Schei

“Tutte le storie che racconto sono vere”. Alessandro Rossetto

1 / 4 / 2014


Il centro geografico della Piccola patria che dà il titolo al lungometraggio d'esordio di Alessandro Rossetto - presentato con successo nella sezione Orizzonti dell'ultima rassegna veneziana -  è l'Hotel Antares, pluristellato mostro di cemento edificato in un imprecisato punto del Nordest. Appare subito, in apertura. Visto in perpendicolare dall'alto, con le due piscine azzurre che si stagliano su un fondale color terra, fa pensare a un'oasi. Un coro alpino accompagna la ripresa aerea intonando “Vardate Intorno” (guardati attorno): attorno non c'è il deserto, ma qualcosa di simile. Un territorio indistinto di capannoni industriali, piccoli laboratori, aziende agricole, villette “da geometra”, amalgamato in un tutto che sa di fango, degrado e perdita di senso. Quando la macchina da presa scende in uno spazio interno assistiamo all'incontro tra il corpo di un uomo e quello di una giovane donna, in una serie di movenze che richiamano il linguaggio di Pina Bausch, del suo teatro danza. La parola che memorizziamo è “schei”. Soldi.

 Il primo atto di coraggio di Alessandro Rossetto, solida esperienza di  documentarista, è quello di mantenere  la prevalenza del dialetto veneto sottotitolato a sostanziare i dialoghi dei suoi attori. Un'assunzione di rischio che scommette e vince, conferendo verità e spessore a una piccola storia di provincia che, nel Triveneto come altrove, ruota attorno alla necessità di riscatto di una generazione rimasta schiacciata nel conflitto tra civiltà industriale e contadina. Uno scontro culturale accelerato dal tracollo economico, che dietro a sé sta lasciando macerie, meschinità camuffate, aspirazioni frustrate, odio xenofobo. Tra una (autentica) kermesse separatista di Indipendenza Veneta, un ballo western di gruppo, un poligono di tiro. Da questo teatro rabbioso e razzista Luisa e Renata, addette sottopagate alle pulizie dell'albergo, vogliono fuggire. Vogliono andare in Cina, con ciò marcando una bella distanza da quando i desideri di fuga di altri tempi e altre coordinate esistenziali erano rivolti verso l'India o il Messico. Per farlo architettano un ricatto sessuale che sa di atto di giustizia.

 Maria Roveran (che scrive e interpreta anche due canzoni in dialetto) e Roberta Da Soller sono la seconda scommessa vinta dal regista. Entrambe esordienti, mettono in campo personalità diverse accomunate dalla stessa sofferenza, immergendosi senza sottrazioni in una sceneggiatura non rigidamente perimetrata, rendendo palpabile il desiderio di conquista di un altrove “con ogni mezzo necessario”. Mettendo letteralmente in gioco i loro corpi. Suggerendo di essere a loro volta gravate da una zavorra culturale che impedisce di mettere a segno con chiarezza sentimenti, affetti, amicizia, amore. Attorno personaggi e ambienti che caratterizzano l'arenarsi di un intero territorio, di un'intera generazione. E' odioso e laido il bersaglio del loro piano. Schiacciato dalla crisi e razzista dentro il padre di Luisa. Fragili le mogli e le sorelle. Vulnerabile e abituato alla sterpaglia il giovane albanese strumento inconsapevole del ricatto. Non c'è vera ragione di speranza nemmeno nel vecchio che ci dice che “finché siamo vivi abbiamo tutti la stessa età”.

 Lo sguardo di Rossetto scende a spirale dentro un vuoto che sta divorando i valori destinati convenzionalmente a tenere in equilibrio le dinamiche di convivenza, di tolleranza, di solidarietà. Dall'alto, sopra a un territorio devastato, scende fino dentro il sentire dei suoi personaggi. Che è per tutti comunque, nessuno escluso, un sentire confuso, appannato. I “schei”, certo. Ma il racconto sembra voler indicare soprattutto il superamento di una soglia di non ritorno, che non riguarda solo una macroregione del nostro paese. Se  le vicende che danno vita al film a dire dell'autore “sarebbero potute accadere in una qualsiasi provincia del mondo” emerge comunque la peculiarità di uno scenario in cui, più che altrove, hanno attecchito parole d'ordine che hanno sfruttato ignoranza e malessere, lacerazioni e avidità, azzeramento della memoria: in un tempo non troppo lontano gli immigrati eravamo noi. I Menon e i Camielo, l'impoverimento del sistema delle relazioni, lo slittamento verso un luogo dove alla disperazione subentra la perdita del sé non sono il risultato di una calamità naturale. Ancora una volta e come sempre il responsabile unico è l'Uomo. 

Piccola Patria Trailer