Ricerca/inchiesta "Città migranti 2.0. Il lavoro migrante al tempo della crisi"

Un’inchiesta nelle città di Rimini e Reggio Emilia curata da Ass. Cttà Migrante e Ass. Rumori sinistri

1 / 11 / 2010

Città Migranti 2.0

Con questa piccola pubblicazione - che segue il primo lavoro di inchiesta "Città Migranti - Un anno di attività allo sportello di Bologna, Reggio Emilia e Rimini" - cerchiamo di aprire nuove ed ulteriori riflessioni, intorno al paradigma della clandestinità e dello sfruttamento migrante conseguentemente al loro rafforzamento dentro la crisi.
Abbiamo provato a farlo partendo dalle persone che si sono rivolte ai nostri Sportelli. Persone che, con le loro richieste, bisogni, necessità e soprattutto le loro vite, ci raccontano molto di più di quello che pensiamo di conoscere rispetto agli effetti devastanti che il nuovo lessico della politica del governo delle migrazioni sta mettendo in campo.
È attraverso le loro parole che impariamo a comprendere le modificazioni che stanno avvenendo nella nostra società, a capire gli effetti drammatici della crisi e le limitazioni dei diritti di cittadinanza, delle libertà civili che riguardano tutti e tutte noi.
(dall’introduzione del libro a cura delle autrici F. Zambelli e M. Ricci)

