Le riflessioni che seguono sono finalizzate a ricostruire e analizzare gli scenari drammatici che sono all’origine del bisogno, non più disconoscibile, di restituire un volto umano ai luoghi abitati dalle persone, ovvero, per usare un’espressione di nuovo ‘conio’ cara a Riccardo Petrella, di ri-cittadinare la città.
Scenari e cornici
Da oltre tre decenni (a partire almeno dagli anni ottanta, ma con
qualche anticipazione già alla fine degli anni settanta), il problema
dell’impoverimento crescente di larghe fasce della popolazione e
dell’allargamento costante della forbice della disuguaglianza, determinata
dai processi epocali di trasformazione socio-economica in atto, è
andato di pari passo con la difficoltà, mai completamente risolta, di leggere
in modo compiuto e sistemico la natura dei fenomeni da esaminare.
In particolare, nell’affrontare la riflessione sull’esclusione sociale,
sono mancati concetti, chiavi di lettura e percorsi di inchiesta/ricerca adeguati,
capaci di dar conto del combinarsi, e talvolta del sovrapporsi, di
problematiche differenti di disuguaglianza e processi multifattoriali di
esclusione. Nel frattempo le aree dell’esclusione si sono estese e moltiplicate,
soprattutto nei quartieri popolari e nelle zone periferiche delle
città e dei territori extraurbani, e le istituzioni pubbliche si sono rivelate
sempre meno capaci di intervenire in modo coerente per rimuovere le
cause di questo devastante fenomeno, fonte di ulteriore impoverimento
per soggetti che già vivono una situazione di minorità ed emarginazione.
Un ruolo preminente in questa riflessione dovrebbe essere svolto dalla
valutazione dell’impatto che ha sulle condizioni di vita delle persone la
nuova fenomenologia della questione sociale, che riguarda innanzitutto
il processo di precarizzazione sociale ed esistenziale, cui sono soggette parti crescenti di popolazione, e la dicotomia stabile/precario, che attraversa
i principali sistemi di integrazione sociale: il lavoro, la famiglia, il
sistema di welfare.
In questo quadro la nozione di vulnerabilità si riferisce alla presenza
sempre più numerosa di individui (non solo migranti, ma in misura crescente
ampie ‘fette’ di popolazione autoctona), che vivono una condizione
di ‘fluttuazione’ nella struttura sociale e che ne popolano interstizi e zone
marginali senza trovare un posto assegnato e senza poter fruire di uno
status di piena cittadinanza ed esercizio di diritti sociali fondamentali.
La storica rottura con il modello della società salariale, consistita nel
progressivo indebolimento dell’attività economica come canale privilegiato
di integrazione sociale e supporto fondamentale per l’acquisizione
di diritti di piena cittadinanza, è uno dei cambiamenti all’origine di questa
deriva di impoverimento ed emarginazione che con la crisi ha raggiunto
proporzioni e caratteristiche devastanti. Essa ha avuto tra le sue cause
prime la cosiddetta ‘flessibilizzazione’ del lavoro, ovvero la costituzione
di rapporti di lavoro fondati sulla realizzazione immediata di compiti di
lavoro e sullo sfruttamento ‘usa e getta’ di una potenzialità lavorativa che
prescinde da qualsiasi logica di valorizzazione, in prospettiva e in una
logica di sviluppo professionale e personale, del bagaglio di competenze
e della professionalità del lavoratore/operatore.
Già nel 1996 Robert Castel, lo studioso francese scomparso di recente
(e subito dopo Luciano Gallino con i suoi illuminanti contributi sulla
flessibilità del lavoro), aveva colto la centralità e la natura strutturale
e intenzionale di questo fenomeno:
“Il problema attuale non riguarda
soltanto la costituzione di una periferia precaria, ma anche la destabilizzazione
degli stabili. (…) Non c’è niente di marginale in questa dinamica
(…), la precarizzazione del lavoro è un processo centrale, determinato
dalle nuove esigenze tecnologico-economiche connesse all’evoluzione
del capitalismo moderno”.
