Lust for life - Considerazioni attorno a "Ripartire dal desiderio"

24 / 3 / 2021

Quando ci siamo messi a parlare tra noi di Ripartire dal desiderio (Minimum fax, 2020), ci siamo accorti di aver compiuto lo stesso percorso mentale: abbiamo fatto un tuffo nel nostro passato e, contestualmente, ci siamo guardati allo specchio. La prosa di Elisa Cuter è ricchissima di riferimenti alla cultura di massa degli ultimi trent’anni, inframezzati da incursioni autobiografiche – di autocoscienza, diremmo – che catapultano nei meandri del desiderio, quel labirinto, cioè, di cui non si conosce la mappa dettagliata, ma sappiamo bene come ci fa sentire ogni qualvolta ci imbattiamo in un vicolo cieco, in una svolta inaspettata, in una strada spianata. Complice forse l’appartenenza alla stessa generazione, ci è sembrato che l’autrice scrutasse dentro di noi per riportare alla luce quegli stereotipi, quei bisogni, quelle tipologie e ricorsività dell’attrazione aggrovigliate nel desiderio individuale. Come per ogni generazione che si rispetti, abbiamo riscontrato quanto di condiviso possa esserci nella libido di uomini, donne, persone non binarie che vivono sotto le stesse condizioni sociali, culturali e economiche. E, inutile dirlo, quanto il desiderio ci dica dei rapporti tra i generi e del capitalismo di oggi.

Il saggio ripercorre un importante segmento di storia culturale italiana e occidentale, pescando da differenti produzioni e generi, dalla televisione al cinema fino ai social network. Perché se è vero che il desiderio individuale si forgia sull’immaginario simbolico collettivo e nei rapporti di produzione, quali documenti migliori di film, serie, pubblicità, programmi televisivi, forum e app possono spiegare ciò che si voleva e si vuole ancora, dato che parlano a un pubblico vastissimo? Crediamo che questa scelta non derivi soltanto dagli interessi di ricerca dell’autrice, ma che sia un posizionamento teorico-politico che sposta verso il basso l’analisi dell’ideologia dominante, più spesso interpretata a partire dai manifesti intellettuali delle élite. Cuter prende come oggetto di studio l’opera che racchiude l’intreccio tra le pulsioni di massa e le concezioni della sessualità proprie dell’ideologia dominante,[1] che architetta le narrazioni e orienta la messa in pratica del desiderio. Ammirevole è anche lo stile di scrittura non accademico con cui si dialoga con filoni teorici di filosofia, storia, architettura, rendendo la riflessione accessibile a un pubblico non tecnico.

Per fortuna, ci viene da dire, ci sono dei “però”.

Continuando a parlare del testo, siamo infatti arrivati a vedere un’immagine rifranta di noi stessi e del mondo che ci circonda. Siamo convinti che ogni raffigurazione, teorica o pratica che sia, abbia una sua storia alle spalle; che non vediamo mai, insomma, soltanto la rappresentazione dell’ideologia dominante, ma anche la realtà vivente del qui e ora, e come siamo arrivati in questo qui e in questa ora. Solo così siamo in grado di scorgere gli angoli di noi e del mondo meno visibili a colpo d’occhio.

« MA TU DI PIÙ, MA TU DI PIÙ...»

di donne, lavoro e rappresentazione

Cuter apre il saggio con i roaring Nineties di Non è la Rai, di Boncompagni che sussurra a/si incarna in una giovanissima Ambra Angiolini, conduttrice eterodiretta di uno dei programmi di maggiore successo della rete nazionale. La stranissima (e celata) coppia in questione è al centro di un format che sancisce l’entrata nell’immaginario collettivo di un nuovo femminile: giovanissimo, di prossimità (The Girl Next Door uscirà nel 2004), rassicurante, ammiccante quanto basta. Boncompagni realizza la sua centralità nell’ecosistema dei mass media italiano piegando il suo io agli stessi canoni femminili che disegna, mentre fa sì che Ambra Angiolini li performi; una forma niente affatto banale di messa a valore della femminilità.[2]

Di quel periodo ci ricordiamo degli esordi di una nuova serialità televisiva (quella appunto rivolta agli/alle adolescenti, come scrive Cuter) con XenaCharmedDawson’s CreekBuffy. Seppur diverse tra loro, ciascuna di queste serie ha consacrato una serie di donne mettendole nei panni di protagoniste. Intente a salvare il mondo, un fidanzato o a prendere a calci il nemico di turno, queste donne rendono visibile una tipologia di femminilità tutt’altro che ancillare o angelicata, essendo invece il perno di storie epiche, relazioni familiari e affettive (disfunzionali), di una cittadina californiana di periferia, della sconfinata San Francisco. Il proliferare di queste rappresentazioni ha in parte contribuito a farci crescere con l’idea che anche il femminile potesse essere eroico e, quindi, occupare lo spazio pubblico.

