Non siamo angeli

Io non sono cattivo: ho soltanto il lato oscuro un po' pronunciato. Rossi Stuart/Vallanzasca

31 / 1 / 2011

Seconda metà degli anni '70. “Abbiamo sempre la pistola in tasca... siamo tutti della banda Vallanzasca...” era il ritornello di una canzonetta che circolava tra i ragazzini della Comasina, ma anche del Giambellino, della Bovisa e così via, fino a superare i confini di Milano e della Lombardia e a ispirare simpatia tra quelli che pensavano che c'era una rivoluzione da fare e che le rivoluzioni non si fanno armati di carte bollate. Quel giovane spavaldo, che era riuscito a evadere un paio di volte, che saltava il bancone in giacca e cravatta usando le buone maniere (...siamo dei professionisti, tranquilli e nessuno si farà male), che a fine carriera avrebbe collezionato più di settanta rapine, a più di qualcuno appariva come un cugino simpatico e rispettabile. I “cinque minuti di paura” (meglio quattro, se possibile) che servivano per “farsi” una banca allora erano piuttosto praticati: non c'erano tutte queste blindature elettroniche e soprattutto c'erano i soldi. Poi la festa è finita anche per lui e sono stati quattro ergastoli, quarant'anni di galera sofferti, centinaia di lettere di giovani donne, squadrette di guardie a regolare i conti, nessuna delazione, nessun pentimento. Sempre un “bravo ragazzo”.

Il finto scandalo del film di Michele Placido “Vallanzasca - Gli angeli del male” probabilmente si gioca qui. Bella faccia, belle maniere e una sorta di etica, di rigore morale nell'interpretare le regole della criminalità non vanno giù alla categoria sociale “parenti delle vittime”, che nella declinazione “vittime del terrorismo” molto si era fatta sentire in occasione dell'uscita del film di Renato De Maria “La prima linea” (e c'è mancato poco che Scamarcio fosse il protagonista anche qui). Nella declinazione “vittime del dovere” è invece categoria che alla Mostra di Venezia il ministro Maroni ha ritenuto di dover rappresentare sostenendo l'ipotesi che gli incassi del film dovessero essere dirottati in un apposito fondo gestito dallo Stato e a questa destinato: “il carnefice diventa un eroe e la vittima viene dimenticata”.

Non è (stato) ne carnefice ne eroe Renato Vallanzasca, classe 1950, da meno di un anno ammesso al regime di lavoro all'esterno. Un ragazzino che a otto anni viene fermato per la prima volta dalle forze dell'ordine perché voleva liberare una tigre del circo, che a meno di venti fonda la banda della Comasina, a ventidue viene incarcerato la prima volta. Poi evade. Poi succede che “non si torna mica indietro”, come dice il bravo Kim Rossi Stuart, che il progetto ha fortemente sostenuto incontrando Vallanzasca e collaborando alla sceneggiatura. Tolti i regolamenti di conti fuori e dentro il carcere l'unico carnefice che vediamo è un poliziotto che spara in testa a un rapinatore che giace in terra ferito e disarmato. Eroi non ce ne sono.

C'è una storia forte di malavita che si dipana tra una Milano che sta rapidamente diventando da bere (e da tirare), rapine, sequestri, soldi consumati in un lampo facendo la bella vita in un mondo sotterraneo da una parte e un circuito fatto di processi, 36 carceri diverse, evasioni tentate e riuscite, rivolte e violenze dall'altra. Senza mai perdere la faccia. Senza vendersi ne ai giudici ne alla mafia. Quella che si chiamava malavita pesante. Quella che pretendeva il rispetto delle regole. Quella che era capace di accollarsi omicidi non commessi. Quella che non c'è più. Gli autori decidono di perimetrare rigidamente il racconto in questo unico contesto, sfuggendo qualsiasi determinazione storica e sociologica, prestando grande attenzione al particolare scenografico, alle automobili, ai costumi. Alle psicologie. Un lavoro di scrittura cui ha partecipato anche la seconda moglie di Vallanzasca, che fu sua compagna d'infanzia. Un romanzo criminale preso dal vero, assai convincente nella rappresentazione di un percorso di formazione, della impossibilità di tornare indietro, determinato a evitare retorica ed estetismi alla “Mucchio Selvaggio”, a non mitizzare il personaggio, contrariamente a quanto i fustigatori associati sostengono. Solo da noi, vale sottolinearlo: nessuno ha protestato in Francia per il doppio film su Mesrine o in America per Johnny Depp nel ruolo di Dillinger. Anche se si tratta di fenomeno recente: nessuno protestò a suo tempo per i film di Vancini e Lizzani su Casaroli, Cavallero, Lutring. Ma, si sa, abbiamo perso il senso del ridicolo: bunga bunga docet.

