Oltre «Il Manifesto per il reddito di base»

3 / 5 / 2018

Riprendiamo da Effimera una meticolosa recensione di Andrea Fumagalli a Il Manifesto per il reddito di base di Federico Chicchi e Emanuele Leonardi, edito da Laterza nell’aprile del 2018. La recensione si sofferma anche sulla postfazione all’opera, scritta da Marta e Simone Fana.

ll Manifesto per il reddito di base di Federico Chicchi e Emanuele Leonardi (Laterza, Roma, 2018) è un’opera meritoria quanto necessaria, in un periodo in cui la tematica di un reddito sganciato dal lavoro è diventata oggetto di dibattito politico, spesso caratterizzato da distorsioni interpretative, ideologismo opportunista e sempre più da confusioni e ambiguità.

Solo negli ultimi due anni, numerosi sono i testi che hanno affrontato tale argomento, da diversi punti di vista: da quello più etico-filosofico (Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale, Il Mulino, Bologna, 2017) a quello più sociologico e politico (Guy Standing, Basic Income: And How We Can Make It Happen. Penguin Books, Londra, 2017); da quello più empirico in funzione della sua praticabilità (Sandro Gobetti, Luca Santini, Reddito di base. Tutto il mondo ne parla. Esperienze, proposte, sperimentazioni, goWare, Firenze, 2018), a quello welfaristico-europeo (Giuseppe Bronzini, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, Ed. Gruppo Abele, Roma, 2017) – sino alle riflessioni sul rapporto tra reddito di base e cambiamento tecnologico (Bin-Italia, QR7: Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica, 2017), sulla situazione italiana dopo l’introduzione del Rei (Bin-Italia, QR8: Oltre il Reddito di Inclusione, un reddito garantito come diritto di base, 2018), e in relazione alla questione di genere (Bin-Italia,  QR6: Non un reddito di meno. Reddito di base per l’autodeterminazione, 2017).

Si tratta di testi rigorosi e “sapienti” che hanno consentito di approfondire la proposta del reddito di base ma allo stesso tempo hanno reso la tematica complessa e multiforme.

Ben venga dunque questo agile Manifesto di 34 pagine, a cui segue una postfazione a cura di Marta Fana e Simone Fana di pari lunghezza. Si tratta di un Manifesto in grado di fissare alcuni punti fermi non solo su come bisogna intendere il reddito di base, ma anche soprattutto sugli obiettivi sociali, economici e politici che tale proposta di politica economica intenderebbe raggiungere.

Il Manifesto si articola in 7 punti, che richiamano e aggiornano uno dei testi (10 tesi sul reddito di cittadinanza) che ho scritto esattamente 20 anni fa (settembre 1998) e che ha contribuito a diffondere la proposta di reddito di base. Dopo aver definito il reddito di base come “un trasferimento monetario incondizionato, finanziato per via fiscale, erogato a tutte e tutti i residenti in una determinata comunità politica, spendibile sulla base delle preferenze dei destinatari, volto ad assicurare una somma di denaro sufficiente a condurre un’esistenza autonoma e degna”, il Manifesto analizza (punto 1) la crisi della forma salario come istituzione del fordismo, per poi scandagliare i fattori che hanno causato la crisi delle lotte sociali (1960-77) – punto 2 -, tra repressione e inadeguatezza a cogliere sin da subito le trasformazioni produttive e del lavoro che il capitale aveva cominciato ad attuare con l’avvio della fase post-fordista (1975-1990). È in questo passaggio che si coglie l’attualità della rivendicazione di un reddito di base incondizionato (e dobbiamo sottolineare l’attributo “incondizionato”) come reddito primario rispetto a una più tradizionale lotta salariale, eredità di un approccio lavorista, seppur conflittuale. Il punto 3 sottolinea infatti una distinzione sostanziale, quella tra ricchezza e valore (capitalistico), già presente nel Marx giovanile dei Manoscritti storico-filosofici del ‘44 e ripresa dalle recenti elaborazioni teoriche di Carlo Vercellone, Alfono Giuliani, Francesco Brancaccio e Perluigi Vattimo (Il comune come modo di produzione, Ombre Corte, Verona, 2016). Tale distinzione è oggi di nevralgica importanza, ai tempi del capitalismo bio-cognitivo,  del capitalismo delle piattaforme e dei big data – al cui interno è la vita e la riproduzione sociale (più che il lavoro certificato come produttivo) a costituire la base principale della valorizzazione capitalistica. Significa marcare l’esistenza di una separazione tra la generazione di una effettiva ricchezza sociale prodotta dalla cooperazione sociale e dal general intellect (non riconosciuta né certificata dall’istituzione salariale) e la sua espropriazione e sussunzione (alias sfruttamento) da parte del capitale (valore). È su tale distinzione che si giustifica il reddito di base come strumento di remunerazione e non semplicemente come assistenza.

