Lo slow journalism non è (solo) lentezza!

Presentazione di "Slow journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?" con Daniele Nalbone a Sherwood Festival

6 / 7 / 2019

Sabato 26 giugno, nello stand Books & Media, è stato presentato Slow journalism. Chi ha ucciso il giornalismo? (Fandango, 2019), scritto da Daniele Nalbone e Alberto Puliafito. Alla presentazione ha partecipato uno degli autori, Daniele Nalbone, giornalista romano di lungo corso, attualmente responsabile web di Paese Sera e co-fondatore del progetto Il Salto. A lui sono state rivolte alcune domande

Partiamo dal sottotitolo: chi ha ucciso il giornalismo?

Chi ha ucciso il giornalismo è la traccia di questo noir che abbiamo scritto sul mondo dell'informazione. Chi ha ucciso il giornalismo è una domanda – fortunatamente - retorica, e la risposta che diamo quando ci fanno questa domanda è che forse non c'è ancora nemmeno il cadavere del giornalismo. Però di una cosa siamo certi: ci sono tanti, tanti maggiordomi. Tante persone, tante realtà, tante case editrici, tanti editori, tanti organi d'informazione che stanno cercando di uccidere il giornalismo.

Se noi abbiamo fatto questo lavoro è perché crediamo che il giornalismo non sia ancora morto, ma ci siano delle sacche di resistenza importanti per tracciare un nuovo modo di fare questa professione. Che poi "nuovo modo", già questo è sbagliato. C'è un modo giusto per fare questa professione.

 

Voi avete trattato molto il giornalismo nell'era social. Quali sono gli intrecci possibili tra il giornalismo digitale e il giornalismo cartaceo?

La sfida è tutta lì: cercare di costruire un modello unico di informazione. Intanto smetterla (e mi riferisco alle grandi redazioni) di parlare dei “ragazzi del web”, per esempio,  già sarebbe un grande passo in avanti. La vera sfida è quella di capire che in primis non c'è un giornalismo di serie A e un giornalismo di serie B, ma c'è un giornalismo, uno solo, e non conta la piattaforma sulla quale lo si porta avanti.

E poi c'è la sfida totale, globale, di creare dei modelli di business che siano realmente sostenibili per un'informazione che noi in questo lavoro abbiamo definito buona, giusta e pulita. Perché l'informazione che stiamo vedendo oggi non è buona, non è giusta e non è pulita, e questi tre aggettivi non sono buttati a caso, sono aggettivi che dovrebbero accompagnare la professione di ogni giornalista che ha a cuore una cosa soltanto: i lettori. E quindi ricordarci che i picchi di traffico sul web, le cose virali, le condivisioni, i “mi piace” non sono numeri, ma persone che cercano un'interazione con l'organo di informazione. Se noi li riduciamo a numeri perdiamo qualsiasi tipo di battaglia.

 

Tu in particolare hai seguito il caso Noa (la diciassettenne morta in Olanda alcune settimane fa ndr), anche sul Paese Sera. Com'è stato trattato, in particolare dai media italiani?

Il caso di Noa è il caso esemplificativo dell'informazione italiana malfatta. Parto da un principio di base che doveva governare quella notizia: si tratta della morte, che fosse suicidio o eutanasia nel momento in cui è arrivata la notizia non doveva importare, di una ragazza di diciassette anni. Quindi una minorenne, e tutte le nostre carte deontologiche dovevano farci dire una cosa soltanto: non è una notizia da dare in pasto al pubblico, perché si tratta di una minorenne.

Noi invece abbiamo preso le fotografie, le abbiamo usate, abbiamo cavalcato la non notizia dell'eutanasia affidandoci alla classica filiera dell'informazione web, dell'informazione veloce, dell'informazione vittima di quello che abbiamo chiamato istantismo.

Un organo di informazione locale dà una notizia sbagliata, questa notizia vola nel Regno Unito sul Daily Mail - e già lì ci dovrebbe scattare un campanello d'allarme -, per qualche motivo l'Ansa la ribatte e scatta nella testa dei giornalisti italiani «l'ha data l'Ansa, tana libera tutti».