Premessa alla pubblicazione di Sandro Mezzadra*
La presenza migrante in Italia, ormai radicata e matura, si trova oggi a fare i conti con la realtà drammatica della crisi economica globale. A dispetto di quanti si sono affannati in questi ultimi mesi a dichiararla conclusa, o a invocare una ormai anacronistica separazione tra economia finanziaria ed economia “reale”, la crisi cominciata nel 2008 con l’esplosione della bolla immobiliare dei subprime negli USA (quando non la si voglia retrodatare alla crisi della new economy che ha aperto il nuovo millennio) continua a produrre i suoi effetti, incidendo sul lavoro, disarticolando i diritti di cittadinanza e riorganizzando violentemente la geografia sociale e produttiva dei territori: anche dei nostri, ovviamente. Dalle serre ai campi del Sud, dai cantieri edili alle piccole e medie fabbriche metalmeccaniche, dalla pesca ai lavori di cura, per riprendere alcuni dei luoghi e dei settori menzionati nella preziosa raccolta di “storie di vita” inclusa in questo volume, i e le migranti sono tra i soggetti che stanno pagando (anzi, come emerge chiaramente dall’analisi dei questionari: che hanno già pagato) il prezzo più alto per la crisi.
La loro precarietà occupazionale è per loro come raddoppiata da una più radicale precarietà esistenziale e le discriminazioni quotidiane subite per il colore della loro pelle o per il semplice fatto di essere “stranieri” tendono ad aumentare nella misura in cui più dure e incerte si fanno le condizioni di tutti e non mancano imprenditori politici e istituzionali del razzismo. Già lo avevamo capito ai tempi della rivolta di Rosarno, al più tardi, ascoltando le interviste con i tanti migranti africani che erano andati a fare la raccolta delle arance dopo aver perso il lavoro nelle fabbriche del nord.
Non è certo la prima volta, d’altro canto, che una crisi economica “epocale” colpisce in modo particolarmente duro i lavoratori migranti. Dopo la crisi del ’29, parallelamente all’avvio del New Deal, circa mezzo milione di messicani furono deportati dagli Stati Uniti, insieme a molti dei loro figli nati in territorio statunitense. La crisi dei primi anni Settanta fu affrontata dal governo tedesco-federale, presto seguito da altri governi europei, con il cosiddetto Anwerbestopp: il blocco del reclutamento di forza lavoro migrante e la predisposizione di programmi per il rimpatrio di quei lavoratori stranieri che, dopo aver svolto un ruolo essenziale negli anni della grande crescita post-bellica, risultavano improvvisamente “in esubero”. Già in questo secondo caso, tuttavia, i piani di rimpatrio (a cui corrispondeva una precisa volontà di esportazione degli effetti sociali della crisi, e in primo luogo della disoccupazione, verso i paesi di provenienza dei migranti) erano sostanzialmente falliti. Nel medio periodo si ebbe anzi un consolidamento della presenza migrante, dovuto alla resistenza opposta da reti sociali ormai mature, che costituirono le basi materiali per la permanenza nei paesi di immigrazione e in un secondo momento, passati gli effetti più duri della crisi, l’avvio o la ripresa dei “ricongiungimenti familiari”.
Le cose non sembrano stare diversamente oggi, come confermano segnali provenienti non solo dall’Europa, ma anche dagli Stati Uniti, dai Paesi del Golfo e dal mondo delle colossali migrazioni interne cinesi. Semmai, le reti sociali costruite dalle migrazioni si sono fatte ancor più transnazionali e transcontinentali, hanno incrementato la loro flessibilità e consentono un gran numero di strategie per fronteggiare la crisi – da brevi ritorni in “patria” per far passare il momento più brutto a spostamenti in altri paesi per fare poi ritorno in quello scelto per vivere. Certo, c’è chi come Abul, di cui si può leggere la testimonianza nelle pagine seguenti, dice: “non ho più le forze. Torno a casa”. Ma non è questa la reazione più diffusa, come si può vedere agevolmente scorrendo le pagine di questo lavoro: e soprattutto, non è detto in alcun modo che Abul torni a casa per rimanervi.
I e le migranti, restando nei territori in cui da anni vivono e lavorano, resistono alla crisi. Resistono in modo per dir così “elementare”, affermando il proprio diritto a restare contro condizioni, quelle imposte dal capitale finanziario, che si fanno sempre più dure. Una resistenza elementare, certo: ma elementare è anche la resistenza di milioni di cittadine e cittadini greci che si sollevano contro l’attacco alla loro stessa vita condotto dal governo per conto di quello stesso capitale finanziario. È più facile vedere la “politicità” di questa seconda forma di resistenza, perché si esprime (anche) in forme pubbliche, attraverso scioperi e manifestazioni di piazza. Ma se una cosa ci ha insegnato la grande tradizione dell’inchiesta militante e della con-ricerca, è precisamente che dobbiamo sapere leggere nella materialità quotidiana dei comportamenti e delle pratiche degli sfruttati non solo le forme di adeguamento e di negoziazione con l’esistente, ma anche la tensione a sottrarsi ai suoi imperativi e a sabotarne le logiche.
È per questa ragione che lavori come quello che qui si presenta – ispirato non solo da rigore metodologico ma anche da passione militante – sono particolarmente preziosi: perché producono una conoscenza di parte della realtà, e ci aiutano a riconoscere il profilo di una politicità a venire.