Ecco, allora, che il reddito di base diventa strumento di emancipazione  in chiave conflittuale, cioè strumento di autodeterminazione anti-capitalistica. Ne consegue che la proposta di un reddito di base incondizionato (anche se non immediatamente universale) non può essere inteso come sostituzione del welfare state, ovvero come meccanismo di compensazione redistributiva a fronte dello smantellamento dello stato sociale come vorrebbero i liberal della Sylicon Valley. Su questo punto il Manifesto è estremamente chiaro (punto 6: Welfare vs reddito di base) cosi come era netta la tesi n. 8 nelle 10 del 1998:  «Il reddito di cittadinanza non é sostitutivo allo stato sociale, ma ne è complementare».

Il Manifesto si chiude con un’efficace (e salutare) metafora: «Ma quale pane e lavoro? Vogliamo ozio e champagne (molotov)!». Il proposito è chiaro e non possiamo che essere d’accordo  La battaglia per un reddito di base incondizionato non è pauperistica, non è una battaglia difensiva. Piuttosto è offensiva, in linea con la tesi conclusiva del pamphlet del 1998: “Il reddito di cittadinanza è strumento di ricomposizione sociale e di coscienza conflittuale in presenza di contrattazione individuale”.

Qui sta il merito del Manifesto di Chicchi e Leonardi: rilanciare (ancora una volta) in chiave conflittuale la proposta di un reddito di base incondizionato come potenziale strumento di sovversione dell’ordine costituito e, in tal modo, far piazza pulita delle diverse declinazione di un reddito di cittadinanza subordinato ai dettami della dello sfruttamento del lavoro al capitale.

Nell’appendice del Manifesto, l’attenzione è volta all’analisi della sostenibilità economica e finanziaria di un reddito incondizionato (dove per incondizionato non si intende il livello del reddito – mean tests –  ma le misure di restrizione comportamentale e/o dei consumi). Chi scrive si è già espresso al riguardo, come riconosciuto dai due autori (cfr. Il valore politico ed economico dell’incondizionalità nella proposta del reddito di base). E come da loro evidenziato, tra universalità e reddito incondizionato, ma limitato dai mean tests, sorge un trade-off. La questione è la seguente.

Siamo concordi nel sostenere un reddito di base universale e incondizionato come diritto umano. Ma il reddito è uno strumento non un fine, come lo è invece la libertà. È veicolo, condizione necessaria (anche se non sufficiente) per l’autodeterminazione dell’essere umano e la sua liberazione dalla schiavitù di un lavoro imposto (la maledizione di Adamo)  che, paradossalmente,  nega il suo essere “operoso”. Il reddito come diritto umano inalienabile non è quindi in discussione. Tuttavia, essendo anche uno strumento,  esso deve essere vagliato in base alla ricchezza sociale prodotta e espropriabile (sottolineo espropriabile). In termini concreti  l’incondizionatezza per essere realizzabile deve fare i conti con l’universalità. Siamo così di fronte ad un’ alternativa (trade-off):

1.       Seguendo l’impostazione universalistica alla Van Parijs (Il reddito di base. Una proposta radicale) se vogliamo dare a tutte/i un reddito incondizionato e universale degno, superiore come minimo alla soglia di povertà relativa (800 euro al mese), è necessario reperire risorse (nel caso dell’Italia) per un ammontare pari a circa il 40% del Pil, ovvero una cifra di poco inferiore al bilancio pubblico complessivo dello Stato. Una tale cifra è recuperabile solo annullando il ruolo dello Stato e privatizzando tutti i servizi sociali (come propongono i fautori “libertarian” del’imposta negativa sul reddito negli Usa – posizione, tuttavia non accettabile per Van Parijs). Il reddito universale e incondizionato ad un livello tale da ridurre il ricatto del bisogno e fuoriuscire da una condizione di povertà (anche relativa) ha come contraltare il completo smantellamento di ogni residuo di stato sociale. Coniugare il mantenimento dello stato sociale e l’universalità della misura sarebbe quindi possibile solo se il reddito di base ammontasse a poco più di 50-60 euro al mese – una somma che risulterebbe inutile sia ad uscire dalla povertà che a favorire l’autodeterminazione dell’individuo.

