"Maledetto lavoro!". Il report del dibattito a Sherwood Festival 2022

Da Grafica Veneta a Gkn: Sfruttamento, organizzazione e lotte nell'Italia della “ripresa” post-covid

29 / 6 / 2022

Lunedì 27 giugno si è tenuto il secondo dibattito dell’edizione 2022 del Festival, intitolato Maledetto lavoro! Da Grafica Veneta a Gkn: Sfruttamento, organizzazione e lotte nell’Italia della “ripresa” post-covid. Hanno partecipato Massimo Carlotto (scrittore), Marta Fana (economista), Dario Salvetti (Collettivo di Fabbrica Gkn) e Gianni Boetto (portavoce di ADL Cobas). Ha introdotto e moderato Chiara Buratti (ADL Cobas Venezia).

Partendo dai casi specifici di Grafica Veneta e GKN, nella prima parte del dibattito Chiara Buratti interroga gli ospiti sulla necessità di “parlare a tutta la società” dei processi di trasformazione e sfruttamento che intervengono nel mondo del lavoro e che negli ultimi anni hanno subito una serie di accelerazioni.
I due casi ci permettono di capire l’avanzare di forme di sfruttamento che permeano ogni settore economico e i processi politici di potere che ne sono a monte, e ci interrogano su quali modelli organizzativi ci permettono di andare al contrattacco del sistema di governance, per non settorializzare la lotta sui posti di lavoro e portare la solidarietà al di fuori della vertenza specifica.

Il primo a prendere parola è Massimo Carlotto che ci presenta il caso di Grafica Veneta. Caso nato da un’inchiesta dei carabinieri iniziata nel maggio del 2020, quando lungo una strada provinciale viene trovato un cittadino pakistano legato e ferito. Le indagini nel luglio del 2021 portano la Procura di Padova a 11 arresti, tra i quali i due titolari di BM Service, azienda che, lavorando in appalto per Grafica Veneta, gestiva un certo numero di lavoratori pakistani - cosiddetti “fantasma” - che lavoravano 12 ore al giorno, 7 giorni su 7, senza giornate di riposo, senza ferie, senza malattia, vivendo in abitazioni fatiscenti.

Viene così alla luce una realtà di sfruttamento e di caporalato che non aveva mai avuto confini così definiti in Veneto, per di più in una fabbrica considerata tra i fiori all'occhiello del territorio, con filiali anche negli Stati Uniti. Nonostante l’entità dello scandalo, il caso Grafica Veneta non è riuscito ad impattare più di tanto la società civile, forse riflettendo la mentalità che un certo tipo di ceto imprenditoriale veneto pensa del trattamento dei lavoratori stranieri, pienamente espressa dalle pesantissime dichiarazioni razziste del manager di Grafica Veneta Fabio Franceschi dell’ottobre 2021. La soluzione dell’azienda è stata quella di trovare un accordo con la comunità pakistana assumendo alcuni lavoratori, ma obbligandoli a interrompere il loro rapporto con ADL Cobas che insieme a FIOM li aveva seguiti durante la vertenza.

È chiaro quindi che il caso Grafica Veneta sia ancora una ferita profondamente aperta e sia fondamentale non solo per il territorio, ma a livello nazionale, dato il coinvolgimento del mondo dell’editoria che da tantissimi anni si fonda sul precariato - denunciato già nel 2012 da Sergio Bologna.

È il turno poi di Dario Salvetti che, partendo dall'esperienza del Collettivo di fabbrica GKN, ci riporta subito il fatto che il superamento del “settorialismo” sia stata per loro una necessità. Anzi, sono state le modifiche stesse intercorse al sistema, che giorno dopo giorno hanno eroso conquiste importanti su cui gli stessi operai si erano “seduti” a superare una sorta di “diritto al settorialismo” che caratterizzava le relazioni di fabbrica, almeno fino allo scorso luglio.

La ristrutturazione nel settore dell’automotive - che porta inevitabilmente con sé migliaia di licenziamenti - ha inoltre utilizzato in modo strumentale il tema ambientale, soprattutto nella narrazione: la ristrutturazione viene spesso giustificata con la necessità di una transizione ecologica apparente che però non risolve il problema della giustizia climatica e anzi crea ancora più ingiustizia sociale.
Transizione ecologica e capitalismo finanziario hanno quindi trasformato l’essenza stessa delle rivendicazioni operaie tradizionali: “per difendere il proprio posto di lavoro devi chiederti in che mondo lo stai difendendo, cosa pensi della transizioni climatica; ti arrocchi sul continuare la produzione ad ogni costo o sfidi il capitale anche su questioni che riguardano la giustizia climatica?”.

