L'inesauribile bellezza della vendetta

“Tutti i luoghi sono buoni per concepire un film, ma solo uno è il luogo perfetto: il viaggio”. Paolo Sorrentino

21 / 10 / 2011

Al festival di Cannes 2008 Sorrentino vinse il Premio della Giuria con Il divo quando presidente della giuria era Sean Penn. La leggenda vuole che la sera della cerimonia Penn gli abbia detto: “quando vuoi, dove vuoi, io ci sarò”. Sta verosimilmente qui la radice più profonda di This must be the place,il film “americano” di Sorrentino, presentato con successo a Cannes 2011. E' da questa attestazione di stima che inizia a prendere forma un'idea nata osservando il mondo dal finestrino di un aereo. Dall'incontro fortunato tra un attore statunitense due volte premio Oscar, a sua volta regista, e uno tra gli autori italiani più interessanti (e dalla robusta iniezione di 28 milioni di dollari) prende vita sullo schermo un racconto che, mettendo d'accordo addetti ai lavori e pubblico sulla sua indubbia carica di fascinazione, genera contestualmente perplessità e spiazzamento. Cauti certi Ayatollah della critica. Parte del pubblico esce dalla sala beata e nello stesso tempo disorientata (consiglio visione in originale sottotitolato). Perché diverte strappando più di una risata, ci accompagna da Dublino al Michigan fino al New Mexico impreziosito dai colori saturi della fotografia di Luca Bigazzi, ma ci costringe a interrogarci sulla sua ragione d'essere, sul suo perché.

Penn fa Cheyenne, rockstar in disarmo, copia patetica di Robert Smith dei Cure. Di suo ci mette la parlata flebile, lo sguardo depresso, la camminata piegata. Appresa la morte di un padre che non vede da trent'anni causa assenza di affetto lascia in Irlanda la moglie Frances McDormand, vigile del fuoco concentrato di ironia, senso pratico e filosofia, la giovane amica dark Eve Hewson, la pelota e le quotazioni di borsa. Sente di dover tornare negli States, dove la sua carriera è terminata. Ha deciso di scoprire chi ha perseguitato il suo genitore ebreo in un campo di prigionia. E di vendicarlo. Dalle case basse della periferia dublinese ai grattacieli del sentiero dei diamanti nella 47ma West di Manhattan per scovare le tracce di un uomo che forse è morto da tempo. Un percorso di ri-formazione dove passato e futuro si intrecciano: l'irriducibile cacciatore di nazisti ha l'ufficio a pochi passi dalla sala dove David Byrne celebra la loro antica amicizia con una versione big band del brano che è il titolo del film (Sorrentino aveva 13 anni quando nel 1983 uscì “Speaking in Tongue”, l'album epocale che lo conteneva) in una sequenza che da sola vale il biglietto. Da questo momento Cheyenne inizia con la consueta lentezza, impercettibilmente, inconsapevolmente, attraverso progressivi slittamenti della percezione di sé, a togliersi la polvere del passato di dosso.

Sorrentino ci lascia scivolare attraverso la mancanza di plausibilità degli snodi narrativi scovando l'umanità nascosta nelle pompe di benzina, dietro i banconi dei dinner più sperduti, negli occhi umidi di una madre che guarda cantare il suo bambino vittima del junk food. Nel sorriso a tutta dentiera di Harry Dean Stanton, il personaggio che ha inventato le rotelle delle nostre valige da viaggio (ancora), ma anche l'attore che ci rimanda dritti tanto a quel Paris, Texas (Wim Wenders, 1984) che del viaggio costituisce icona indiscutibile quanto a Una storia vera (David Linch, 1999): un viaggio che è inseguimento lento, senza velocità. Ma anche sguardi crudi sulla cultura stelle & strisce (“c'è differenza tra uccidere e uccidere con la certezza di restare impuniti...”). Cortocircuiti, scarti, connessioni. Subliminali. Ellissi contro linearità. Maschere e Pugnali. Questo bambino mai cresciuto e triste (“ma non puoi essere depresso se dopo 35 anni fai ancora l'amore come fosse la prima volta...”) che a 15 anni ha deciso che suo padre non gli voleva bene rompe la rigidità del suo corpo solo sulle note di “The Passenger” di Iggy Pop, classe '47, come lui sopravvissuto a droghe e alcool, ma riesce senza parole a parlarci di sentimenti e istinto. Di assenze inconsapevolmente dolorose e di riavvicinamenti oltre le soglie del non ritorno. Del passaggio all'età adulta e dei suoi indecifrabili processi di aggiustamento. Dell'innocenza dello sguardo e della complessità di quel luogo cinematografico per eccellenza che è l'America. Dell'essere la punizione dell'ingiustizia e della vessazione, qualsiasi sia la loro forma, sentimento connaturato all'essere umano. Perché nessuno sfugge al suo passato, ma tutti abbiamo tra le mani il nostro destino. E la vendetta è nostra.

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