S01E01 - Marvel matters. Sulla serie dei supereroi di Netflix

La saga dei Defenders rappresenta un momento di transizione sociale di fronte a tante contraddizioni, rapporti di potere e crisi

11 / 1 / 2017

Da due anni Netflix ha deciso di investire sulla trasposizione televisiva delle serie a fumetti Marvel. Da Agents of S.H.I.E.L.D ai Defenders, gli eroi disegnati a colori sulle pagine di carta sono passati dall’essere protagonisti cinematografici (Spiderman, Iron Man, Captain America, The Avengers, ecc..) a diventare di nuovo personaggi quotidiani e seriali. In quest’ultima versione, per quanto non completamente esenti, gli episodi riescono a limitare le scene d’azione ritmate da acrobazie e battutine sarcastiche con tanto di effetti speciali e stunt (sia chiaro, a chi scrive queste scene piacciono da morire, ma non è questo il punto). Non credo sia solo una questione di budget: sembra che i registi ed i produttori siano piuttosto sensibili a raffigurare la profondità e dinamicità che caratterizzano gli eroi dei fumetti. La serialità e lo sviluppo della trama in più episodi non potrebbe tenere se ci fossero solo scene spettacolari senza dei dialoghi sensati che problematizzano i fatti recenti ed indagano sugli antefatti, sul passato dei personaggi. Come per i loro corrispettivi cartacei, dei personaggi televisivi non seguiamo la loro vicenda, o nascita come eroi, in senso cronologico, ma veniamo subito catapultati in medias res nelle loro vite. Molti dei crossover e degli intrecci che compongono la fabula del complicato universo Marvel sono infatti impliciti o supposti, talvolta vengono presi in esame solo perché si crea un collegamento interessante ai fini della trama presente. Parimenti a moltissime altre trasposizioni cinematografiche di romanzi, anche per le serie televisive ci sono delle distorsioni, seppure non troppo pesanti, rispetto alle vicende narrate nei fumetti.

E’ interessante provare a capire il perché della scelta da parte del colosso Netflix, ormai seconda solo all’HBO, di riprendere gli eroi Marvel. In particolare, vorrei concentrarmi sulla saga dei Defenders.

Se da una parte si è seguito indubbiamente un trend economico segnato soprattutto dal cinema, o una captatio benevolentia del pubblico fan dei fumetti, dall’altra credo si possano fare dei parallelismi con altre tipologie di serie televisive ed il clima culturale e sociale che ha contornato la gestazione degli eroi Marvel negli Stati Uniti degli anni Cinquanta-Sessanta. E’ bene partire da questa analogia con il passato per facilitare la comprensione del revival Marvel.