Nessuno si è preso la briga di fare una cosa semplicissima: collegarsi sui media olandesi (visto che su facebook la notizia è stata data con i classici commenti "la notizia che scuote l'Olanda") e scoprire che in Olanda di quel caso non se ne parlava minimamente.

Noi abbiamo parlato di Noa, abbiamo parlato di eutanasia, quando invece è stato il caso di un suicidio scelto da una ragazzina che non ce la faceva più a vivere la sua vita, e l'abbiamo data in pasto all'informazione. Abbiamo addirittura portato il Papa a parlare di quel caso, tanto è finito sulle prime pagine di tutti i giornali.

E ci sono due casi particolari per farci capire la follia di quel momento: uno è Open, il giornale fondato da Mentana, che dà la notizia, il giorno dopo arriva la smentita di una non notizia, e dice "smentita la stampa internazionale". No, ti sei smentito tu, dodici ore prima sulla bacheca di Open c'era. E Repubblica che dà la notizia in prima pagina, e il giorno dopo - non contenta - fa una cosa ancora peggiore, cioè il diario del loro inviato in Olanda che inizia dicendo: «Sono andato a casa, ho citofonato, non mi hanno aperto».

Siamo andati addirittura a citofonare a quella famiglia.

 

Questo credo sia un caso che ci dovrebbe far riflettere, poi su alcuni temi ci ritorneremo. C’è una chicca che vorremmo raccontare questa sera: ci doveva essere un capitolo in più in questo libro. Un capitolo che sarà sicuramente tema di altri libri che scriverai, che scriverete. Un capitolo sul MacGuffin. Parliamo di immagini, dell’uso delle immagini, ma che cos’è il MacGuffin?

Parto da questa precisazione: questo libro ha solo due nomi in copertina, ma è un libro collettivo. Ci sono tanti colleghi che ci accompagnano quotidianamente nel loro lavoro, in particolare la redazione di Slow News di cui Alberto è direttore, e Andrea Coccia, uno dei fondatori di Slow News, che nel 2015 fece un pezzo sul MacGuffin.

Erano i giorni in cui si discuteva della famosa foto di Alan, il bambino curdo morto in spiaggia, e lui citava il MacGuffin, che è una pratica cinematografica inventata da Hitchcock.

Per farvela capire, è un’immagine che è fondamentale all’interno di una storia, ma non così fondamentale per lo sviluppo della storia stessa. L’esempio più famoso è la valigetta di Pulp Fiction, per intenderci: tutti sappiamo che c’è questa valigetta, addirittura il protagonista ad un certo punto la apre e ne resta abbagliato, ma nessuno di noi ha mai saputo cosa ci fosse in quella valigetta. E quella valigetta non è importante per la trama. Ecco, noi stiamo riducendo l’uso delle immagini a questa cosa: da un lato rumore di fondo, dall’altro un elemento che distrae ma non è così importante, su cui confrontarci ma che non ci dà il taglio della notizia, e l’effetto che si viene ad avere è che tutto è incentrato sulla discussione: è da pubblicare o no? Quella foto del padre e del bambino morti al confine col Messico, è da pubblicare o no?

Quindi il dibattito si sposta su un altro elemento. Non si parla dei flussi migratori. Non si parla dei muri. Si parla dell’uso di quell’immagine. E quello che succede nella nostra testa è molto semplice: si parte dalla storia che occupa i primi dieci minuti dalla visione di quella foto  a una seconda immagine in cui non diventano più il bambino e il padre, ma un bambino e un padre.

Avete visto la foto del bambino con il papà morti? E ci spostiamo totalmente a discutere di altro. Ecco, questo è quello che sta facendo l’informazione (soprattutto in Italia) oggi. Anche l’uso delle immagini forti porta l’attenzione dei lettori su un altro piano di discussione. L’esempio che faceva Andrea Coccia è geniale: anziché essere gatti che cacciano topi siamo cani che riportano bastoni. Ecco, questo sta avvenendo con quest’uso delle immagini, con questa pornografia dell’immagine. Siamo talmente tanto accecati che perdiamo il filo del discorso.