Come aveva previsto Castel, sono stati sostanzialmente tre i processi
(peraltro ancora in corso: basti pensare alle recenti riforme del mercato
del lavoro, ultima quella rovinosa del Jobs Act) in cui si è articolata la
precarizzazione del lavoro: la destabilizzazione di chi è stabile, ovvero
l’abbassamento del livello di vita e di continuità della classe operaia integrata
e dei salariati della classe media; l’insediamento nella precarietà di una vasta popolazione di disoccupati ricorrenti; la creazione di una
popolazione ‘soprannumeraria’ di soggetti che non trovano una collocazione
occupazionale, o non trovano una collocazione occupazionale soddisfacente,
a causa della carenza della domanda di lavoro (disoccupati
di lunga durata, beneficiari di sussidi assistenziali, giovani in cerca di
occupazione, lavoratori flessibili e precari, etc.).
Un altro importante fattore che ha contribuito a determinare la vulnerabilità
multifattoriale di cui soffre tanta parte della popolazione è rappresentata
dalla perdita graduale di densità delle reti familiari e relazionali
primarie, che si trasformano via via da luoghi di forte radicamento relazionale
a tessuti composti da trame fragili e sempre più rade, fino ai casi
in cui i soggetti sono lasciati nell’isolamento sociale.
Le trasformazioni
profonde intervenute nei modelli organizzativi familiari e nei rapporti
tra le generazioni testimoniano non soltanto un cambiamento epocale
dell’idea di famiglia, ma riflettono ancor più profondamente una progressiva
frammentazione e individualizzazione della vita sociale e il graduale
venir meno della funzione affiliativa della famiglia e delle reti parentali/
amicali di riferimento. Se nella società salariale la coesione sociale era
garantita dall’associazione tra lavoro stabile e inserimento relazionale,
oggi la vulnerabilità nasce proprio all’incrocio tra la precarizzazione del
lavoro e la fragilizzazione dei supporti di prossimità.
Vulnerabilità sociale: vecchi e nuovi “vulnerabili”
Potremmo dunque tentare una definizione di vulnerabilità sociale come
una situazione di vita caratterizzata dall’inserimento precario nei canali
d’accesso alle risorse materiali fondamentali (lavoro e reddito, ma anche
benefici erogati dal welfare state) e/o dalla fragilità del tessuto relazionale
di riferimento (la famiglia e le reti sociali territoriali). L’elemento caratterizzante
non è semplicemente un deficit di risorse ma un’esposizione a
processi di disarticolazione sociale che raggiunge un livello critico, ovvero
mette a repentaglio la stabilità dei modelli di organizzazione della
vita quotidiana e genera un impoverimento economico ed esistenziale
complessivo e organico. Nella condizione di vulnerabilità conta non
soltanto la mancanza di risorse, ma anche la riduzione delle possibilità
di scelta (che si esprime in rallentamento dei processi, differimento di
azioni di scelta, etc.). Si tratta in altri termini di immaginare uno spazio sociale che rientra
all’interno di un triangolo definito a suo tempo da Costanzo Ranci in
“Le nuove disuguaglianze sociali in Italia” il triangolo del rischio (2002).
Tale triangolo è suggestivamente formato da tre vertici:
- la disponibilità limitata delle risorse di base necessarie alla sopravvivenza
e alla riproduzione familiare (un livello di reddito insufficiente,
l’eccessiva dipendenza dal reddito di pochi percettori, un’abitazione al
di sotto degli standard minimi e di dimensioni insufficienti alle esigenze
familiari, la mancanza di adeguati benefici di welfare per chi è impossibilitato,
per età o per altri motivi, a procurarsi direttamente il reddito
necessario);
- la scarsa integrazione nelle reti sociali che sono principalmente due:
da un lato quella connessa alla situazione occupazionale e dall’altro quella
connessa alle relazioni familiari e amicali (i segnali di indebolimento
delle forme di integrazione sono rappresentate rispettivamente dalla disoccupazione
o dalla precarietà lavorativa da un lato, dalla scarsità o impossibilità
degli aiuti forniti dalla famiglia allargata, dalle relazioni di
vicinato e di amicizia, dalla rete di servizi di welfare dall’altro).
