un mondo con le sue regole e la sua autonomia e un essere umano parte di questo mondo, su cui ed in cui solo può darsi costruzione (inevitabilmente necessaria ed anche positiva, come lo è la tecnica). E senza il quale spazio, non potrà più esserci, in futuro, alcuna costruzione.