S03E01 - Chi parla a nome dell’adolescenza?

28 / 12 / 2018

13 Reasons Why, Elite, Baby, Skam. Chi, come me, ha assistito all’ascesa e al declino dei teen drama tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, non potrà nascondere una certa riluttanza a immergersi negli episodi delle nuove serie a tema adolescenza e affini. L’età, si dirà, non è più adatta, non volendo cercare uno specchio della propria vita e preoccupazioni in un prodotto seriale. Cosa ce ne facciamo, oggi, delle serie che hanno come protagoniste le esistenze degli adolescenti, noi che l’adolescenza ce la siamo lasciati alle spalle? Di fronte alla fragilità dell’essere umano, viene da ridere della presunzione di associare al superamento dell’adolescenza la liberazione ultima da sofferenze, insicurezze, paranoie, inquietudini. Da almeno vent’anni parliamo di precarietà esistenziale mica per dare aria alla bocca.

Ridimensionata la supponenza dei giovani adulti, ma anche dei giovani genitori o degli adulti “adulti”, resta comunque la diffidenza verso il genere del teen drama. Davvero abbiamo bisogno dell’ennesimo Dawson, con il suo sogno di diventare regista e realizzare l’American dream, magari provvisto di Instragram per promuovere i suoi montaggi video? Oppure di quei liceali bianchissimi e ricchissimi di Beverly Hills, luogo geografico diventato utopico agli occhi di un ragazzo o di una ragazza adolescente negli Stati Uniti o in Europa? E che dire dei giovani supereroi o supereroine, che hanno sulle spalle responsabilità più pesanti degli adulti e parlano come loro? Quante storie di vampiri immortali e ragazzine mortali dobbiamo sorbirci? I riferimenti culturali rasentano il ridicolo se facciamo tornare la mente sulla rappresentazione nostrana dei giovani in Un medico in famiglia

Nonostante la narrazione seriale di quegli anni avesse a più riprese affrontato temi riconosciuti e familiari ai giovanissimi di allora, la resa televisiva aveva sempre avuto un approccio incantato, fornendo un prodotto perlopiù irrealistico in confronto alle abitudini, agli usi e ai costumi delle e degli adolescenti. Dal linguaggio parlato preso dal vocabolario canonizzato della lingua del Paese di produzione, immune allo slang e alle trasformazioni semantiche e lessicali, fino alla descrizione delle relazioni amicali e sentimentali o dei conflitti generazionali, i personaggi dei teen drama si ergevano a modelli, a riflesso iperbolico di come gli adolescenti avrebbero dovuto sentirsi, agire, reagire, indignarsi, amare. L’adolescenza, cioè, veniva interpretata con il significato mutuato dalle scienze della formazione: essa si riduceva a fase di passaggio in cui i giovanissimi acquisivano conoscenze e provavano esperienze che li avrebbero traghettati dritti fino alla maturità (sic!). Ferme restando deviazioni temporanee dalla normale crescita e l’immancabile gusto della trasgressione, i teen drama supponevano che, prima o poi, i protagonisti sarebbe arrivati alla meta finale, non troppo dissimile dall’esempio dei loro genitori: matrimoni duraturi, famiglie felici da Mulino bianco, lavoro e carriera, sguardo nostalgico e giudicante delle bravate passate.

Far parlare gli adolescenti con la voce degli adulti: questo l’approccio che guidava la stesura delle sceneggiature. I copioni e l’impronta narratologica si scostavano da una restituzione delle forme di comunicazione, delle idee, dell’orizzonte simbolico che le nuove generazioni iniziavano a delineare, spesso facendo incrinare l’eredità culturale e le aspettative dei padri e delle madri. Avevamo bisogno di alcune sperimentazioni originali come la serie britannica Skins, non a caso scritta e interpretata da giovani, per immergerci nella realtà dell’adolescenza, adottando il punto di vista di coloro che la vivevano allora. Ciò che caratterizzava questa serie, così come tutte quelle che ne hanno seguito le orme, non era tanto la trattazione di tematiche particolari (depressione, bullismo, sessualità, uso delle sostanze, famiglie disfunzionali, ecc.), riscontrabili anche nelle prime generazioni dei teen drama, quanto le immagini e il significato che innervavano ciascuno di questi spaccati di umana esperienza. Non vi era, per così dire, metro di paragone, come se la cinepresa dovesse riprendere degli adulti in potenza nei loro goffi o deviati tentativi di emulare ideali appartenenti ad un’altra generazione. Le relazioni sentimentali e sessuali venivano dipinte senza i colori del romanticismo “disneyano”, l’uso delle sostanze non veniva criminalizzato ma descritto neutralmente nelle sue implicazioni, l’ambiente domestico perdeva centralità per mettersi sullo stesso piano degli altri mondi di un giovane, per il quale le occasioni di formazione si trovavano più spesso nella seconda famiglia scelta, quella degli amici, piuttosto che tra le mura domestiche. Il “primordiale” uso dei cellulari e dei primi prototipi degli attuali social faceva da prologo al profondo mutamento delle relazioni umane nell’era della tecnologia 4.0: il medium (telefono o, momento amarcord, msn) non veniva banalmente controllato dalle mani degli adolescenti per trasmettere suoni, icone e messaggi pensati indipendentemente da questo, ma la psiche stessa degli individui cominciava a strutturare la comunicazione in base allo strumento mediatico.