Il realismo Marvel

L’editore Stan Lee ha fatto la storia della narrativa a fumetti a partire da un profondo antagonismo: quello vissuto contro la storica rivale della Marvel, la DC Comics. Quest’ultima, sulla scia del clima di censura e di neopuritanesimo dei Fifties, sceglie di tornare ai classici degli anni Trenta come Batman per non incorrere nelle critiche conservatrici contro le tavole disegnate per rappresentare la criminalità, lo spaccio di droga, la corruzione della classe dirigente, gli effetti della Guerra fredda, insomma i problemi politici dell’immediato secondo dopoguerra. E’ così che produce The Justice League, una masnada di eroi con i superpoteri il cui obiettivo è proteggere la nazione ed i valori della libertà in salsa americana (i cosiddetti vigilantes). Sono i restauratori dell’ordine, i protettori di queste libertà contro qualsiasi minaccia, esterna o interna, ad essere l’oggetto dell’edizione targata DC (insomma, proprio dei democratici progressisti questi della DC …). Lee, invece, concepisce dei personaggi sì con delle abilità super-umane o inumane, ma che sono alle prese con le difficoltà, le debolezze, le avversità della vita di tutti i giorni. Spiderman non è solo l’uomo ragno mascherato che spara ragnatele dal polso per saltare da un palazzo all’altro di New York: è anche Peter Parker, adolescente alle prese con il liceo e tutti i problemi di quest’età, dagli amori alle difficoltà economiche. « I personaggi sarebbero quei personaggi a cui puoi personalmente richiamarti; sono di carne e sangue, hanno le loro colpe e le loro fisime», dice Lee. I personaggi devono discostarsi dalle rappresentazioni perfette ed iconiche dei supereroi classici, perché i loro poteri non devono essere altro che metafora estremizzata – un’iperbole, quasi – di ciò che vive il ceto medio in espansione e che inizia a scolarizzarsi negli anni Sessanta. In un certo senso, le trame e le relazioni tra i personaggi devono trovare appoggio nella materialità, nella vita quotidiana e nei cambiamenti storici che vengono vissuti sulla pelle delle persone; non da motivi ideologici che vogliono elevare una virtù (nazionale, bianca, ecc..) sopra il vizio dei costumi. Tra l’altro, il parlare della vita comune è un modo riflesso di interloquire con le dinamiche politiche dell’epoca senza affrontarle direttamente, alla radice, ma nelle loro principali conseguenze. Un modo intelligente, anche questo, per evitare la censura puritana conservando la critica sociale e la raffigurazione di tutti gli usi della società. Prendiamo ad esempio i Fantastic Four. Nelle intenzioni di Lee sono quattro eroi uniti da un vincolo molto vicino a quello che esiste in famiglia, pur non essendo tutti e quattro dei consanguinei. La famiglia nucleare è la sicurezza su cui gioca la governamentalità degli Stati Uniti: attraverso di essa si è protetti dalla minaccia di invasione e si ha un’identità altra da quella del Grande Nemico, dell’Oriente; non solo, la famiglia è l’ambiente nel quale si potrà sviluppare la libertà economica americana. Chissà perché la letteratura psicoanalitica prolifera così tanto negli Stati Uniti in quegli anni, ed inizia la fissazione sulla coltivazione fin dalle tenera età del capitale umano. Ecco, Lee rappresenta una famiglia con tutti i ruoli tradizionali (padre, madre, figlio responsabile, figlio mascalzone) che, però, subiscono continuamente delle crisi. Ogni personaggio cerca di coltivare il suo interesse andando al di là del nucleo unitario; le stesse relazioni parentali fuoriescono dai legami di sangue. Proprio in quegli anni, la famiglia tradizionale inizia a sentire i suoi primi strattoni, come dimostra l’aumento del numero di divorzi, la diffusione della criminalità giovanile che fa discutere della famiglia dal punto di vista educativo, la mancanza di un sentire unico tra i membri per scelte di vita completamente differenti.

Potremmo parlare anche di Mr. Fantastic e del suo lato umano, il dottor Reed Richards, ovvero l’uomo di scienza rappresentante il dibattito sulle nuove tecnologie nucleari per scopi bellici e la fede affinché la scienza possa aiutare l’umanità, non distruggerla. Purtroppo, per adesso, non ne troviamo lo spazio.

Insomma, Spiderman, Mr. Fantastic, i Fantastici Quattro non sono nient’altro, in fin dei conti, che noi.

Una narrazione differente

La società dell’inizio degli anni Sessanta era in una profonda transizione: non per niente prelude ai movimenti sociali giovanili, femministi, operai ed identitari del ’68. In maniera diversa, la transizione, il tempo sospeso tra un “già stato” e un “non ancora”, è quello che viviamo dall’inizio della crisi del 2008. Una crisi che nasconde dietro di sé tante contraddizioni (ambientale, sociale, di identità). Fin qui possiamo vedere bene uno dei parallelismi tra l’oggi e il passato.

Un altro confronto che si può vedere più difficilmente, forse perché un po’ artificioso, è la ripresa delle opere Marvel per segnare un punto, uno scarto rispetto ad un certo tipo di narrazione. Certo, non mancano le serie televisive di critica e/o analisi sociale sia realista che non, sia con utopie che con distopie; così come sono onnipresenti le serie che si fondano molto sui problemi quotidiani della vita di ciascuno, dai teen drama a quelle più adulte. E’ anche vero, però, che negli ultimi dieci anni c’è stata un’esplosione per diversi motivi del genere fantasy per ogni età e immaginario, sfruttando in parte l’universo della letteratura cartacea. Il fantasy è capace di rendere visibili tantissime contraddizioni sociali e politiche, usando immagini spettacolari e meravigliose che riescono ad ingigantire quegli aspetti del reale altrimenti più difficoltosi da trovare. D’altra parte, il prezzo da pagare, molto spesso, è quello della fuga dalla realtà, quindi di una difficoltà di identificazione endogena al genere che si può creare quando i mondi rappresentati sono così distanti dai nostri da essere troppo irreali. Una fuga che può diventare facilmente un anestetico, un comodo rifugio, piuttosto che un’arma per capire meglio il presente e cercare di cambiarlo.