Tuttavia, possiamo davvero dire di esserci formati all’interno di uno snodo radicale della rappresentazione dei rapporti tra i generi?[3] Non parliamo soltanto delle “sacche di reazione” sempre esistite e strutturali (violenza maschile contro l’autonomia femminile) o dell’etero-determinazione dei personaggi femminili, scritturati perlopiù da uomini, come giustamente ricorda Cuter. Ci riferiamo al fatto che dalle donne dello/nello spettacolo, qualsiasi impresa stiano affrontando, si esige un surplus di emotività, sensibilità, affettività. Le eroine non lottano solamente per sé o contro il Male di turno: un secondo dopo, corrono ad accudire i loro gruppi amicali e nidi domestici, a consolare amanti e fidanzati. A loro è sempre richiesto una cura che non ci si aspetta da Hercules, Dawson, Angel, ecc., che pure a vario titolo incarnano una maschilità dallo spettro emotivo certamente più ampio dell’identità tradizionale di uomo patriarcale.

Per questo motivo, non dobbiamo scordarci del differenziale insito nei generi quando analizziamo i rapporti di produzione e riproduzione nel sistema capitalista. Cuter tocca un punto nevralgico del modo di produzione in cui viviamo, ossia di come il settore terziario e il lavoro di relazione abbiano fabbricato un individuo imprenditore, la cui forza-lavoro si sovrappone al proprio capitale umano. L’imprenditore di sé può essere visto anche dalla prospettiva più inusuale, su cui Cuter pone l’accento in modo persuasivo, del capitale erotico: si vuole essere oggetti del desiderio altrui, in particolare se l’altro/a detiene un potere o una ricchezza, in quanto donne, uomini o nessuno dei due generi.

Ma c’è una domanda da non eludere: il prezzo da pagare per diventare oggetti del desiderio è il medesimo? La nostra risposta è no. Per diventare oggetto del desiderio, le donne sono tenute a mostrare maggiore predisposizione a quelle abilità (storicamente determinate come) femminili valorizzate dal capitalismo. Devono, cioè, aderire perfettamente alla figura della lavoratrice multitasking, maestra dell’organizzazione, comunicatrice eccellente, facilitatrice della cooperazione, manager della cura dei disagi del personale per renderlo più produttivo. Si assumono le donne perché si pensa che portino un valore aggiunto gratuito alla produzione, perché si pretende da loro, in termini marxiani, un certo pluslavoro.

Se è vero che per alcuni versi il lavoro si è femminilizzato (e bisogna fare attenzione a dire quale lavoro),[4] assorbendo delle qualità prima attribuite alle donne e alla sfera della riproduzione, è altrettanto evidente che il lavoro riproduttivo non è diventato neutro per i generi. Gli uomini dovranno pure curare parti del loro corpo e della loro personalità per essere comunicativi, appetibili e capaci di tessere relazioni; ma quanto saranno chiamati ai lavori domestici, ad accudire e sostenere materialmente e psicologicamente i propri cari? Soprattutto al tempo del neoliberalismo, che ha decurtato gli istituti del welfare scaricando sui singoli individui e sulle loro famiglie (o meglio, sulle donne delle singole famiglie) i costi della cura.

Essenziale per avere forza-lavoro nuova e pronta allo sfruttamento, il lavoro riproduttivo gratuito o a bassissimo costo quando esternalizzato (badanti, imprese di pulizia, impiego nelle cucine, ecc.) viene accumulato dal capitale sfruttando prevalentemente le donne. Differenziare attraverso il genere è una strategia intrinseca al capitale per estrarre, da un lato, maggiore plusvalore dalle donne (con Marx: valore di scambio)[5] e, dall’altro, risparmiare sulla riproduzione formalmente svalorizzata (contra Arrighi,[6] oltre Marx e con Federici[7] e Fortunati:[8] valore d’uso non monetizzabile). L’oppressione rende malleabile lo sfruttamento a seconda dello status/identità degli individui ottenendo con la differenziazione di genere - e qui siamo d’accordo con l’autrice - il bonus della divisione di classe.