 

E veniamo ad un’altra questione che toccate in questo libro, la toccate in più punti, ed è un tema dannoso per il giornalismo: quello della verità. Noi ad esempio da soggetti militanti che fanno informazione ci siamo sempre approcciati al tema della verità senza mai assolutizzarlo. La questione della verità è una questione spinosa: come la affrontate nel vostro libro, e tu personalmente nella tua carriera di giornalista?

Cerco il capitolo per leggervi una cosa divertentissima sul tema della verità. Noi partiamo da un dato di fatto, che la verità non esiste. Non c’è un giornalista depositario della verità, addirittura è la legge della stampa del’63 che dice che il giornalista deve attenersi alla verità sostanziale dei fatti, proprio assumendo il fatto della fallacia del giornalista. Se io e te andiamo in un luogo e raccontiamo la stessa notizia, la possiamo raccontare in due modi diametralmente opposti, e nessuno di noi magari sta mentendo.

Questo è un esempio, ma l’altro esempio può essere: se io vado in una zona terremotata e punto la telecamera solo e soltanto sui cantieri in costruzione posso farti credere che la ricostruzione è in corso. Se la sposto sulle macerie posso farti credere che la ricostruzione non è mai iniziata. Quindi, come ci muoviamo in questo emisfero? Un giornalista che punta solo sulle macerie non sta dicendo una bugia, le macerie ci sono, ma al tempo stesso c’è la ricostruzione in corso. Quindi noi analizziamo questa situazione in una maniera molto fredda, cerchiamo di attenerci alla fiducia che il giornalista deve conquistare nei lettori, e il rispetto che deve avere del proprio pubblico. Un rapporto diretto tra il giornalista e il pubblico. Se io ti leggo è perché ho fiducia in te, ho fiducia in quello che mi dici, ho fiducia nella persona che magari conosco, se si tratta di un rapporto amicale o più profondo, e sfruttare questa fiducia ma al tempo stesso rispettarla. Essere autorevoli in quanto tale. Non voler ergersi a depositari della verità, ma a colui che ti racconta una storia, e se te la racconta lui di quella storia ti puoi fidare, e di quel giornalista ti puoi fidare, e quindi praticare determinate regole che noi abbiamo messo tra virgolette per iscritto in un manifesto, ma che posso racchiudere semplicemente in una cosa: nella capacità di ammettere l’errore quando si sbaglia ed è quello che dovrebbero fare molti giornali sui social.

Purtroppo nelle redazioni è pieno - quando arrivano i commenti sotto un articolo - di giornalisti che scuotono la testa e dicono (lo dico in romano) «oddio che rottura de coglioni questo qua». Invece no, si può tranquillamente rispondere a quel commento, ri-argomentarlo, magari è una richiesta di informazioni in più, magari è una richiesta di chiarimento, e quindi recuperare quell’elemento.

Il giornalismo è relazione. Io ascolto Radio Sherwood perché mi fido di Radio Sherwood, mi fido dell’informazione che dà Radio Sherwood. Paradossalmente io, conoscendovi, sul corteo sulle navi, quando c’è stata la nave che si è scontrata contro la banchina, non dovevo verificare la notizia perché se l’avete messa voi mi fido, mi fido non perché vi conosco ma perché sietelì. Siete fonte primaria per quanto mi riguarda. Se dite che a Venezia è successa quella cosa, io mi fido di voi.

Ecco, noi la incentriamo molto su questo la verità, sul recuperare fiducia da parte del giornalista nei confronti del proprio pubblico (in questo caso parlo da pubblico a testata d’informazione). Quello che abbiamo smesso di fare pubblicando la qualunque su qualunque argomento, giornalisti che scrivono di tutto, è stato proprio questo, perdere la fiducia. Di bufala in bufala, di notizia che non ti piace in notizia che non ti piace perdi la fiducia.