2.       Occorre quindi riconoscere che, mantenendo fermo il principio che il reddito di base è complementare e non sostitutivo dello Stato Sociale (come sostenuto da il Manifesto) e che nello stesso tempo deve essere pari come minimo alla linea della povertà relativa, il vincolo di risorse non consente la piena universalità. La cifra che si potrebbe recuperare (sempre con riferimento all’Italia), tra interventi fiscali, uso del quantitative easing, riforma degli ammortizzatori sociali, ecc.,  è al massimo di circa 60 miliardi. Il che significa poter disporre di un fondo per garantire un reddito incondizionato e in grado di favorire l’autonomia della persona di 10.000 euro all’anno a circa 12 milioni di persone, ovvero coloro che sono al di sotto della soglia di povertà relativa (circa 8,3 milioni di persone) più coloro che sono a rischio di povertà (altri 4 milioni di persone).

Di fronte a tale alternativa, pur riconoscendola, il Manifesto non si esprime in modo compiuto – pur lasciando intravvedere una preferenza per la seconda opzione. Ma è proprio su tale questione che si misura l’attendibilità (e quindi la praticabilità) di una proposta concreta di reddito di base. Occorre dunque scegliere se dare a tutti/tutte (a prescindere dal livello del reddito percepito), come diritto umano di base, una cifra insufficiente a sottrarsi al ricatto del bisogno oppure, in alternativa, garantire un livello di reddito sempre incondizionato (in termini di obblighi di comportamento e di consumo), ma selettivo sulla base di un criterio oggettivo come quello definito dall’attuale distribuzione del reddito. In altre parole, garantire un reddito incondizionato inizialmente solo a chi si trova al di sotto della linea di povertà relativa come soglia minima, senza dover così intaccare le misure di welfare oggi ancora esistenti.

Una volta declinate rigorosamente le ragioni economiche, politiche e sociali che giustificano l’introduzione di un reddito di base incondizionato, occorre ora inserire tale proposta all’interno di un più organico pacchetto di rivendicazioni per costruire un nuovo tipo di vertenza sociale. Non è nella natura di un manifesto addentrarsi nel difficile compito di tracciare una strategia politica. Tuttavia, vi è un punto che scaturisce logicamente dalla narrazione presentata e che merita di essere sottolineato, per un’eventuale trattazione futura: la centralità della tematica del welfare come ambito privilegiato di un conflitto che deve essere adeguato ai processi di valorizzazione dell’attuale capitalismo bio-cognitivo.

Più volte nel testo si fa riferimento alle lotte in corso sul terreno del welfare a partire dai movimenti delle donne come “Non una di meno” (tra le cui rivendicazioni compare non a caso la richiesta di un reddito di “autodeterminazione”). Il punto di partenza è il seguente: oggi il welfare è diventato un fattore di produzione sempre più nevralgico (al pari del consumo) ed è direttamente fonte di valore sia come sorgente di finanziarizzazione dei servizi sociali liberalizzati e privatizzati sia come perno su cui si esercita la governance dei processi vitali e relazionali. La riproduzione sociale (concetto che si estende ben otre il semplice lavoro di cura sino a comprendere la riproduzione biologica della vita e la gestione dell’intero tempo di vita) è sempre più centrale (al pari della produzione tradizionale) nel definire i sentieri dell’accumulazione capitalistica.

È in questo ambito che è possibile parlare di welfare del comune (Commonfare) come spazio di liberazione e di autodeterminazione della propria esistenza, in grado di favorire processi di sottrazione alla logica neo-liberista del ricatto e della mercificazione della vita. Risulta evidente che un reddito di base incondizionato ne costituisce uno dei perni centrali.

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Al Manifesto per il reddito di base si aggiunge una postfazione  a cura di Marta e Simone Fana. La postfazione parte da un punto del tutto condivisibile: «è necessario contestualizzare la proposta [del reddito di base] all’interno delle trasformazioni dell’assetto dei rapporti di produzione»[1].

Marta e Simone Fana riconoscono che «la grande novità del capitalismo odierno consiste nella capacità di mettere a valore ogni aspetto della vita quotidiana, ampliando la valorizzazione del processo di lavoro lungo tutto l’arco della vita sociale e mettendo fine alla divisione tradizionale tra tempo di lavoro e tempo di vita».