Fa parte della nostra storia anagrafica ricordare che sono state specialmente le nostre madri a provvedere alla nostra salute, crescita, educazione, rigenerazione: se adesso ci vogliono lavoratori/trici con capitale erotico, è perché qualcuna si è presa in carico la nostra vita fino all’età adulta e, in parte, continua a farlo. 

PENSIERO STUPENDO

Vittime, carnefici e mediatori del desiderio.

Ci siamo spesso domandati cosa sia il desiderio, perché sia così difficile riconoscerlo, accoglierlo, perseguirlo, far sì che non rincorra chimere. Spesso ne abbiamo fatto una questione del tutto individuale, spostando il focus sui nostri traumi passati e presenti, sui limiti e sulle virtù individuali. Senza negare la rilevanza delle singole esperienze, Cuter ci invita a considerare seriamente il motto femminista «il personale è politico». Ne consegue che noi individui neoliberali ci pensiamo, indipendentemente dal genere, in termini femminilizzati: in un mondo dove dobbiamo essere scelti in alternativa agli/lle altri/e facendo sfoggio del nostro capitale erotico,[9] allo stesso modo vogliamo essere desiderati nel privato della nostra intimità. Come sul lavoro, anche qui la nostra autostima dipende da quanto siamo oggetto della selezione altrui, con l’aggiunta che nel campo delle relazioni e dell’attrazione ci sentiamo intimamente più colpiti, perché riguardano un residuo di libertà. Al contrario del lavoro, l’affettività è quella parte di noi in cui crediamo di non avere ingiunzioni, costrizioni, freni: possiamo amare e avere rapporti con chi vogliamo, quando vogliamo, come vogliamo, l’importante è che ci sia consenso reciproco.

Avvalendosi delle letture psicoanalitiche di Freud, Lacan e Žižek, Cuter mette in controluce le contraddizioni del desiderio, spesse volte inibito o passivo, in attesa che l’altro/a se ne prenda carico. Ci aspettiamo che chi desideriamo venga verso di noi, magari impietosito dalla nostra sofferenza, per poterlo tenere sotto al potere della compassione, rivelando un’estrema paura dell’abbandono e del rifiuto. E, con una puntualità spesse volte paradossale, nel momento in cui invece non desideriamo l’altro/a e prendiamo coscienza che neanche quest’ultimo/a ci desidera a sua volta, ecco che l’ego si rinvigorisce e ferisce simultaneamente. Vengono in mente i cateti di quel triangolo del desiderio su cui René Girard fonda la sua teoria della letteratura, la cui ipotenusa è abitata da un soggetto/oggetto mediatore del nostro desiderio: come Julien Sorel ne Le rouge et le noir di Stendhal, per il quale l’amore delle donne altro non è che il canale di transizione per perseguire la sua vera mira, ossia la conquista di un posto per sé nella Parigi dove ogni parvenu sogna di collocarsi ed elevarsi dal suo status, così, fuori dal romanzo, è facile ravvisare la natura imitativa e mediata delle brame che credevamo genuine. Si anela all’altro/a in quanto mezzo per ottenere riconoscimento emotivo e economico, e lo si fa sperando di affascinarlo/a in modo da non dover prendere l’iniziativa dell’azione. Dalla parte della vittima di questa «menzogna romantica» troviamo un individuo privato della propria agency, destinato a patire in un continuo vuoto di potere, ad essere, cioè, vittima.[10]

#METOO, AUTOCOSCIENZA, ORGANIZZAZIONE

Abbandonando la divagazione teorico-letteraria e tornando al libro, proprio la critica della vittima è al centro della dissertazione di Cuter. L’autrice pone l’accento sulle campagne mediatiche guidata dal #metoo, con particolare riferimento a una certa egemonia discorsiva legata al «femminismo essenzialista liberale». In questi discorsi Donna e Vittima sono elementi irriducibili; questo, secondo Cuter, contribuirebbe a castrare la donna e a spostare il bersaglio politico della lotta dal sistema capitalista e patriarcale al singolo uomo. La donna-naturalmente-vittima faticherebbe a esprimere attivamente il desiderio, il quale si definisce in base alla sanzione, in negativo («io voglio che tu non desideri questo»), come starebbero a testimoniare le confessioni pubbliche delle violenze e molestie.