Come viene messo puntualmente in evidenza nelle pagine che seguono, anche nei territori a cui si riferisce la ricerca la crisi fa emergere in piena luce il carico di violenza e arbitrio connaturato all’esistenza del “contratto di soggiorno” – ovvero al nesso strettissimo (che non riguarda solo l’Italia, ma che assume qui caratteri particolari) tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. È proprio questa, anzi, la radice di quella precarietà esistenziale che, come si diceva all’inizio, interviene a duplicare la precarietà occupazionale: se prima della crisi il “contratto di soggiorno” costituiva un ostacolo alla mobilità sociale e occupazionale (nel senso che vincolava il singolo migrante a un singolo posto di lavoro, moltiplicando il rischio implicito nella decisione di abbandonarlo per cercarne uno migliore), ora lo spettro del licenziamento porta con sé quello della “clandestinità”. È la stessa dicotomia tra legalità e illegalità (tra migranti “regolari” e “clandestini”) a mostrarsi definitivamente per quello che è: un comodo paravento agitato per non fare i conti con la realtà, ovvero con la continua produzione di “clandestinità” (di “irregolarità forzata”, scrivono le autrici nella loro introduzione) attraverso le stesse leggi che regolano la posizione dello “straniero non comunitario” in Italia.
La continua reversibilità dello status di migrante “regolare”, qui attestata in modo particolarmente efficace, si aggiunge così a una gestione degli ingressi che ha fatto dei cosiddetti “decreti flussi” vere e proprie micro-sanatorie, gestite ogni anno in modo arbitrario ai fini di determinare (per citare ancora le autrici) “una gestione differenziata dei tempi e della canalizzazione della messa a lavoro” dei migranti già presenti sul territorio in condizioni di “irregolarità”. Si capisce come, in questo quadro, la “clandestinità” (che le retoriche dominanti non distinguono dall’“irregolarità”) non sia riconducibile a comportamenti devianti dei singoli, a onta della sua qualificazione come “reato” nel cosiddetto “pacchetto sicurezza”, ma rappresenti a tutti gli effetti un elemento costitutivo e strutturale della “normale” biografia migratoria. Chi non vede tutto questo, e non si mobilita per lo smantellamento del nesso tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro e per un nuovo sistema di gestione degli ingressi, semplicemente non lo vuole vedere. E si rende complice dell’azione di un insieme di dispositivi di dominio e sfruttamento che non si limitano a scaricare i loro effetti sulle donne e sugli uomini migranti, ma introducono elementi di violenza e sopraffazione nella trama stessa della nostra cittadinanza, alimentano quotidianamente il razzismo e lacerano ulteriormente tessuti sociali e territoriali già duramente colpiti dalla crisi.
I due casi documentati in dettaglio nelle pagine che seguono, quello del lavoro stagionale a Rimini e quello dell’Italedil a Reggio Emilia, mostrano a sufficienza come l’intreccio di genere e “razza” possa costituire un terreno particolarmente fertile per il fiorire di forme di iper-sfruttamento, e come al tempo stesso la continua produzione di “irregolarità” attraverso le vigenti leggi sull’immigrazione possa nutrire lo sviluppo del racket e di economie illegali. Ma questi due casi offrono anche prime indicazioni sulla possibilità di costruire percorsi di lotta e organizzazione che a partire dalla rivendicazione dei più elementari diritti (al salario, all’indennità di disoccupazione) investano altri terreni, tra cui spicca per drammaticità quello del diritto alla casa. “Vogliamo l’uguaglianza”, dice Cisse concludendo il suo istruttivo racconto.
Tra le “eccedenze” e gli “esuberi” che qualcuno vorrebbe “tagliare” nel tempo della crisi, rientra probabilmente anche lui: Cisse è un migrante senegalese oggi in cassa integrazione, dopo dodici anni trascorsi in Italia lavorando in conceria e “nella produzione di panettone e pandoro” prima di approdare a un’azienda metalmeccanica di Reggio Emilia.
La sua “eccedenza”, per noi, è solo quella di un sogno di uguaglianza e di libertà che cercheremo di condividere con lui, costruendo dentro e contro la crisi le condizioni di una cooperazione sociale e di una vita comune più ricca – appunto più libera e più uguale.
*Professore associato di “Storia delle dottrine Politiche” presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna

“Città Migranti 2.0” libro/inchiesta realizzato a cura di Associazione Città Migrante-Reggio Emilia e Associazione Rumori Sinistri -Rimini
in collaborazione con Progetto Melting Pot Europa
con il contributo di VolaBO, Centro Servizi per il Volontariato di Bologna e provincia nell’ambito del progetto interprovinciale “Migranti, uno sguardo d’insieme”

Il libro è disponibile gratuitamente presso:
-  Reggio Emilia: Tutti i mercoled’ dalle 17 alle 20 presso Sportello Migranti, via F.lli manfredi,14 - [email protected]
-  Rimini: Tutti i giovedì dalle 18.00 alle 20.00 presso lo Sportello Migranti, via Tonini, 5 (Casa della Pace)- [email protected]
Contatta le associazioni anche per organizzare presentazioni dell’inchiesta

Presentazioni:
-  Presentazione della pubblicazione Venerdì 22 Ottobre a Rimini
-  Presentazione della pubblicazione Giovedì 28 ottobre a Reggio Emilia

Rimini - Presentazione della ricerca "Città migranti 2.0. Il lavoro migrante al tempo della crisi"