Non si poteva cominciare meglio. L’analisi che ne consegue, dopo aver ricordato (quasi con nostalgia) le basi del compromesso sociale fordista che era stato alla base delle misure di welfare keynesiano a partire dal rapporto Beveridge (National Insurance Act, approvato dal Parlamento del Regno Unito nel 1946), si sofferma sulla necessità di definire una nuova organizzazione del lavoro, in grado di cogliere questi cambiamenti. Si definisce in tal modo un piano conflittuale che dovrebbe essere in grado di influenzare «il potere di decisione sulla direzione degli investimenti e sul complesso dei consumi, individuali e collettivi». Detto in altre parole, avere voce in capitolo per decidere «del chi, come e cosa produrre». «In tal senso, le lotte per il salario e le rivendicazioni di un reddito di base costituiscono un tentativo di modificar i rapporti capitalistici di produzione, nel momento in cui intervengono nella relazione tra organizzazione del lavoro e vita sociale».

A differenza di alcune critiche all’ipotesi di reddito di base incondizionato, avanzate oramai più di 10 anni fa in un dibattito sulle pagine de Il Manifesto da Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi e Giovanna Vertova (autunno 2006) – secondo le quali la proposta di reddito di base era antitetica alla lotta sul salario (in quanto possibile causa di una sua riduzione) – i due Fana riconoscono che oggi «salario e reddito diventano due armi potenziali che non si escludono, se collocate al centro del rapporto di produzione che ha il suo spazio naturale nell’organizzazione della produzione».

È un passo in avanti, di cui non possiamo che compiacerci, anche alla luce del fatto che i sostenitori dell’introduzione di un reddito di base incondizionato hanno sempre affermato (si veda la tesi n. 7 del 1998) che tale misura deve essere accompagnata dall’introduzione di un salario minimo orario, a prescindere dalla prestazione lavorativa effettuata.

Tuttavia la lotta sul salario (e per una nuova organizzazione del lavoro) deve  essere propedeutica a quella del reddito. A sostegno di questa tesi, Marta e Simone Fana fanno riferimento alla vertenza Amazon. Le richiesta di aumento dei salari orari e di una migliore organizzazione del lavoro (le stesse richieste che sono al centro delle vertenze dei fattorini di Foodora e di Deliveroo) obbligherebbero la multinazionale dell’e-commerce a modificare il suo ciclo di accumulazione e a aumentare il livello degli investimenti. Se tali richieste venissero accettate (fatto che ci piacerebbe molto, in quanto solidali se non partecipi a tali lotte), allora si potrebbero creare le condizione per una ridefinizione dell’attuale struttura di distribuzione del reddito sino a poter immaginare forme di reddito sganciato dal lavoro. Scrivono infatti: «In questo caso, una lotta per il salario può creare le condizioni economiche per la distribuzione del sovrappiù anche verso forme di reddito di base».

In altre parole, pur riconoscendo che salario e reddito (in chiave conflittuale, come sostenuto da Il Manifesto)  non sono più in contraddizione, la proposta di reddito è subordinata alla lotta per il salario. Prima il salario, poi, se si creano i rapporti di forza adeguati, il reddito.

È proprio tale nesso di causa e effetto che nel capitalismo bio-cognitivo non funziona più. Ed è da questa impasse che le sole lotte sul posto di lavoro non sono in grado di sviluppare una capacità offensiva – ma, al limite, sono in grado di arrestare (temporaneamente) l’offensiva del capitale. E le lotte sulla logistica ci pare lo confermino.

Di tale problematicità Marta e Simone Fana sono comunque consapevoli. Questo nodo viene letto all’interno della dicotomia “consumi vs produzione”. Scrivono i nostri: «è necessario misurarsi con i limiti delle letture fin qui proposte, ma superate dal Manifesto, che tendono ad isolare il consumo dal terreno della produzione, cioè dal potere di comando del capitale sulle scelte del chi, come e cosa produrre. Allo stesso tempo è necessario sbarazzarsi dell’idea di un primato assoluto della sfera classica della produzione su quella della riproduzione, della fabbrica sulla società».

Il reddito come remunerazione del consumo, il salario come remunerazione della produzione e poiché è la produzione a determinare il consumo, ne consegue che prima viene il salario e poi il reddito (come «potere di autodeterminazione individuale e collettiva fuori dal controllo totalizzante dei rapporti di produzione, oscurando le contraddizioni che emergono nella ‘produzione’ degli stessi bisogni»).

In questa dicotomia tra produzione e consumo si colloca la dicotomia tra reddito e welfare.  Riteniamo che nell’attuale contesto di accumulazione bio-cognitiva, tale separazione abbia perso di senso e non sia più adeguata (come lo era in passato) a cogliere gli emergenti processi di valorizzazione. La stessa dicotomia tra lavoro improduttivo e lavoro improduttivo deve essere rivista se non abbandonata.