Sebbene la campagna #metoo non sia esente da aspre critiche, come sottolineato dai movimenti trans-femministi anticapitalisti, ci preme tornare di nuovo sulla prospettiva storica. È senz’altro puntuale dire che la vittimizzazione impedisca l’organizzazione conflittuale contro un sistema di potere; allo stesso tempo, non dobbiamo sottovalutare che dietro alla parola “donna” esiste un accumulo di esperienze – e non di essenze – singolari e collettive accomunate dalla sofferenza. Ricordarlo significa riconoscere l’oppressione e il governo dei corpi delle donne marchiati dal capitale, dalle istituzioni statuali e dal simbolico patriarcale, un qualcosa che, checché ne dica il neoliberismo con la sua retorica del progresso, non si cancella con un passaggio generazionale o di fase di accumulazione capitalistica.[11] Non solo perché siamo ancora figli/e di quella storia, ma anche perché la violenza di genere perdura tuttora – altrimenti, come farebbe il capitale a differenziare per avere lavoro riproduttivo conveniente? Per questa ragione, crediamo che il desiderio di una vita più giusta per tutte e tutti risulti rilanciato dal fare autocoscienza, anche confessandosi in rete, in quanto presa di coraggio che sfida la violenza dell’oppressione tacciandola come ingiusta. Dalla condivisione dei traumi e dei disagi individuali può nascere un processo di politicizzazione del dolore vissuto in aperto scontro non con un singolo, ma con l’intero sistema che getta le condizioni di possibilità perché la violenza accada.

Da questo ragionamento dovremmo partire per scandagliare meglio l’assunto che tutti/e ci percepiamo oggetto del desiderio. Pur non negando che gli uomini vogliano attrarre o vittimizzarsi (vedi la reazione autoritaria al femminismo insita nel populismo conservatore), è per noi indispensabile distinguere l’esperienza dell’oggettivazione. Agli uomini (su tutti gli eterosessuali e cis-genere) è innegabilmente garantito un maggiore controllo del loro corpo, che si traduce nella possibilità di negarsi al corteggiamento se lo vogliono, di essere lascivi quanto vogliono e accogliere le avances senza essere giudicati. Ogni uomo attinge a una riserva di maggiore potere sociale (ciò che si può permettere e non permettere di fare come maschio), da cui deriva il fatto che, ancora nel 2021, spetti perlopiù agli uomini (se cis-genere e eterosessuali) il ruolo di esplicitare attivamente il desiderio di fronte a una donna generalmente passiva. Non a caso, innumerevoli giovani uomini e adolescenti frequentano le odiose chat testosteroniche (ma anche chat miste di lavoro, di classe, di corso, ecc.) dove le donne sono ridotte a organi senza emozioni e coscienza.

Una simile prerogativa sta a fondamento di un ventaglio di comportamenti maschili che va dalla violenza fisica e psicologica manifesta (che gode di buonissima salute in tutte le fasce di età, dai giovani agli anziani) alla manipolazione, applicata ad arte per irrobustire l’autostima di una maschilità fortemente narcisista, quindi dipendente dal riconoscimento della subalterna. Ammesso che gli uomini mostrino personalità più femminilizzate in questa fase del capitalismo, non riteniamo che ciò abbia portato a una promozione assiologica del femminile a livello sociale. D’altronde, il soggetto-uomo continua a costituirsi nella pretesa che la donna gli debba più di quanto le debba egli stesso e che, precisamente, gli debba lavoro di cura incondizionato.

Sul lato della manipolazione, non esprimere i propri sentimenti (soprattutto quando non reciproci) e screditare quelli altrui ha il fine (consapevole e inconsapevole) di tenere in scacco la vita dell’altra/o, irrobustendo la catena della dipendenza relazionale affinché ci sia qualcuna/o che presti le proprie cure, si sobbarchi i disagi psichici, pari i colpi delle insicurezze e delle frustrazioni di qualcun altro. Più che desiderare passivamente di essere oggetti, gli uomini agiscono pro-attivamente per ridurre le donne a oggetto di controllo e di coercizione; al massimo, desiderano essere tra le mire di una libido femminile pensata e ordinata in funzione esclusiva di loro stessi. E nel migliore dei casi, qualora non ci riescano, fuggiranno non appena avranno il sentore che la donna abbia un desiderio autonomo, piuttosto che percepirsi al centro di una libidine per loro perturbante.

