“No tenemos miedo”: la rivolta cilena raccontata da Manuele Franceschini

Intervista al regista della pellicola che ha raccontato le ribellioni in Cile partite nell'ottobre 2019

21 / 9 / 2022

“No tenemos miedo” del regista Manuele Franceschini, è un documentario che ti butta a capofitto nelle strade della rivolta, tra i caschi, le urla, il lancio di molotov della Primera Linea. Tutto ha inizio da “Plaza de la Dignidad”, la vecchia “Plaza Italia”, a Santiago de Chile, così ribattezzati dalla nuova, energica e colorata onda di giovani manifestanti che ha affrontato i carabineros lungo le strade della capitale cilena. Una ribellione che ha subito una repressione violenta, a colpi di lacrimogeni, idranti, pallettoni di gomma che hanno determinato decine di morti e centinaia di feriti, questi ultimi inferti agli occhi dei manifestanti dovuti ai pallettoni esplosi all’altezza d’uomo da parte dei carabineros.

Una ribellione nata inizialmente nell’ottobre del 2019 contro il rincaro del prezzo dei biglietti e poi sfociato negli scontri di piazza per chiedere più diritti e democrazia “Non sono trenta pesos, sono trent’anni”. Poi c’è anche il periodo del Covid. I manifestanti invitano a stare a casa per sicurezza, ma trasmettono le loro riflessioni e la loro rabbia pronta a riscendere in piazza in video appassionati realizzati nelle loro abitazioni.

Manuele Franceschini ha vissuto per ventitré anni in Brasile e per tredici in Cile, nella capitale Santiago. Tra i diversi suoi lavori si annoverano in qualità di regista il documentario “Biopirati”, prodotto da Zohar Cinema e Lucky Red Italy, del 2005, mentre come produttore cinematografico il documentario sulle dittature in Sudamerica “Condor”, regia di Roberto Mader. “No tenemos miedo”, prodotto dallo stesso Franceschini ed Andrea Occhipinti, è stato presentato al Festival di Roma nell’ottobre del 2021 e può essere visto online sulla piattaforma “Miocinema.com”. Di seguito un’intervista con Manuel Franceschini sul documentario girato in Cile qualche anno fa.

Le immagini della rivolta popolare ripresa in strada nel tuo documentario sono forti, nette, nitide, sembra di stare in prima persona attraverso lo schermo insieme alla primera linea. Come è stato possibile realizzare un documentario così dentro le dinamiche della piazza?

Con un’immagine un po’ romantica ma efficace, posso dire che io insieme alla mia troupe abbiamo seguito questo principio: meglio essere colpiti da una pallottola delle forze dell’ordine che da una pietra dei manifestanti, a cui noi ci sentivamo vicini. Per quanto riguarda la scelta più propriamente tecnica di come realizzare un documentario sulla rivolta dei giovani (e non solo) cileni, personalmente ho pensato di escludere la formula del montaggio di cellulari ed immagini di notiziari. Insieme alla mia troupe, di cui ha fatto parte anche mio figlio ventenne, volevamo essere in piazza con i manifestanti anche noi, insomma, stare direttamente in mezzo a loro. E proprio per stargli vicino, umanamente e politicamente, ci sembrava giusto fare così. Abbiamo anche escluso la scelta di stare dietro i cordoni della polizia, o di metterci defilati rispetto agli scontri di piazza rappresentando le scene come una partita di ping pong.

Mi sono insomma preso la libertà di girare irresponsabilmente, con l’appoggio di mio figlio, degli altri due cameraman, del tecnico del suono e della persona che ci metteva in contatto con la primera linea. Ci siamo immersi nella realtà. Questo ha comportato anche un modo di vivere le riprese girate in diretta con tutte le difficoltà del caso: penso al fatto che tornavamo a casa distrutti a fine giornata, levandoci le maschere antigas sfiancati, ma ne è valsa la pena.

Tu hai definito questa protesta dei giovani cileni come “dolorosissima e bellissima”. Cosa hai voluto dire?

Dolorosissima perché si è trattato di una ribellione con scontri di piazza ha comportato morti e feriti, però c’è anche tanta bellezza nel cercare di rompere uno status quo come nel caso del Cile, dopo trent’anni del falso ritorno alla democrazia e i diciassette anni di dittatura precedenti. In quelle piazze dove c’era chi lanciava le molotov, c’erano tantissime persone che per dare sostegno a chi era impegnato negli scontri, suonava i propri strumenti musicali, da soli o in gruppo. Si è trattata di una ribellione di piazza non solo nel senso degli scontri, ma c’è stato tantissimo colore, musica, produzione artistica. A questo aggiungo che sulla base di questo spirito ad esempio, alcune canzoni dei rapper cileni che sono state prodotte durante il periodo della rivolta della primera linea, pezzi diventati molto popolari, ci sono stati dati senza chiederci un soldo direttamente dagli artisti che le hanno realizzate, per il nostro documentario.

Cosa pensi del risultato del plebiscito costituzionale e della vittoria del rechazo?

Bhè, penso che a partire dal periodo della dittatura in Cile iniziata nel 1973, la classe dominante sia riuscita a fare un eccellente lavoro di egemonia politica e culturale nei confronti dei cittadini cileni. Non sono un raffinato analista o filosofo e per questo mi voglio riferire ad una frase di Don Chisciotte di Cervantes. C’è un dialogo in cui il protagonista Don Chisciotte dice a Sancho Pansa: “Stiamo lottando contro tre nemici giganti: l’ingiustizia, la paura e l’ignoranza”. Sono queste tre cose che a partire dalla dittatura sono state diffuse nella popolazione cilena. Certo, ci sono stati tanti colpi molto duri inferti a questi “tre giganti “di cui parla Cervantes, soprattutto negli ultimi anni; tra questi, quelli scagliati dalla primera linea a colpi di scontri di piazza, manifestazioni colorate e partecipate, musiche e sorrisi, sotto il motto di “No tenemos miedo”.