 

Io ti ringrazio per la fiducia che ci poni. Trattate anche di altre questioni importanti, ad esempio quella dello sfruttamento della figura del giornalista, che può sembrare un tema secondario, ma in realtà scopriamo essere un tema primario. Il punto di vista è quello della crisi del giornalismo sul piano professionale, la figura del giornalista che è meno retribuito, che è sempre più precario, e qua andiamo incontro anche ad un’altra questione: il fallimento della Carta di Roma ad esempio. Parlate di condizioni lavorative, parlate di sfruttamento, come si intreccia tutto questo con il resto delle questioni?


La qualità delle condizioni di lavoro è estremamente connessa con la qualità del prodotto giornalistico. Gli esempi sono molto semplici da fare: se i nuovi pini editoriali dei siti all news prevedono 100 articoli da fare al giorni – perché è questo che chiedono gli inserzionisti pubblicitari – e la redazione è composta da 10 persone, significa che ognuno deve scrivere almeno 10 articoli. Con una giornata lavorativa di 8 ore, significa che il tempo a disposizione per ogni notizia è all’incirca 20 minuti. Già qui si capisce come la qualità del lavoro influisca sulla qualità del prodotto. Il secondo punto è il seguente: visto che servono redazioni molto numerose per fare molti articoli, si riduce la paga dei giornalisti.

I nuovi editori, quelli che guidano le classifiche oggi e guadagnano 9-10 milioni di euro l’anno, hanno avuto dalla loro parte un sindacato che, stante la crisi del giornalismo, ha accettato tutto. Fino ad arrivare alla creazione – questo può sembrare meno interessante, ma vi assicuro che è fondamentale per capire la produzione giornalistica – di un contratto che si chiama USPI-FSNI. Si tratta di un contratto la cui retribuzione è di circa 800/1000 euro al mese, nato per quella che in gergo è chiamata “la stampa dei preti” e poi è stato applicato ai più importanti siti di informazione. Questo perché si continua a credere che è meglio avere tanti giornalisti pagati poco che il numero giusto pagato il giusto.

È solo così che questo sistema economico si riproduce, leggasi il numero di iscritti a un sindacato, il numero dei versamenti all’INPGI (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani ndr). Quello che si sta creando si regge sulla logica di quello che abbiamo definito “contratto per lavoratori poveri”.

Tutto questo è estremamente connesso con il mondo dell’informazione, perché con 1000 euro al mese e dovendo fare 10 articoli al giorno che tipo di informazione si produce? Un’informazione di scarsissima qualità, e il risultato è davanti agli occhi di tutti.

 

C’è un altro capitolo he incuriosisce tanto, anche per il titolo: che cos’è la confusione dell’istantismo?

Il motivo per cui abbiamo scritto questo libro - oltre che sentirci, come ci hanno detto i più presentazioni, dei “pentiti di mafia”, perché questo mondo lo abbiamo creato anche noi e siamo stati nelle direzioni di siti allnews per tanti anni – è stato l’esserci resi conto dell’assenza della teoria nel giornalismo. Noi abbiamo subito la rivoluzione digitale nel giornalismo senza minimamente capirla; quindi immaginate la scena di chi dice «voglio aggiornarmi», va in libreria e scopre che non c’è un libro che possa farlo.

Allora abbiamo detto: «non possiamo fare un libro per aggiornare noi stessi». E allora abbiamo provato a spiegare ai lettori quello che sta avvenendo, così si rendono conto e magari la smettono di pensare a qualche potere occulto che sta dietro le fake news e capiscono che è un intero sistema che sta collassando.

Ci siamo resi conto che non esisteva in italiano un termine che rendesse al meglio il problema principale. E allora abbiamo creato istantismo, questa patologia che è insieme del lettore e del giornalista.

