Porti, logistica e sistema Paese.

Recensione di "Il futuro europeo della portualità italiana" di Paolo Costa e Maurizio Maresca, edito da Marsilio.

24 / 2 / 2014

Qui di seguito riprendiamo alcuni stralci, per noi emblematici, della recensione del libro "Il futuro europeo della portualità italiana." di Paolo Costa e Maurizio Maresca, scritta da Sergio Bologna, studioso del movimento operaio e grande esperto del settori trasporti e della circolazione delle merci. La recensione integrale è qui presente in allegato.

Porti, logistica e sistema Paese. A proposito di un libro importante.


Paolo Costa, Maurizio Maresca, Il futuro europeo della portualità italiana. Prefazione di Romano Prodi e di Luciano Violante, Marsilio Editori, Venezia 2014.

Per parlare seriamente di questo libro che, al di là delle valutazioni, è destinato a diventare importante per merito della visibilità che Paolo Costa ha saputo dare alle sue idee progettuali, occorre non farsi condizionare dal moto d’istintiva bocciatura che coglie molti del nostro ambiente di fronte alla sua idea di terminal off shore. Questo libro va giudicato per qualcosa d’altro e di più vasto respiro, va giudicato per la vision, come si usa dire oggi, che sta alla base delle sua argomentazioni. Osservata da questo angolo visuale, l’azione di Paolo Costa, da quando si è insediato alla Presidenza dell’Autorità Portuale di Venezia, ha avuto il merito di immettere una ventata di aria fresca nell’asfittica atmosfera della portualità italiana, dove da dieci anni non si fa che parlare di fondali e di dragaggi. Aria fresca significa costringere l’ambiente portuale a vedere le cose da un punto di vista intellettualmente più complesso e articolato. Significa soprattutto che non si può parlare di portualità senza chiedersi qual è il modello di sviluppo al quale un’idea di porto deve corrispondere. Piaccia o non piaccia Costa ha costretto l’ambiente marittimo-portuale ad alzare lo sguardo, ad uscire dalla sua autoreferenzialità che, oltretutto, in questi anni si è ulteriormente impoverita riducendo ogni questione alle problematiche del container.

Ma le ventate d’aria fresca non sempre fanno bene alla salute, anzi, se non si prendono le dovute precauzioni, soprattutto da parte di soggetti già deboli di costituzione (e il sistema Italia lo è), si rischia di beccare una broncopolmonite.

Segue analisi sulle origini, sviluppo, dinamiche della crisi e riconversione del settore della logistica portuale [NdR].

