Venezia, S.a.L.E.Docks

Riflessioni preliminari e parziali sul Nationless Pavilion (da rivedere tra sette giorni).

Al via i laboratori del Nationless Pavilion. Il 31 ottobre la presentazione dei lavori.

25 / 10 / 2015

di Marco Baravalle (S.a.L.E.-Docks)

Cos'è il Nationless Pavilion

Arte partecipativa, community based art e simili sono formule che ci mettono a disagio. Ciò non è dovuto a dubbi riguardo alla loro ascrivibilità all'ambito artistico. Esse sono indubbiamente arte, perché le condizioni storiche e materiali del presente le hanno accolte nell'ambito istituzionale dell'arte, nel mercato, nell'ordine discorsivo, ecc. Ci interessa invece riflettere sulla funzione sociale “larga” di queste pratiche, poichè esse hanno la pretesa di ricoprire una tale funzione, cioè di misurarsi, in un “dentro-fuori” rispetto all'alveo istituzionale, con le contraddizioni del presente.
Superiamo quindi la domanda “questa è arte?” e interroghiamoci intorno agli attributi assegnati a questa tipologia di lavori: “partecipativo” e “comunitario”.
Qui nutriamo più di un dubbio e non è necessario tornare ai Situazionisti, riprendere la loro critica all'urbanistica come educazione capitalistica dello spazio. E' infatti evidente in quale misura il termine partecipazione sia oggi utilizzato dalla pianificazione (e dai pianificatori) come dispositivo di riduzione dei conflitti, come pratica di de-politicizzazione di frammenti della composizione metropolitana, come sequestro dell'esercizio della decisione che una “classe” di specialisti avocherebbe a sé e al proprio ruolo di facilitazione. Tra l'altro è utile aggiungere che la partecipazione e la sua facilitazione contribuiscono alla riduzione della decisione a rituale senza conseguenze. Effetto ampiamente rintracciabile nella cronaca dei nostri tempi che mostra un progressivo allontanamento del diritto di decidere non solo dai cittadini, ma anche dai loro rappresentanti negli Enti Locali.
Torniamo ai pianificatori, immaginate l'incubo di una città che si trasforma da spazio dell'eccedenza, della singolarità, della produzione di nuove forme di vita e di conflitti, in un parco giochi di burocrati intrisi di ideologia metodologica. Partecipazione è anche sinonimo di pratiche di prossimità, di costruzione di comunità omogenee, di rifugio in quella dimensione micropolitica troppo spesso celebrata, ma raramente problematizzata come consolatorio dispositivo di omologazione, programmato per produrre esternalità alla mercé della finaziarizzazione urbana.
Due parole sulla formula “community based”. Qui abbiamo scelto da tempo: al termine comunità preferiamo il termine comune. Come costruire dunque pratiche artistiche “common based”? Pratiche artistiche che producano una tensione, una frizione con la gestione neoliberale dello spazio urbano, che dimostrino un impatto continuato, che mostrino perlomeno una tensione costituente? Come rompere l'alleanza tra artista e pianificatore che funziona dentro la neutralizzazione degli elementi conflittuali e permette a entrambe le figure di continuare tranquillamente a fare l'artista e a fare il pianificatore, a utilizzare lo spazio urbano come un white cube e la comunità come un amalgama apolitico, come piccola massa di manovra “senza qualità” se non quella dell'essere locale, attributo sempre buono da spendere sul mercato dell'arte e della ricerca. Come uscire dunque dalla dicotomia, individuata da Pascal Gielen, tra pratiche artistiche community based auto-relazionali (ovvero aventi come effetto l'affermazione della “funzione artista”) e quello allo-relazionali (ovvero aventi come effetto lo scioglimento della “funzione artista” in dinamiche sociali larghe)?
Sia chiaro, al S.a.L.E. non nutriamo rancore nei confronti dell'arte, né pensiamo che la funzione “attivista” possa semplicemente sostituire quella di artista. Sarebbe ingenuo.
Quello che tentiamo (e che tenteremo anche con il Nationless Pavilion) è la costruzione di un concatenamento tra una soggettività di movimento e alcune funzioni, qui in particolare quelle dell'artista, del curatore, del rifugiato politico, del migrante e del richiedente asilo. Il risultato non è scontato. Non è assolutamente in dubbio la qualità del lavoro curatoriale del team di Nation 25 (a cui dobbiamo gratitudine per averci coinvolti), nemmeno la serietà di Emilio Fantin o di Denis Maksimov. Il progetto nasce come laboratorio artistico, saranno quindi gli artisti a impostare il lavoro e avranno un peso importante nel determinare l'impatto soggettivo dell'esperienza, ma anche il collettivo del S.a.L.E. parteciperà a questo processo. Ciò che ci auguriamo è che il S.a.L.E. venga percepito dai partecipanti come uno spazio fisico e sociale aperto alla costruzione di una relazione politica con tutti loro, un luogo di “accoglienza culturale” disponibile agli sviluppi che, speriamo, il laboratorio possa prefigurare. E' con questo obbiettivo che scommettiamo sulla concatenazione tra soggettività di movimento e funzione artista, fiduciosi che sapremo evitare la nauseabonda palude del politicamente corretto, l'autoreferenzialità dei militanti, il colonialismo delle pratiche community based sulla dimensione locale, la strumentalizzazione o la riduzione dei migranti a vittime, a destinatari di un welfare culturale che dovrebbe sostituire i diritti ad un'accoglienza degna che l'Europa nega. Vorremmo rompere il dispositivo di separazione che l'industria culturale cittadina genera tra operatori culturali e migranti. I primi parlano spesso dei secondi, ma raramente parlano con loro. Impariamo dall'esodo epocale di questi mesi. Facciamo in modo che il nostro laboratorio sia un momento di rottura e di violazione di questo ennesimo confine invisibile.

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