Per spiegarla prendiamo quello che è accaduto a Roma qualche notte fa: scossa di terremoto e la gente, al posto di preoccuparsi di uscire di casa, si è fatta prendere dalla smania di controllare subito magnitudo ed epicentro. Poco dopo internet si è riempita di articoli con titoli come: «terremoto a Roma: è stato sentito dai cittadini, ancora sconosciuta magnitudo ed epicentro». Ma che informazione è? Risponde solo alla consapevolezza che i lettori in quel momento cercheranno queste informazioni sui motori di ricerca.

Questo è l’istantismo: riempire internet di link che non sono notizie, ma sono i luoghi di atterraggio della curiosità dei lettori. Poco importa se il contenuto c’è, l’importante è creare la scatola in cui far arrivare i lettori.

Capiamo quanto è inquietante tutto ciò? Non tanto cercare l’hashtag “terremoto”, che è una cosa normale, quanto che nelle redazioni scatti il panico per accaparrarsi articoli del genere. E così vengono prodotti anche 4 articoli con url simile, ad esempio “terremoto oggi Roma”, “terremoto ultim’ora Roma”, e via dicendo.

 

Arrivati a questo punto ti chiediamo: che cos’è lo slow journalism? È un modello? Un metodo?

Alcune volte abbiamo pensato di aver sbagliato titolo, perché adesso ci prendono tutti per lumache. Se qualcuno deve fare un sito di informazione non ci chiama perché crede che ci mettiamo 6 mesi a scrivere un articolo.

No, slow journalism non è un prodotto, è un metodo di lavoro: si deve essere slow journalist anche sulle breaking news. Semplicemente, il discorso è non fare l’articolo “Terremoto, ultim’ora Roma” finché dati ufficiali non abbiano detto dov’è stato quel terremoto, l’epicentro, se ci sono stati danno. Immaginate il pericolo che può creare una situazione in cui gli articoli convogliano l’attenzione su Roma, mentre un’altra località meno famosa viene distrutta. Quindi bisogna aspettare di avere una notizia reale.

Noi spieghiamo come ci si può muovere nell’agenda delle breaking news, in particolare con un esempio: quello dell’attentato alla maratona di Boston. In quel caso sono iniziati sui vari social a spuntare video dell’esplosione, provenienti da qualunque parte del mondo (l’importante per ottenere un clic è mettere una qualsiasi immagine di un’esplosione). Un gruppo di giornalisti ha pubblicato il primo video dell’attentato; hanno trovato un video in rete, uno di loro era di Boston ed ha riconosciuto la città (la redazione del giornale era a New York), hanno individuato la persona tramite il feed del video postato, hanno verificato che quella persona si trovasse realmente a Boston in quel momento, hanno trovato su facebook il nome della figlia e l’hanno contattata, questa ha dato loro il numero della madre e si sono fatti raccontare tutta la vicenda. Tempo: 8 minuti. In 8 minuti hanno verificato che quel video fosse realmente dell’attentato alla maratona di Boston.

Quando si sa usare il mezzo con cui si lavora, si possono verificare le notizie in poco tempo. Quindi slow journalism è anche un appello alla formazione dei giornalisti, per recuperare un’informazione buona, giusta e pulita.

 

Voi avete insistito tanto sul fattore “tempo”, proponendo nel libro anche un Manifesto in 10 punti…

Io e Alberto ci siamo – e questi sono i casi della vita – ci siamo incontrati la prima volta a L’Aquila, sulle macerie del terremoto; io per Liberazione e lui per un documentario che stava facendo sulla protezione civile. Ci siamo rincontrati, quando ciascuno aveva smesso la propria esperienza lavorativa, proprio grazie al Manifesto per lo Slow Journalism, che era stato partorito nella redazione di Slow News, con Il Salto lo abbiamo adottato e poi è diventato una parte fondante di questo libro.

La prima regola dello slow journalist è: il tempo è l’unica ricchezza che abbiamo. Il tempo è l’unica cosa che ci è rimasta per verificare una notizia, per raccontarla ed è quello che noi chiediamo ai lettori: il tempo di leggere. Il tempo è un elemento finito, che se noi riempiamo di spazzatura, il lettore preferirà trascorrerlo altrove, quindi non informandosi.

