Next Generation of Social Struggles. Il report del dibattito a Sherwood Festival verso il G20 della finanza

1 / 7 / 2021

Due mesi fa Forbes – rivista economica che si definisce “Lo strumento del capitalista” – ha pubblicato il suo consueto rapporto sui miliardari nel mondo. I contenuti del rapporto sono però tutt’altro che consueti: “È stato un anno eccezionale, e non stiamo parlando della pandemia. Le aziende si sono quotate in borsa a rotta di collo, le cryptocurrencies hanno preso il volo e i valori delle azioni hanno toccato le nuvole. Il numero dei miliardari è esploso, raggiungendo la cifra senza precedenti di 2.755, ovvero 660 miliardari in più rispetto all’anno scorso. Il loro patrimonio complessivo è di 13,1 trilioni di dollari, mentre nel rapporto del 2020 era di 8 trilioni di dollari”.

Con questa citazione Lorenzo Feltrin ha aperto il dibattito Next Generation of Social Struggles: verso il G20 della finanza, tenutosi a Sherwood festival lunedì 28 giugno. Citazione dalla quale è scaturita la domanda legittima sul perché il mondo sia così roseo per i grandi capitalisti, proprio all’apice di una pandemia che ha fatto milioni di morti e messo in ginocchio l’economia mondiale. 

Il ricercatore dell’Università di Bath Jack Copley ha subito sgomberato il campo da posizioni complottiste, molto in voga da alcuni anni, che vedono la finanza come qualcosa di staccato e “supremo”  rispetto al tradizionale capitalismo “produttivo”. Il capitale, finanziario o industriale che sia, è una forza impersonale mossa dal profitto, dalla necessità di auto-accrescersi. In altre parole, i privati non investono per la gloria, ma solo se si aspettano di guadagnarci qualcosa. Ma l’alta produttività accumulata in decenni di sviluppo e automazione rende più difficile trovare vie di investimento profittevoli, cosa che rende la crescita del Pil stagnante e sempre più costosa in termini socioambientali.

Copley ha brevemente illustrato le principali tendenze del rapporto dialettico tra finanziarizzazione e stagnazione secolare in atto dagli anni ’70, anticipando gli argomenti trattati nel suo libro Governing Financialization: The Tangled Politics of Financial Liberalisation in Britain, in uscita il prossimo autunno per la Oxford University Press. Gran parte del dibattito economico degli ultimi 30 anni, in particolare in seno alle varie scuole marxiste, si è concentrato su quale, tra finanziarizzazione e stagnazione, sia la variabile dipendente e quale quella indipendente. Per Copley, in definitiva, il problema non è costituito dalla finanza in sé o dal funzionamento del sistema bancario, ma ha una natura realmente sistemica e come tale va affrontato.

Per l’economista Andrea Fumagalli è necessario aprire un nuovo capitolo di discussione sulla situazione economica che stiamo vivendo, perché la sindemia ha modificato questa situazione non solo in termini contingenti ma strutturali. 

A partire dagli anni ’70, I mercati finanziari sono intervenuti massivamente nei nuovi processi di accumulazione (in particolare nella platform economy), nella distruzione del welfare e nei meccanismi redistributive, attraverso il divenire rendita di parte della massa salariale. La crisi del 2007/08 ha evidenziato che questo meccanismo di accumulazione era instabile, ma negli anni successivi – attraverso le politiche di austerity - il capitalismo ha perseguito su questo modello, cercando di recuperare liquidità spremendo il lavoro vivo. La finanza domina l’economia reale, ma allo stesso tempo ne trae profitto.

Con il lockdown si è assistito a una epocale ristrutturazione del capitale, che da un lato ha accelerato i processi in atto nella platform economy, ma dall’altra ha creato un corto circuito con il capitalismo più tradizionale, quello industrial, energetico ed estrattivo.