FALCE, DILDO: DESIDERARE LA RIVOLUZIONE

Ma se desiderare nell’era del tardo capitalismo porta con sé l’oppressione e lo sfruttamento di cui sopra, quale spazio per il desiderio di liberazione? Innanzitutto, suggerisce Cuter, uno spazio scomodo che ci fa uscire da noi e dalla nostra intima dimora: il desiderio liberante deve trasformarci nell’incontro/scontro con l’altro/a, rimettendo in dubbio sicurezze, fragilità, abitudini e spingendoci ad agire affinché si realizzi. Proiettandosi in una dimensione relazionale e temporale che non c’è ancora, esso confligge con il presente identico a se stesso - con noi stessi/e! -, che sia nel privato o nel pubblico: descrive proprio quell’incrocio vermiglio tra l’antico strumento di lavoro contadino e il sofisticato item per l’autoerotismo stampato sulla copertina del libro. Ovvero, in una parola, la rivoluzione. Permetterci di desiderare ardentemente lo stravolgimento della vita pubblica e privata, significa pensare e praticare una nuova politica in un processo di rivoluzione permanente. Perché il desiderio di liberazione (a tutto tondo) ha una direzione, ma non un punto di approdo, e troverà mari in tempesta prima di raggiungere nuovi lidi di eguaglianza e libertà. Per seguirlo, non possiamo che stare in questa scomodità per la quale non esiste uno stato ultimo di pace.

Ci domandiamo, allora, se siamo pronte/i a prendere coraggio, se siamo disponibili a rendere testimonianza autentica di questa voglia di rifare la vita intera. Crediamo che questo nostro contributo debba chiudersi con un passaggio eminentemente politico, nel quale provare soprattutto a nominare - oltre alla natura, alle caratteristiche, al genio multiforme e infido del desiderio - la forma di vita desiderabile, nella quale tout se tient, per la quale vale la pena riconoscere e attraversare la frustrazione della mancanza, la comodità assodata dei privilegi, l’horror vacui, il TINA che è sempre sveglio dentro di noi.

A volte ci giriamo intorno, ma desideriamo comunismo, un comunismo contemporaneo che si intreccia al transfemminismo. Mentre lo desideriamo, il piano diventa sempre meno liscio, si increspano le acque dello status quo e le innumerevoli teste dell’idra capitalista svettano nella tempesta emotiva. Il mostro vuole ricordarci che nel capitalismo ci siamo dentro fino al collo, e al diavolo tutte le forme di autorganizzazione e di cura che ci possiamo inventare per dare quanto meno una sterzata all’incedere predatorio e senza scrupoli del sistema. Ogni muso dentato della fiera ci sbatte in faccia l’immane investimento complessivo che dovremmo accettare per tener fede al desiderio di rivoluzione contrario al desiderio di integrazione nel sistema, di comodità o di seppur mistificata sicurezza. Tra le domande più insolenti del multicefalo: “sei disposta/o a pagare la badante di tua nonna lo stesso salario orario che guadagni tu?”; “ti va di metterti a guardare dentro di te, per provare a evitare attivamente la prossima relazione tossica?”; “vuoi davvero non approfittare di un privilegio per avere quel lavoro o quella persona?”. La belva ci lascia il margine per desiderare comunismo, ma ci propone di derubricarlo a posa intellettuale, eliminandone la parte che sente come urgente la rivoluzione dei rapporti di produzione e riproduzione. Che è esattamente ciò che ci fa superare il limite dell’iniziativa individuale sul fronte del desiderio sessuale e sentimentale, creando le condizioni strutturali per praticare amore e amicizia liberi/e dalle pastoie del capitale erotico, della lunga giornata lavorativa, dell’assenza di welfare, dell’oggettivazione, del lavoro domestico e di cura assegnato per genere, orientamento sessuale e razza. Quando mai desiderare comunismo non dovrebbe combaciare con la liberazione tout court del desiderio?
Di fronte a questo orrore costellato di conflitti e contraddizioni, siamo terrorizzate/i, proprio come ammette Cuter nelle ultime pagine del suo libro, che ci ha fatto «intorcinare le budella», giusto per corredare queste ultime righe con una colta citazione cinematografica.