Per resistere come Collettivo e come corpo operaio all’attacco del sistema, con l’occupazione della fabbrica in assemblea permanente da 11 mesi, c’era quindi bisogno di iniziare a prendersi cura l’uno dell’altro, come comunità. Parlare di salute mentale, di questione ambientale e collegarsi a movimenti territoriali e ad altre vertenze allora è diventato fondamentale. Con una fabbrica ferma, senza produzione, un mondo congelato dal Covid prima e da un conflitto mondiale ora, tutto quello che rimane è l’intreccio di biografie e lotte che solo apparentemente sono diverse. “Insorgiamo e convergiamo. Perché, è bene ribadirlo sempre, nessuno si salva da solo e fuori dalla mobilitazione non c’è salvezza”.

Marta Fana, riallacciandosi alle due vertenze presentate e ricordando anche la vertenza della Città del Libro di Stradella (TO), ribadisce che la questione della mobilità deve toccare necessariamente non solo la giustizia ambientale e la giustizia sociale, ma anche pensare ad un modello produttivo e industriale diverso. Proprio in un momento storico in cui il capitale sembra aver vinto, vediamo in realtà emergere queste collettività, che trovano spazio anche tra persone non politicizzate che però naturalmente sono portate ad attivarsi e mobilitarsi quando si parla delle loro condizioni di vita e di lavoro.

Aspetto centrale toccato dall’economista è l’estensione della lotta alla questione abitativa e a quella della mobilità e dei trasporti, esasperata dal costo crescente di energia e carburante.
Altri due grandi fenomeni che abbiamo vissuto sono il taglio della spesa pubblica e i tagli nel settore della scuola, con salari tra i più bassi d’Europa e soprattutto fermi da 10/15 anni che quindi toccano ormai diverse generazioni. L’intersecarsi di tante lotte porta alla consapevolezza che si debba guardare in modo orizzontale, ma anche verticale.

L’intervento della ricercatrice si conclude portando alla nostra attenzione anche il settore della cultura e dello spettacolo e le lotte che hanno animato questi settori storicamente precarizzati, in un contesto in cui il taglio di fondi prosegue, nonostante le promesse e infondi del PNRR.

Gianni Boetto chiude il primo giro di interventi portando quello che secondo lui è il nodo fondamentale della questione: laddove non c’è conflitto non c’è possibilità di costruire qualcosa di diverso. Quello che abbiamo di fronte è un mondo del lavoro devastato e frammentato dalla ristrutturazione capitalistica, non solo nel settore privato, ma anche in quello pubblico - in cui vengono appaltati perfino servizi come ospedali e scuole.

Le risposte da mettere in campo non possono che essere innescate da esperienze di lotta concrete, come ad esempio ha fatto l’Adl nel mondo della logistica, strategico per il mondo capitalista e perciò colpito da caporalato, evasione contributiva, sfruttamento della manodopera dei lavoratori migranti ecc. A questo proposito Boetto tiene a ricordare il bracciante africano di 35 anni morto carbonizzato in una baraccopoli andata a fuoco nel ghetto di Rignano Garganico (FG), che non è la prima e purtroppo non sarà nemmeno l’ultima vittima di un sistema di sfruttamento sistematico.

L’unica via è, conclude, “organizzarsi, non solo contro i padroni, ma contro un sistema di legislazione e rappresentanza che oramai ostacola anche i diritti sindacali - assemblee retribuite, permessi sindacali - fondamentali per potersi organizzare e rivendicare diritti”. La soluzione legislativa non c’è ancora - nemmeno sul salario minimo - e l’unica strada, ancora una volta, rimane frutto di grandi conflitti che convergano per interagire con altri movimenti del nostro tempo: “insorgere insieme costruendo reti”.

Chiara Buratti introduce agli ospiti il tema della convergenza prendendo come esempio la cospicua capacità dei movimenti ambientalisti e progressisti di portare un gran numero di persone in piazza, da cui il tema della convergenza.

Massimo Carlotto, riprendendo il caso di Grafica Veneta, risponde criticando quella classe intellettuale e culturale che ha agito, dagli anni 80’ in poi, come uno strumento di pacificazione e depotenziamento nei confronti del conflitto sociale. Provocatoriamente, si chiede chi ancora si occupi di lavoro e soprattutto con quale narrazione. Ed è proprio questo, per lui, il problema, ovvero la difficoltà da parte del mondo culturale ed accademico a prendere una posizione nei confronti delle lotte che non sia solo individuale e relegata al singolo.

È perciò fondamentale non solo fare analisi critica, anche al fine di comprendere maggiormente le dinamiche che si vanno a inserire quando si parla di lotte sul posto di lavoro, ma anche il creare una comunità che possa rispondere attivamente alle sfide dei tempi a venire. Il caso della giustizia climatica è emblematico di come il mondo culturale non abbia saputo prendere una posizione netta e radicale.

