Sindrome di Williams

“Un film con loro, non su di loro: il traguardo più grande che abbia raggiunto”. Louise Archambault

18 / 6 / 2014

Per una volta l'estensione del titolo che la distribuzione italiana ha imposto a Gabrielle, secondo lungometraggio della canadese Louise Archambault, sembra avere un senso. Un amore fuori dal coro funziona infatti egregiamente come doppio senso: mettendo in relazione quanto avviene nella trama del racconto con la capacità di descrivere una storia d'amore cinematografica in una chiave interamente sottratta alle coordinate abituali del caso. Perché in questo caso l'amore nasce durante le prove di un coro molto particolare, quello de Les Muses di Montreal, un centro di arti dello spettacolo che offre una formazione professionale in canto, danza e teatro a persone portatrici di handicap come il ritardo mentale, il ritardo nello sviluppo o le limitazioni fisiche e sensoriali.

Folgorata dall'incontro casuale con questa realtà la regista ha riadattato sul personaggio di Gabrielle una sceneggiatura che stava scrivendo. La protagonista nella vita si chiama Gabrielle Marion-Rivard ed è affetta dalla sindrome di Williams: un deficit mentale associato a un carattere estremamente socievole e a una rara predisposizione alla musica e all'orecchio assoluto. Che non impedisce a chi ne è colpito di innamorarsi e di ricercare, come ogni essere umano “normale”, la felicità degli affetti. Accade infatti che cantando in un coro di ragazze e ragazzi realmente sofferenti di lievi deficienze intellettuali si innamori, ricambiata, di Martin, interpretato con bella sensibilità da Alexandre Landry, che invece è attore professionista.

Premiato in varie occasioni e all'ultima rassegna di Locarno, rappresentante per il Canada all'Oscar, Gabrielle è un piccolo film connotato da un grande spessore. Unica autrice di soggetto e sceneggiatura  Archambault fa muovere la sua camera a mano con grande leggerezza, ma senza timore di accostarsi a distanza anche molto ravvicinata ai suoi interpreti, accompagnandoci a esplorare una realtà che il cinema raramente frequenta. Realizzando sul piano visivo quasi un ibrido con il documentario e suggerendoci però che deve essere invece stato fatto contestualmente un impegnativo lavoro di prove e di affiatamento per ottenere quell'effetto di naturalezza che è la cifra stilistica più convincente di tutto il film. Il testo della canzone che i ragazzi devono portare a un'importante manifestazione, accompagnando l'indiscussa star canadese Robert Charlebois (nel ruolo di se stesso), dice “non sono altro che un ragazzo normale”: è qui che l'autrice trova felicemente il suo centro, è qui che vince la sua scommessa.

Gabrielle desidera infatti una vita “normale”, dove sia possibile essere autosufficienti, avere un appartamento, farsi da mangiare, innamorarsi, fare l'amore. Pur restando consapevole della propria diversità e dei limiti che comporta.  Attorno alla quale una sottile e precisa rete di scrittura riesce a dare fisionomia e credibilità ai personaggi di contorno: una sorella amatissima che vorrebbe raggiungere il suo uomo in India, una madre in carriera saldamente arroccata nel proprio pragmatismo, un innamorato appena un po' più adulto di lei bisognoso di liberarsi dall'eccesso di protezione della madre, gli insegnanti e la loro pazienza, il loro problemi. La loro vita quotidiana.

C'è molto coraggio e molta sensibilità nell'affrontare anche la parte sensuale (non sessuale) del rapporto tra Gabrielle e Martin, due soggetti che la convenzione dominante vuole handicappati. Tema che abitualmente il cinema aggira così come fa quando attiene al rapporto tra anziani, argomenti d'altra parte scomodi e imbarazzanti anche fuori dal contesto cinematografico. Archambault lo scioglie nella complessità delle emozioni che il suo racconto suscita e incentiva anche attraverso la sua parte musicale, lo sottrae a qualsiasi inclinazione al melodramma e alla facilità della commozione, ci porta a guardare loro con tenerezza e a chiederci se il nostro grado di conoscenza del loro modo di esistere non potrebbe essere più elevato, o almeno più attento e curioso. Più “normale”, verrebbe da dire. E finalmente fa piazza pulita di tutti i corpi patinati, perfetti e senza anima straripanti da schermi e teleschermi sentimentali. 

gabrielle