Anzi, a voler essere precisi, in Italia è accaduto l’opposto di quanto sostengono gli autori, perché il rapporto tra occupati e incremento dei volumi non è stato così drammaticamente divergente come al Nord, l’utilizzo di forza lavoro flessibile ed a costo inferiore rispetto al lavoro dipendente ha ridotto gli investimenti in capitale fisso, in tecnologie avanzate, ed ha quindi penalizzato la produttività, non l’occupazione. Che cosa è successo dopo la legge 84/94, quando il “famigerato” art. 110 del Codice della Navigazione è stato superato? Intanto va ricordato agli smemorati che nel porto di La Spezia, dove oggi opera ancora il secondo terminal container italiano, ben prima della legge 84/94 l’organizzazione del lavoro nel porto era profondamente cambiata e la Contship poteva lavorare tranquillamente con propri dipendenti e con una cooperativa senza ricorrere alla mano d’opera della Compagnia. Leggere che a Genova la situazione oggi sarebbe peggiore rispetto agli anni 70 e 80 è veramente intollerabile. Se così fosse non si capirebbe perché Genova è ancora il primo porto italiano e perché i suoi terminal contenitori sono riusciti a sfiorare l’asticella dei due milioni di Teu nel 2013. Se invece di sfrugugliare nei codici i nostri autori si degnassero di dare un’occhiata a come la Compagnia lavora nel porto di Genova potrebbero constatare che la CULMV offre all’utenza un livello di flessibilità organizzata e una specializzazione della mano d’opera che mai e poi mai potrebbe essere sostituita da un lavoro interinale. Ad Anversa, dove esiste il pool di mano d’opera gestito unitariamente da Ministero del Lavoro, imprenditori e sindacati, ci sono quattro chiamate giornaliere, a Genova ce ne sono sette e se calcoliamo i turni spezzati o che si accavallano possiamo arrivare anche a 10, 12, con preavvisi di un’ora, un’ora e mezza, via sms. Il contratto nazionale dei lavoratori del porto prevede che tra un turno e l’altro debbano esserci 11 ore di pausa (a proposito, i nostri autori sanno che esiste un contatto nazionale dei porti firmato dalle tre confederazioni sindacali che riguarda non solo il personale delle Autorità ma anche i dipendenti dei terminals? E se lo sanno perché non ne fanno cenno e dipingono un quadro dal quale sembra che nei porti regni la più totale anarchia o il quotidiano sopruso?). I soci della Compagnia spesso fanno passare solo sei ore, cinque ore tra un turno e l’altro. I nostri autori dovrebbero rivolgersi al Presidente di Confitarma, Emanuele Grimaldi, che è anche AD del Gruppo Grimaldi Napoli, per sapere se le sue navi quando arrivano a Genova trovano dei lavoratori incapaci, pigri, lenti. Vengono servite a qualunque orario arrivino, appena finito l’ormeggio, con una velocità che riduce al minimo i tempi di sosta nel porto (a parità di semirimorchi da sbarcare e imbarcare sulla stessa nave mi piacerebbe sapere in quale porto italiano le operazioni si fanno più velocemente). Come si fa a dire che la presenza dei rallisti della Compagnia nel lavoro di sbarco/imbarco dei traghetti incide negativamente sull’occupazione? Semmai è l’autoproduzione, l’impiego dell’equipaggio della nave per le operazioni portuali che può avere questo effetto. Sostenere che la presenza o la flessibilità delle Compagnie hanno impedito l’occupazione stabile sui terminal è davvero inaccettabile. Dopo l’incremento di produttività è il costo del lavoro dipendente la principale causa di una mancata crescita dell’occupazione in Italia, non è sostenibile un costo di 5.000 euro mensili per un gruista, che ne guadagna meno della metà con gli straordinari. Violante scrive di “massima esternalizzazione del servizio di carico e scarico”, non è vero, anche nei terminal nei quali esiste una forte presenza della Compagnia Portuale, le gru di banchina sono azionate da dipendenti, le Compagnie sono impiegate nei servizi ausiliari, come il rizzaggio e il derizzaggio, solo in casi eccezionali, per esempio durante i periodi in cui si concentrano le ferie dei dipendenti, può accadere che qualche socio di Compagnia salga su una gru per rimpiazzarli, certi terminalisti piuttosto di far salire un socio di Compagnia sulle loro gru di banchina fermano il lavoro di sbarco/imbarco. Né mi risulta che ci siano terminalisti che affidano la conduzione delle gru a una cooperativa esterna. Al limite una Gottwald ma non una Pacheco. La tesi degli autori del libro che l’organizzazione del lavoro nei porti non garantisce la sicurezza dovrebbe essere meglio argomentata, la responsabilità della sicurezza è in capo al terminalista, solo gli artt. 16 sono direttamente responsabili della sicurezza. Forse a qualcuno disturba che le Compagnie godano di ammortizzatori sociali come l’IMA (indennità di mancato avviamento), costui dovrebbe forse meditare sul fatto che in Italia esiste la possibilità che un lavoratore dipendente resti inattivo per anni pur percependo un salario, tramite la Cassa Integrazione (fa venire i brividi pensare che la stabilità sociale del Paese oggi sia appesa al chiodo traballante della CIG, dovesse cedere quel chiodo che succederebbe?) Ogni cosa va messa nel suo contesto, per darle la giusta proporzione, l’”anomalia” portuale risulta ben piccola cosa se messa a paragone con le tante anomalie di questo Paese. Concordo invece con l’osservazione che ogni porto fa un po’ quel che gli pare, che non ci sono comportamenti uniformi, del resto lo stesso studio ISFORT aveva parlato di Far West, ma questo è determinato dal fatto che si è cercato in tutti i modi di limitare il potere delle Compagnie facendo ricorso a cooperative esterne. Questa situazione indubbiamente crea delle forti distorsioni alla concorrenza tra porti, Genova e Trieste possono essere considerate agli antipodi. A me stupisce invece la pace sociale che regna nei porti italiani, quando vedo Los Angeles, Rotterdam , Hong Kong e tanti altri hub mondiali paralizzati per settimane intere da scioperi selvaggi. Ma lo stupore si trasforma in indignazione per certi giudizi avventati quando dal lavoro nei porti passiamo al lavoro nella logistica. Com’è noto da circa un anno i conflitti nei grandi centri di distribuzione si sono fatti frequenti, con scioperi, blocchi stradali, scontri con la polizia, denunce, licenziamenti. Violenze? No, sacrosante proteste, che hanno strappato il velo su una condizione vergognosa nella quale per anni, ignorati da tutti, prefetti e magistrati, ispettori del lavoro e amministratori, decine di migliaia di addetti al facchinaggio sono stati sfruttati da una nuova generazione di caporali e da cooperative più o meno fasulle, che, promosse inizialmente dai sindacati, hanno visto man mano accrescersi l’infiltrazione mafiosa, non solo nelle aree private ma anche nelle aree di Interporti pubblici. Sono stati i Cobas a ricordare a questi lavoratori che esistono dei contratti nazionali e che oltre ai doveri hanno anche dei diritti. Li hanno trattati per la prima volta da cittadini e non da schiavi. Il Paese dovrebbe essere loro grato, penso io, ed invece una parte consistente del ceto politico e sindacale erede del movimento e del partito nato sulle ceneri di Gramsci e nel quale ha militato anche Luciano Violante li accusa di essere forze eversive. Lo scandalo sarebbe la Compagnia di Genova mentre nei magazzini della logistica tutto normale? E’ di fronte a situazioni come queste che mi convinco di vivere veramente in un Paese da Terzo Mondo, confermando quello che dicevo all’inizio. Qui ne parlo perché c’è gente nell’ambiente marittimo-portuale che vorrebbe trasferire le pratiche in uso in tanti magazzini della logistica all’interno dei porti, se non proprio sulle banchine, sulle aree immediatamente retrostanti. E questa tentazione riprende fiato oggi in concomitanza con la proposta dei distretti logistici, secondo un’ottica che è proprio l’opposto di quel che si dovrebbe fare per evitare che il sistema logistico italiano sprofondi definitivamente nella miseria. Sono certo che non è questa l’intenzione degli autori di questo volume ma, vista la situazione, è meglio dirlo esplicitamente che darlo per scontato. Se è necessario rivedere l’ordinamento previsto dalla legge 84/94 in materia di lavoro, si proceda, affrontando il problema con coraggio e decisione ma – per favore - con un minimo di onestà intellettuale. I primi a guadagnarne saranno i lavoratori.

Sergio Bologna

Tratto da http://www.aiom.fvg.it/

Recensione di Sergio Bologna