La parola passa velocemente a Peppe Iapicca, operaio della GKN, che ripercorre, a partire dalla data del 9 luglio dello scorso anno (quando furono comunicati i 422 licenziamenti) la necessità di abbandonare la settorialità e portare la vertenza anche al di fuori delle fabbriche e dello stesso mondo sindacale. L’azzeccata metafora è quella del lungo striscione con scritto “insorgiamo” (motto ripreso dal mondo partigiano e divenuto poi simbolo della vertenza GKN) che non va retto da soli, ma collettivamente.

L’operaio ha poi ricalcato l’importanza che hanno avuto i processi organizzativi all’interno della fabbrica prima del 9 luglio, organizzazione resa più efficiente grazie ad un meticoloso processo di democratizzazione del sindacato e di costruzione di comunità. Ed è proprio questa forma organizzata, costruita negli anni, ad aver garantito alla fabbrica una risposta rapida e decisa contro l’attacco del capitale.

Buratti puntualizza allora la necessità di una narrazione che vede gli operai e le operaie non come vittime ma come esseri in lotta, dotati di forza e di capacità di decisione e organizzazione.

Gli fa eco Dario Salvetti, con un appassionato discorso sulla necessità di non limitarsi agli slogan o alla retorica, ma ad andare a fondo in tutte le vertenze.

E lo fa con un esempio molto provocatorio, parlando ovvero di eutanasia. Nonostante si dica favorevole, parlando con persone che hanno vissuto sulla propria pelle la mancanza di assistenza sanitaria e psicologica da parte di un apparato pubblico sempre più esternalizzato, Salvetti si chiede se non fosse doveroso anche parlare non solo di libertà di morire ma anche di libertà di vivere, di libertà di aver cure e assistenza di qualità gratuite.

L’operaio passa poi all’argomento dei rapporti di forza tra le classi e di come il nemico di classe cominci piano piano a vacillare. Ci porta a tal proposito vari esempi, a cominciare dal fatto che anche l’UE si è vista costretta a inserire nella propria narrazione una versione (ovviamente edulcorata) del salario minimo e anche in Italia questo tipo di rivendicazione trova spazio sulla nostra stampa.  Allo stesso tempo a Coltano i militari hanno dovuto ridisegnare il perimetro della Base NATO per via delle grandi mobilitazioni delle passate settimane.

Salvetti conclude parlando della necessità di mettere da parte vecchi dissapori per non perdere l’opportunità di creare una nuova avanguardia dirigente.

La parola passa a Marta Fana, che ricalca la necessità di una narrazione che metta al centro la forza di cambiamento di chi vive in condizioni di marginalità e precarietà, cambiamento che però è necessario sia rivolto verso la società tutta, inglobando anche altre sfide, come quella di una sanità pubblica e gratuita.

A ciò si collega la questione del salario, e di come le decisioni che vengono appaltate alle istituzioni come, ad esempio, l’Unione Europea, siano assolutamente insufficienti e della necessità di contrapporre perciò una politica partecipata dal basso.

L’economista parla poi della questione degli appalti e di come, nonostante di dati sul lavoro in Italia ce ne siano molti, manca assolutamente il numero di lavoratori esternalizzati, che spesso vivono con contratti indignitosi.

Contratti indignitosi causati anche da una classe dirigente incapace di garantire standard di vita decenti in campo di salari e che va a chiedere sussidi allo stato al primo problema.

Il consiglio della Fana è quindi di puntare sull’innovazione e sulla democratizzazione dei processi decisionali. È necessario che tutti e tutte, dai disoccupati agli studenti, abbiamo una conoscenza tale da poter attivamente partecipare alle scelte dei governi, che vanno dagli appalti comunali sino alla politica industriale del paese.

Infine, Gianni Boetto conclude sottolineando l’inadeguatezza della nostra classe dirigente, raccontano la loro esperienza sindacale li porti in continuazione ad avere a che fare con l’alta dirigenza delle multinazionali.

Boetto ci racconta di come in un certo senso il sindacato si comporti già come dirigenza, nel momento in cui riesce a battere i pugni sui tavoli delle imprese per strappare accordi a favore della classe lavoratrice. Ci fa l’esempio delle battaglie L’Adl Cobas ha intrapreso e continua ad intraprendere per chi lavora nella logistica. La prospettiva, per il sindacalista, consiste nel costruire conflitti e comunità.

L’intervento si conclude - inserendosi nel contesto di convergenza tra lotte operaie ed ecologiste - ricordandoci il grave problema della siccità e la questione dell’acqua, rimarcando la necessità di contrastare l’estrattivismo delle grandi multinazionali e rimandando alla mobilitazione prevista il 9 luglio allo stabilimento Coca-Cola di Nogara, nel veronese, che sfrutta gratis circa 1,4 miliardi di tonnellate di acqua all’anno, attingendo direttamente dalle falde vicino alla fabbrica.

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