Renato Vallanzasca è (stato) un bandito d'altri tempi, che non si è imbottito di cocaina come qualche suo amico finito per bruciarsi il cervello e la dignità, che ha pagato (e sta pagando) il conto che la giustizia gli ha presentato: questo narra il film. In modo asciutto, senza romanticismi, senza inclinazione alla simpatia per il personaggio. E se a qualcuno viene da pensare che c'è chi i conti con la giustizia non li pagherà mai è solo perché la realtà supera la fantasia.

Il racconto struttura un solido film di genere, compatto, di ritmo elevato e montaggio serrato, di ottima recitazione, Timi e Rossi Stuart su tutti. Centrato su un personaggio duro e controverso, fortemente mediatico. Coerente nel farsela tutta senza compromessi e senza ipocrisie, a cominciare dal mai richiesto perdono dei familiari delle vittime. Furbo, sbruffone, autolesionista, quanto leale, ironico, seduttore. Certo la faccia è quella di Rossi Stuart, ma anche l'originale non era male. L'attore romano non si limita a impadronirsi della cadenza da bauscia (e qualcuno ha fatto notare che Vallanzasca parla un italiano forbito – oggi, preciserei) e della gestualità del malavitoso, ma lavora sommessamente sulla rappresentazione di una sorta di ansia autodistruttiva, di bisogno di dannazione che stanno nel profondo, che si possono solo intuire. Sulla personalità di un uomo che si è visto morire ammazzati sotto gli occhi quattro amici, che porta le ferite di una quindicina di proiettili, che non ha mai sparato per primo, o alla schiena. Che non ha mai cercato scorciatoie nell'esecuzione della pena.

Gli “orrendi delitti” di cui si è macchiato sono il risultato di conflitti con le forze dell'ordine: come disse in un'intervista, ai poliziotti che ti sparano non puoi rispondere con un mazzo di fiori. Questo ha fatto sì che oggi Renato Vallanzasca sia un sessantenne un po' stempiato, con gli occhialini e una modesta pancetta, che ogni mattina esce dal carcere di Bollate per farvi ritorno dopo una giornata di lavoro, in una Milano molto diversa da com'era quando la sua batteria castigava banche e portavalori, madre comunque del ladruncolo che gli ha soffiato la bici che impiegava per raggiungere il lavoro. Vittima del suo modo di intendere le regole si è visto rifiutare la grazia da Napolitano nel 2007 e la libertà vigilata nel 2010. Si potrebbe osservare che quarant'anni di galera dovrebbero essere cifra in grado di risarcire qualsiasi offesa subita dalla collettività. Invece no.

Attorno al 20 gennaio di quest'anno è in permesso a Mondragone, città natale di sua moglie. E' con lei in albergo quando vi fanno irruzione i carabinieri per “effettuare un normalissimo quanto doveroso controllo”. Sembra che lui non la prenda tanto bene, tanto che il segretario della polizia penitenziaria si sente in dovere di fare rapporto al ministro di Giustizia informandolo che con “uso di parole oltraggiose riferiva di non essere un detenuto da quattro soldi, pretendendo di non essere controllato assiduamente”. Il governo Berlusconi – pur impegnato allo spasimo per proteggere il premier dalla giustizia – ha trovato il tempo di ripristinare il reato penale di oltraggio a pubblico ufficiale. Ora questa denuncia rischia di cancellare anche le ore di sottrazione al carcere previste dal lavoro all'esterno. Auguri, Renatino.

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