- le limitate capacità di fronteggiamento delle situazioni di difficoltà,
indicate da un livello di acquisizione relativamente inferiore rispetto a
quello raggiunto da altri soggetti con le medesime opportunità di partenza
(acquisizioni relative all’istruzione, allo stato di salute, all’accesso ai
principali mezzi di informazione, alla partecipazione alla vita sociale e
politica, all’uso dei servizi di pubblica utilità).
Vulnerabilità intesa dunque come un’area sociale in cui questi diversi
aspetti sono variamente compresenti, combinati tra loro in modo da formare
equilibri e forme di compensazione alquanto diversificate. Nello
schema che segue si indicano i fattori rilevanti che possono portare da
una condizione di difficoltà socio-professionale a una condizione di vera
e propria esclusione sociale.
Accanto a tutti quei soggetti che, trovandosi in una situazione di svantaggio
sociale, hanno già avuto un riconoscimento normativo della loro
debolezza che dovrebbe facilitarne l’ingresso nel mercato del lavoro e
il riconoscimento di pari opportunità (ovvero le categorie di lavoratori
svantaggiati contemplate dalle direttive europee), si sono sviluppate
dunque negli ultimi anni nuove aree di vulnerabilità in progressiva e preoccupante
espansione.
Ponendo l’accento sugli effetti negativi indotti dal mercato, le fasce
deboli, nella letteratura dedicata e non, sono state definite di volta in volta
“soprannumerari” (indicando con tale termine chi non è stato invalidato
da una patologia fisica o mentale bensì dagli effetti del mercato), “normali
inutili” o “poveri abili” (secondo Amartya Sen).
Il loro “problema” nasce da un mercato sempre più selettivo e ipercompetetivo
che, a fronte di una riduzione dei posti di lavoro in particolari
settori e distretti, li rende “inutili” e non immediatamente funzionali allo
sviluppo economico del sistema (al contrario della classe operaia della
società industriale che non poteva essere esclusa dai processi produttivi
perché forza necessaria alla accumulazione del capitale). Il senso di inadeguatezza
e competizione generato da tali processi, unito alla frammentazione
sociale che rende difficoltosa la ricerca di soluzioni collettive a
problematiche di vulnerabilità vissute il più delle volte individualmente e
in solitudine, ha prodotto quel devastante impatto sulla coesione sociale
i cui effetti negativi sono a noi tristemente noti.
E quando alla condizione di disoccupazione o precarietà (con sempre
maggiore frequenza) si accompagnano i numerosi altri fattori di disagio
e debolezza descritti in precedenza (mancanza di domicilio o precarietà
abitativa, basso livello di scolarità, bassa qualificazione professionale,
isolamento sociale, difficoltà nell’accesso ai servizi, lontananza dalle istituzioni,
scarsa autonomia culturale, gap tecnologico…), il moltiplicarsi
di bisogni richiede risposte plurali e improntate a un approccio sistemico.
Pena la scarsa o nulla efficacia di qualsiasi azione di ricerca, inserimento
o consolidamento lavorativo e il rischio di un progressivo “scivolamento”
verso una condizione di esclusione sociale a tutto tondo.
Attraverso l’inchiesta e l’azione sociale e solidale, è necessario invertire
questa tendenza distruttiva ed emarginante, partendo dall’analisi del
fenomeno dell’impoverimento e dell’esclusione sociale nelle sue diverse
articolazioni e affrontando la molteplicità e complessità dei bisogni/diritti
a cui occorre dare risposte non più differibili. Perché la sofferenza è
ormai pervasiva e sta raggiungendo livelli di intollerabilità mai registrati
prima. Perché opporre la consapevolezza dell’alternatività trasformatrice
(di pensiero, di lotta e di azione sociale/solidale) alla consapevolezza
lucida e delittuosa del liberismo redivivo non è più rinviabile.
Un capitolo ancora da scrivere per (ri)costruire la città che vogliamo.