Gli interventi degli Stati (come il Recovery Plan o il Piano anti Covid varato da Biden) hanno quindi cercato di sanare questo corto circuito sia per creare liquidità che non facesse scendere i consumi sotto una certa soglia, ma soprattutto per garantire la permanenza dei processi di  finanziarizzazione. La “truffa” della tassazione minima sui profitti decisa allo scorso G7 ne è un esempio lampante.

Al G20 di Venezia si discuterà di come l’intervento pubblico della fase post-Covid sia gestito da società liberalizzate (new public management), ma non si interverrà assolutamente sul welfare. Per questa ragione le richieste devono esse chiare: una politica monetaria che finanzi direttamente il welfare, accesso ai beni comuni, quantitative easing for the people e un reddito di base incondizionato, inteso come reddito di remunerazione (e non solo di protezione sociale).

Eleonora Priori, ricercatrice in Economics and complexity all’Università di Torino, ha esordito citando uno degli slogan diventati virali nel primo lockdown:“non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Slogan che accompagnava un certo spiraglio di speranza che la macchina capitalista potesse incepparsi. Una speranza delusa prestissimo, visto che con la nuova normalità il capitalismo ha dimostrato straordinaria capacità di ristrutturarsi: «un anno dopo siamo più poveri, disgregati e anche depressi».

Crisi economica ed esistenziale, tassi di disoccupazione impennati e soprattutto il vertiginoso aumento delle diseguaglianze, in particolare quelle di genere, sono i dati inequivocabili di questa ristrutturazione. A tutto questo si è accompagnata in questi mesi una narrazione pubblica, in cui il dibattito è stato completamente schiacciato tra aperturisti e responsabili: «questa semplificazione ci ha sottratto la possibilità, di confrontarci con le contraddizioni di questa fase e immaginare soluzioni di reale cambiamento e rivendicazione collettiva».

Per Eleonora priori va ricostruita un’idea di redistribuzione come cardine di un programma politico che abbia il reddito di base come primo elemento di autodeterminazione soggettiva e collettiva. Per questa ragione il Recovery Plan e il PNRR saranno i principali campi di battaglia nei mesi e negli anni a venire.

Ruggero Sorci, attivista del sindacato di base Adl Cobas, ha messo in luce il nesso tra finanza globale e imprenditoria nei processi di sfruttamento del lavoro vivo: «questa pandemia ha fatto aumentare non solo le rendite finanziarie, ma anche tutti i profitti delle grandi aziende e gli stipendi dei top manager, a fronte di un generale abbassamento dei salari». Siamo in una vera e propria guerra di classe condotta dall’alto verso il basso, alla quale concorrono gli stessi Stati. Basti pensare al fatto che obiettivo dichiarato e scritto del PNRR è quello di attrezzare lo Stato per favorire competitività nei mercati.

A tutto questo si aggiunge una narrazione pubblica che non lascia spazio ad alternative e la repressione di lotte non compatibili, anche con metodi non convenzionali, come sta accadendo nel settore della logistica.

Per queste ragioni, secondo Sorci, la vera sfida delle mobilitazioni No G20 è quella di ricostruire un tessuto sociale che rivendichi autodeterminazione e conflitto.

Anna Clara Basilicò, intervenuta per la piattaforma We are the Tide, ha spiegato come la finanza abbia a che fare sia con il lavoro produttivo e che riproduttivo. La fase che stiamo vivendo, tra le altre cose, ci dimostra come sia in crisi la capacità del capitalismo di creare "nature" a buon mercato che integrano il lavoro umano e il cambiamento ambientale in modo dinamico, ma allo stesso tempo distruttivo.

Questa crisi non sta però creando presupposti per una vera emancipazione sociale, anzi sta comprimendo sempre di più diritti, redditi e risorse. Questo sta generando una grande rabbia che deve essere messa a servizio della costruzione di orizzonte che dia realmente valore alle nostre vite.

Il G20 è la rappresentazione plastica delle decisioni prese dalla governance globale ed è per questo che va contestato con decisione attraverso un percorso che è naturalmente intersezionale, perché frutto delle lotte degli ultimi anni, in particolare sul fronte ecologista, transfemminista e decoloniale.