Stare attenti all’evoluzione dei teen drama, dunque, potrebbe essere un sano esercizio per avere contezza di un universo sociale cui non si appartiene, almeno per quanto riguarda coloro che adolescenti non lo sono più. Certo, non bisogna confondere l’invito a non disdegnare la visione delle serie sui giovanissimi con un giudizio omogeneo e riduttivo sul genere: esistono delle grandi differenze tra Riverdale e 13 Reasons Why, tra Baby e Skam, ecc. Tuttavia, senza sorvolare sulle incompletezze o sulle mancanze attoriali, sarebbe erroneo derubricarle a dei prodotti scadenti in sé per i contenuti che veicolano. Sembra che l’opinione pubblica e una parte consistente di critica non riescano a fare a meno del modello interpretativo che vede l’adolescenza con parametri che non le sono propri. Le reazioni, talvolta scomposte, si distribuiscono su di un ventaglio di valutazioni sui cui estremi troviamo, da una parte, il pregiudizio bigotto sul sesso, sull’omosessualità, sulla transessualità e sul consumo di droghe; dall’altra, il paternalismo apparentemente illuminato che addita i giovani, chiamandoli in causa per la loro spregiudicatezza, l’assenza di valori e la pigrizia mostrata nell’occuparsi delle “cose serie”. Cosa fanno tutto il giorno al cellulare? Non avranno mica una vita segreta? Perché non pensano a studiare e a gettare le basi del loro futuro? Ma davvero questi non ne vogliono sapere di lavorare? O mio dio, ma vendono dell’hashish per comprarsi un paio di scarpe firmate?

Andando al nocciolo della questione, ciò che non colgono simili opinioni è che, invece di analizzare le passioni e gli interessi delle nuove generazioni, stanno inconsciamente diagnosticando la crisi delle certezze e dei punti di riferimento di coloro che le esprimono. Imputando alla rappresentazione del mondo adolescenziale l’estraneità alla buona condotta dell’adulto, questo tipo di critica evidenzia un dato che, al di là di essere mediatico e culturale, è innanzitutto sociologico. Inutile scioccarsi o rimanere stupefatti. Le sequenze sceniche dei teen drama mettono in sovraimpressione storie di Instagram, stati su facebook e lo scambio di messaggi su whatsapp perché il pensiero dei giovani di adesso è veicolato dalla consapevolezza di essere sempre in connessione con altri e altre, e determinate azioni vengono compiute prevedendo quanto di esse debba essere reso pubblico tramite social; l’agire, in questo senso, è costituito da una dimensione pubblico-collettiva che sfugge al suo stesso attore. Le trame segrete dei personaggi, che tengono all’oscuro intere porzioni della loro quotidianità, corrispondo all’eterna incognita del genitore, ormai incapace di monitorare gli stimoli e gli spostamenti dei figli, anche a cause dell’illusoria pretesa di poterli controllare con una semplice occhiata sull’ultimo accesso di whatsapp. Come detto magistralmente in questo articolo sulla trap, il risvolto paradossale dei social è che nell’infosfera la privatezza dal focolare domestico si intensifica ancor di più: non si sente la necessità di condividere in famiglia, per incomprensioni e lontananze emotive, perché è possibile ricevere continuamente supporto psico-affettivo guardando nel proprio schermo. Le storie dei personaggi che sfuggono alle identità dominanti (maschi, bianchi, europei, eterosessuali, ecc.), sono sempre più spinte sotto al riflettore e raccontate fuori dalla retorica dell’eccezionalità. Molte giovani attrici assumono il punto di vista principale delle stagioni seriali, con la differenza femminile che fa da traccia agli accadimenti e alla dinamica dei personaggi, mettendone in evidenza i punti di affinità e di divergenza con i coetanei maschi. La sessualità si fa molto spesso fluida e narrata nella sua nuda verità, similmente alle dinamiche sentimentali. La scuola, l’istruzione e gli obblighi familiari vengono visti nel loro lato crudo: una serie di imposizioni che, davanti al crollo delle aspirazioni sociali legate al lavoro e allo sgretolamento dei diritti, si cerca di driblare e di schivare, o quantomeno di affrontare tatticamente, mettendo da parte le salde convinzioni etiche su ciò che è giusto perché così è, senza considerarne la praticità materiale.