Se noi diamo importanza al nostro tempo per la produzione di un articolo e a quello del lettore per la sua lettura, stiamo facendo il giusto lavoro, riconoscendo al tempo il valore centrale che ha in questa società.

L’invito è sì a rallentare, specie quando si tratta delle breaking news finché non se ne è certi, ma anche a dare importanza al tempo che i lettori ci concedono leggendo i nostri scritti o guardando i nostri video.

Nelle 10+1 regole, l’ultima recita: senza la fiducia di chi legge, chi scrive non è nulla. L’invito è quello di recuperare passione e ridare importanza a questa professione, dando rispetto a chi è oggetto del nostro racconto e alle persone che ne usufruiscono.

 

Secondo te è con la cooperazione che ci possono essere nuove possibilità e orizzonti?

Questo libro è già un esempio di quello che dici, perché è cooperazione tra tante persone. Il libro nasce da una collaborazione tra me e Fandango, quindi dovevo farlo solo io. Appena mi ci metto a lavorare ho subito pensato di chiamare Alberto e farlo insieme, perché due punti di vista sono già un primo confronto per far partire quello che speriamo diventi un movimento. Noi sentiamo che nell’aria, nel nostro mondo, c’è qualcosa. Che per il momento è malcontento, insoddisfazione, economica e professionale.

Noi crediamo fortemente sia nella cooperazione e lo dimostra il libro, i progetti che facciamo insieme con i nostri rispettivi gruppi di collaboratori -, ma al tempo stesso crediamo in quella che possiamo definire coopetizione. Non dobbiamo necessariamente viaggiare sullo stesso binario; possiamo farlo su due binari paralleli, ma esserci utili allo stesso modo. Per esempio, capendo qual è un collega di cui fidarsi, con cui fare squadra e poi due prodotti diversi. Oppure capendo su quali sponde giocare, perché se una notizia buca su un organo mainstream vince anche l’organo d’informazione più piccolo, perché c’è più possibilità di far emergere quella voce visto che a bucato il tema.

La cooperazione è, quindi, anche quella che non è diretta. Poi è chiaro che la mia storia e quella di Alberto dicono che l’unico giornalismo in cui crediamo sia quello cooperativo. A me di farcela da solo non interessa, non sono una persona che sta a proprio agio diventando capo-redattore di non si sa cosa e sto molto meglio in un clima di squadra, con un obiettivo.

Io penso che il giornalismo oggi debba avere innanzitutto degli obiettivi. Noi abbiamo scritto che essere slow journalist è una forma di attivismo, perché pensiamo che si possa realmente fare attivismo nel giornalismo, con il giornalismo e che modelli di business possano nascere proprio intrecciando le capacità di ognuno.

Sul fronte cooperativo dobbiamo ancora studiare molto rispetto ai modelli di business, ma sulle pratiche di riconoscimento siamo molto facilitati. Cerchiamo di sfruttare queste e poi capiremo meglio come finanziare i nostri progetti. In un mondo ideale dovremmo parlare non più di autofinanziamento di un progetto, ma di semplice finanziamento, rendendolo anche in grado si stare sul mercato. Magari un certo tipo di mercato non ci interessa, ce ne interessa un altro: è costruibile, molte realtà l’hanno fatto.

Faccio un esempio su tutti, per tornare anche sul tema dell’autorevolezza: c’è la rivista dei pediatri italiani UPPA che ha creato un modello di business fantastico. Loro sono un gruppo di pediatri che non prende alcuna pubblicità per questa rivista, perché le pubblicità di settore sono tutte delle case farmaceutiche e la gente non ci crede, soprattutto in epoca No Vax. Hanno chiesto ai vari pediatri di spargere la voce sulla rivista ai genitori che portano i bambini ai loro studi medici, hanno conquistato autorevolezza anche attraverso articoli molto leggibili e il risultato è che sono riusciti ad avere 27.000 abbonati. Riescono a mantenere in piedi una redazione solo grazie alla fiducia.