Il genere superhero colma parzialmente questo vuoto. Sempre di universi fantastici e con le proprie leggi e regole parliamo, ma è un universo che coesiste alla raffigurazione del quotidiano, anzi ne è interno. Si può parlare degli alieni che appaiono sui cieli di New York con poteri pari a quelli del Thor della saga del Nibelungo, ma gli occhi che li osserveranno saranno quelli dell’abitante di Hell’s Kitchen, Harlem o Brooklyn. Di nuovo, chi ha la super-forza potrà pure prendere a schiaffoni il mafioso di quartiere o chi può provocare onde sismiche con un movimento della mano, ma tornando a casa o peggio nel mentre di tutto questo si troverà costretto a subire una violenza di genere, un’aggressione da parte della polizia o a pagare l’affitto.  L’irreale è parte del reale, ne è solo un’estremizzazione. Non è un metodo più efficace per descrivere le contraddizioni presenti in un’epoca in cui si stanno moltiplicando? Magari la ripresa dei fumetti Marvel, stabilendo questo parallelo storico tra anni Cinquanta-Sessanta e secondo decennio del Duemila, può trovare il suo senso in questa prospettiva.

Uno specchio delle tante crisi

«E’ da due ore che si parla delle contraddizioni e della transizione ma ancora non si capisce cosa siano», si dirà a questo punto. Mi scuso per la lunghezza, forse non è il modo migliore per iniziare questa rubrica: sarà l’ossessione ed il fanatismo per le serie ad averla dettata. Confido nella comprensione dei più. Ripariamo il danno, allora. Di cosa stiamo parlando? Abbiamo anticipato che ci saremmo concentrati sulla saga dei Defenders. Netflix ha prodotto quattro serie corrispondenti ai quattro protagonisti della saga: Jessica Jones, Luke Cage, Daredevil e Iron Fist (quest’ultima ancora inedita). Le quattro serie vedono dei crossover tra di loro (Jessica Jones e Luke Cage per adesso) e la presenza del personaggio dell’infermiera Claire Temple (Rosario Dawson) ricorrere in tutte. Nell’autunno del 2017 dovrebbe uscire la vera e propria serie The Defenders, che vedrà per la prima volta collaborare i quattro supereroi. Voglio dedicare a ciascun personaggio la giusta narrazione, quindi non mi dilungherò (per fortuna, penserete) ad un’analisi dettagliata qui ed ora. Giusto come spoiler, posso dire che ognuno di questi personaggi vive una contraddizione che nel presente vivono in molti/e di noi, per la quale il 99% della popolazione lotta per avere una prospettiva di felicità e dignità future. Ciascuno/a degli eroi o eroine interpreta un’ansia, un’aspettativa, un senso comune che si scontra con un altro, una problematica attuale. Tutti loro abitano e condividono, più o meno, lo stesso territorio newyorkese: Hell’s Kitchen, area adiacente a Manhattan di origine operaia che negli ultimi decenni ha subito una fortissima gentrificazione.

Tra le strade ed i vicoli del quartiere, Jessica Jones (Krysten Ritter) non è solo costretta a mettere in vendita i suoi superpoteri per pagarsi l’affitto e l’alcol (anche se di pessima qualità): la sua forza fisica non serve a niente quando deve affrontare gli stereotipi di genere sulla sua pelle o, peggio, quando questi stereotipi si trasformano nell’incubo della violenza di genere e dell’abuso.

Luke Cage (Mike Colter), invece, torna in una Harlem, dopo essere stato ad Hell’s Kitchen, investita dalla riqualificazione in cui si infiltrano interessi che poco hanno a che vedere con la risoluzione della subalternità di classe ed etnica che gli afroamericani vivono da sempre. Nel bel mezzo della militarizzazione dei quartieri da parte di una polizia sempre più violenta contro i neri, diciamo che una pelle di acciaio può essere utile per evitare che ci sia una vittima in più.

Tornando ad Hell’s Kitchen, se si ha improvvisamente aiuto di qualcuno si può chiamare Matt Murdock (Charlie Cox), a.k.a Daredevil. L’eroe mascherato può pure fare della sua disabilità una virtù super-umana, ma nonostante la sua morale sa che l’affitto non si pagherà da solo, che il lavoro non è scontato, che non esistono mezzi legali per abbattere i veri rulers del quartiere gentrificato nel quale abita e lavora. 

Contro cosa e chi combattono gli eroi? Quale vita condividono con noi? Nelle prossime settimane, cercheremo di vederlo assieme. Nel frattempo, se non l’avete fatto, guardate le serie!