Marta e Simone Fana chiudono la loro analisi critica de Il Manifesto ribadendo tale distinzione. Sarebbe necessaria, infatti, «una riflessione che deve tenere conto a livello macroeconomico del legame tra attività che ricadono nella sfera produttiva, quelle capaci di generare reddito, e attività che rientrano nella sfera improduttiva, funzionale al consumo del reddito prodotto. Nel primo insieme ricadono le attività nel settore industriale e della produzione di beni strumentali o di consumo; il secondo insieme comprende i servizi sociali ed educativi, le attività collegate alla circolazione delle merci e dei prodotti servizi e attività che inevitabilmente incorporano pezzi del primo insieme».

Tale affermazione non tiene conto:

-          del fatto che oggi il welfare – come precedentemente ricordato – è uno dei  principali terreni su cui si organizza la produzione. La stessa evoluzione del progresso tecnologico si sta indirizzando verso lo sfruttamento delle tecnologie della vita (dalla bio-genetica a seguito della decrittura del genoma umano sino alla manipolazione della vita umana come fonte primaria di dati – industria dei big data), in grado di ampliare la valorizzazione sino a incorporare il valore di rete e il valore-vita (oltre al valore-lavoro) come fonte diretta di profitto e soprattutto rendita finanziaria. In questo quadro, il welfare (nelle sue componenti principali: previdenza, salute, istruzione) è direttamente un fattore di produzione;

-          del ruolo sempre più rilevante della ri/produzione sociale, progressivamente privatizzata ma centrale nella “manutenzione” non solo del corpo fisico, ma anche delle relazioni e della gestione di un tempo di vita sempre più intriso di attività produttive (certificate, quindi remunerate, e non certificate, pertanto non remunerate), come sottolineato da Cristina Morini nella sua recensione al libro della stessa Marta Fana.

L’affermazione iniziale della postfazione, da cui siamo partiti, («la grande novità del capitalismo odierno consiste nella capacità di mettere a valore ogni aspetto della vita quotidiana, ampliando la valorizzazione del processo di lavoro lungo tutto l’arco della vita sociale e mettendo fine alla divisione tradizionale tra tempo di lavoro e tempo di vita mettendo fine alla divisione tradizionale tra tempo di lavoro e tempo di vita») viene così smentita e contraddetta, per riproporre l’antica e tradizionale dicotomia tra salario e reddito.

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Tutto chiaro, dunque? Niente affatto. Rimane aperta la questione di come sviluppare una vertenza sociale per un reddito incondizionato, in chiave conflittuale, in grado di incidere anche sulla dinamica salariale e sull’organizzazione del lavoro. Con l’obiettivo di essere noi a decidere «chi, come e che cosa produrre».

Nonostante lo sviluppo (in alcune casi eroico) di conflittualità sul e nel lavoro (ne fanno fede le lotte nel settore della logistica, il collo di bottiglia della produzione per flussi del capitalismo contemporaneo), siamo costretti a riconoscere che di questi tempi i rapporti di forza sono assai sfavorevoli all’affrancamento della condizione lavorativa. Frammentazione, precarietà, debito, immaginario dell’imprenditore di se stesso e l’economia della promessa sviluppano più fattori di dumping sociale e individualismo che processi di solidarietà e ricomposizione sociale. Certo, la crisi della rappresentanza tradizionale del lavoro svolge un ruolo importante, ma non è la sola causa. Il ricatto del bisogno, acuito dalla crisi del lavoro e dalla sua svalorizzazione (con un preoccupante aumento di prestazioni sottopagate se non del tutte gratuite), è oggi dirimente e sotto gli occhi di tutte/i.

Tuttavia, riteniamo che sia proprio il limitarsi al solo conflitto sulle condizioni di lavoro a essere la causa principale dell’attuale impasse. Dedicarsi alla sola battaglia per il salario con esclusivo riferimento a quei segmenti del lavoro salariato che più ne soffrono è oggi una strategia perdente. Non che le ragioni di una tale battaglia non siano sacrosante, ma se essa non sarà svolta in un’ottica di ricomposizione sociale più ampia difficilmente riuscirà ad avere quella massa critica necessaria per iniziare un processo di trasformazione sociale anti-liberista. In una simile prospettiva, la battaglia per un reddito di base incondizionato ingloba quella salariale e favorisce quella ricomposizione sociale che oggi, in modo ottuso, alcuni settori del movimento anticapitalista non riescono a cogliere.

A quando una manifestazione nazionale per il reddito incondizionato, oltre il lavoro?

Note

[1] Le parti tra virgolette sono tutte citazioni tratte dalla postfazione.

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