Abbiamo voglia di desiderare comunismo, ma, colpevolmente o legittimamente - non sappiamo ancora sciogliere questo nodo - vogliamo la favola. Cammineremo ancora, domandandoci se sia possibile colmare questa aporia, nella speranza di non farlo in solitudine.



[1] Cfr. E. Cuter, Ripartire dal desiderio, Minimum fax, Roma, 2020, pag. 10: «L’immagine [di Boncompagni e Angiolini] da cui voglio partire ci torna utile per due motivi. Perché la troviamo in un fenomeno mainstream, e quindi ci permette di indagare l’ideologia, cioè la mentalità di un’epoca, secondo la definizione a cui ci atterremo in questo libro: non qualcosa che viene volontariamente nascosto, bensì qualcosa di manifesto, là fuori, talmente ovvio da non sembrarci più problematico, da apparirci anzi naturale».

[2] Ivi, Introduzione (pagg. 7-21).

[3] Cfr. Cuter nella restituzione del film Redupers. Die allseitig reduzierte Persönlichkeit di Helke Sanders, nel quale la protagonista Edda rappresenta la vita di una donna progressista degli anni Settanta alle prese con la carriera, la genitorialità e la sessualità emancipata: «Pur essendo uscita di casa, pur essendo una donna realizzata sotto ogni punto di vista (pubblico, privato, politico), Edda non se la passa molto bene. Come mai? Cos’è andato storto? È stata colpa dell’impostazione patriarcale che permane purtroppo nella società, o c’è qualcosa di più profondo e sistemico nella vicenda di Edda? Edda è, ancora una volta, una “donna”, o è qualcos’altro, un soggetto neutro, e cioè una persona in particolare e allo stesso tempo un esempio universale di quello che accade ai soggetti in questa fase del capitalismo?» (Ivi, p. 65).

[4] Cfr. Ivi, p. 75: «Lo stesso modello “maschile” dell’imprenditore pronto al rischio e alla competizione stava insomma sussumendo una serie di caratteristiche che aveva prima rifiutato e relegato alle donne [...] Il modello della divisione del lavoro non reggeva più: il lavoro riproduttivo iniziava a rivelare il suo potenziale di espansione del capitale, esplicitando così quel meccanismo attraverso il quale aveva in realtà segretamente sempre estratto valore dal lavoro riproduttivo non retribuito delle donne».

[5] K. Marx, Il Capitale, Libro I, Newton Compton, Roma, 2011.

[6] G. Arrighi, Il lungo XX secolo: denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996

[7] S. Federici, Caliban and the Witch. Women, the Body and Primitive Accumulation, Autonomedia, New York, 2004; Id., Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma, 2020.

[8] L. Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Marsilio Editori, Venezia, 1981.

[9] Cuter riprende il concetto di capitale sessuale da Eva Illouz e Dana Kaplan. Cfr. E. Cuter, op. cit., pag. 82: «Il concetto di capitale sessuale è forse quello che più direttamente ci porta a vedere le dinamiche di genere in atto come una conseguenza dei processi materiali di introiezione del (e allo stesso tempo di reazione al) modello neoliberale nella sfera privata [...] questo fascino [una delle forme del capitale sessuale] non riguarda solo la sfera privata del sesso o dell’affettività, bensì una risorsa che i soggetti indeboliti da un mondo del lavoro sempre più precario possono mettere a valore sia direttamente, ottenendo compensi per le loro doti legate al campo dell’attrazione sessuale, che indirettamente come “strategie per i (potenziali) lavoratori per fronteggiare le insicurezze inflitte dal capitalismo neoliberista”».

[10] R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, trad. it. Leonardo Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano, 1965.

[11] Cfr. E Cuter, op. cit., pag. 138: «Il patriarcato tradizione che creava le differenze di genere viene soppiantato dal capitalismo, per il quale il genere è una specificazione residuale, utile al massimo per espandere lo status di sottomissione a cui è stato tradizionalmente sottoposto il femminile».