Di qui, ovviamente, tutte le contraddizioni del presente. Le vicissitudini dei personaggi iper-connessi si intrecciano con le storie materiali di tutti coloro che subiscono violenza, online e offline. Altro che superamento delle diseguaglianze nel mondo postmoderno degli adolescenti: se si assiste ad una generale accoglienza della differenza e ad identità sempre più ibride, ciò non toglie che l’oppressione e la prevaricazione continuino ad esistere sotto altre sembianze. Classismo, razzismo, sessismo, omofobia serpeggiano nella perenne affermazione delle coscienze dei giovanissimi, specialmente in una fase delicata della vita in cui si tratteggiano i caratteri e si forgiano i pensieri, andando a strutturare i legami sociali, edificando gerarchie e asimmetrie tra i banchi di scuola, sotto casa o nel bar di quartiere, facendo coincidere desiderio di potere sugli altri con il piacere. Una marginalizzazione che molto spesso prende in prestito la ferocia della violenza fisica e simbolica, macchiando indelebilmente le vicende dei protagonisti. La riproposizione dei temi sociali nei teen drama, anche in modalità che risultano ripetitive tra le varie serie (basti vedere i parallelismi tra Elite e Baby), risponde a questa esigenza di raccontare la truculenza dell’adolescenza di oggi, fatta di depressioni, disaffiliazione, suicidi e solitudine.

È probabile che le piattaforme del servizio di streaming, prime tra tutte Netflix, abbiano deciso di riadattare il formato dei teen drama a seguito di un’attenta analisi dei dati, nonché dell’apporto leggasi estrazione di valore di scambio – che danno senza soluzione di continuità le interazioni sui social dei giovanissimi. La presa realistica di molte serie si deve di conseguenza a questa intermedialità, per così dire, tra televisione, canale di visione online e social network, attraverso i quali gli spettatori possono cambiare i destini delle serie e più o meno consapevolmente direzionarne i contenuti. Va da sé che il taglio della narrazione è piuttosto parziale, proprio perché cerca di desumere una tendenza dai dati che un produttore analizza o riceve. Di conseguenza, tutte le incongruenze e difetti delle vicende seriali ci sono e devono essere additati: l’estrema leggerezza con cui si narrano le differenze etnico-culturali e di classe in Elite, l’altrettanta parzialità di Baby nel far parlare la fetta ristrettissima e privilegiata dei giovani pariolini, i parossismi e gli episodi eccessivamente romanzati di 13 Reasons Why; per non parlare del livello della recitazione, in certi casi rasente picchi di incapacità espressiva difficilmente raggiungibili.

In ogni caso, la nuova diffusione dei teen drama dovrebbe far riflettere sui codici e sui rapporti che le e i giovanissimi stringono nella contemporaneità; essa dovrebbe invitarci ad ascoltare i nuovi linguaggi che il mondo degli adolescenti sta mettendo in campo. Solo così possiamo lasciarci alle spalle nostalgie per la crisi dei valori del Novecento e, casomai, rintracciare vie alternative per stare in società in quel magma composito e variegato che corrisponde alle forme di vita delle nuove generazioni. Anche perché spoiler – è l’inconosciuto, l’inesplorato a trovare il farmaco delle patologie del presente. Ed è più probabile che venga da chi non ha alcun attaccamento simbolico, materiale e emotivo per i tempi che furono.